E per quanto concerne gli occupanti degli UFO? Sembrano dividersi in due categorie, grandi e piccoli, con prevalenza per i primi. Gli umanoidi di Hopkinsville e molti di cui abbiamo testimonianza… sono molto simili, all’aspetto, al “piccolo popolo” della leggenda e della storia: elfi, folletti, eccetera. Vengono spesso descritte teste grosse, piedi affusolati e in genere, teste che s’innestano direttamente sulle spalle senza che appaia evidente la presenza del collo. Stando alle testimonianze gli umanoidi più grandi sono di dimensioni umane o leggermente maggiori, e in genere sono armoniosamente formati. Qualcuno li ha definiti belli. I più piccoli sono in genere descritti come alti poco più d’un metro…
Debbo quindi lasciare che sia il lettore a giudicare quale peso attribuire agli incontri ravvicinati del terzo tipo in rapporto all’intero problema degli UFO, sempre tenendo presente che in futuro potremmo scoprire che i casi di apparizioni di umanoidi sono la chiave dell’intero problema.
Kirill Markov socchiuse gli occhi al vento che spazzava la strada. Per quanti anni potesse vivere, non si sarebbe mai abituato al freddo. Il gelo gli si infilava sotto il cappotto, gli mordeva le ossa.
Maria stava parlando all’autista della macchina ferma accanto al marciapiede davanti al loro palazzo, e intanto Markov batteva i piedi e aspettava sulla porta. I vicini guardavano dalla finestra, naturalmente con la massima discrezione, ma Markov vedeva dietro le tende le loro ombre. E per quanto la macchina non avesse contrassegni particolari, tutti sapevano che era un’auto del governo. Markov intuiva il misto di curiosità e terrore che stava passando, come corrente elettrica, negli appartamenti.
«È il professore!»
«Lo portano via? In pieno giorno?»
«Vieni a vedere.»
«Anche sua moglie?»
«No, non mi piace.»
«Però non sembrano impauriti.»
«Allora forse non è come pensiamo.»
«Di solito arrivano di notte…»
«Bah! Io lo so come lavorano. Magari il professore “crede” che lo portino all’aeroporto o in qualche bella università. Forse ne è convinta anche sua moglie. Però guardalo bene, perché è l’ultima volta che lo vedi.»
«No!»
«È così che hanno portato via mio fratello Grisha. Gli hanno detto che lo trasferivano a Kharkov, per un nuovo lavoro. È partito col sorriso sulle labbra. E lo hanno sbattuto su un carro bestiame che lo ha portato diritto in Siberia. L’hanno tenuto lì per otto anni. Quando l’hanno rimandato a casa a morire, era un uomo distrutto.»
«Ma cosa potrebbe aver fatto il professore…?»
«È un pensatore. E pensare certe idee non conviene.»
Markov sorrise fra sé, immaginando le conversazioni sussurrate che correvano attorno a lui di appartamento in appartamento.
“No, vicini” avrebbe voluto dire. “Non è come pensate. Il governo mi stima per la mia capacità di pensare.”
Maria terminò di parlare all’autista, si rialzò, si girò verso Markov. Indossava solo l’uniforme di servizio, e a proteggere il suo corpo massiccio aveva soltanto una giacca sottile. Markov non aveva mai capito come facesse sua moglie a sopportare il freddo. Eppure i suoi piedi erano sempre iceberg, quando s’infilava a letto.
«Dai, vieni» gli urlò lei, impaziente.
Markov raccolse la valigia, scese le scale, afferrò la maniglia della portiera.
«Dietro» disse Maria. «Tu devi stare dietro.»
«Oh. Vedo.» Markov aprì la portiera posteriore, si bloccò. Maria gli era a fianco, con la solita espressione accigliata in viso.
Markov la fissò negli occhi. «Può… Può darsi che non ci rivedremo per parecchio tempo.»
Lei annuì, imperterrita.
«Be’… Abbi cura di te, Vecchia mia.»
«Anche tu» mormorò lei.
Markov le mise una mano sulla spalla e lei girò la testa, per lasciarsi baciare sulla guancia. Dopo un bacio frettoloso, lui salì sull’auto. Maria chiuse la portiera e l’autista accese il motore, che partì con un ululato orribile.
Quando la macchina si staccò dal marciapiede, Markov si girò a salutare la moglie. Maria era già tornata sotto il portone. Per un motivo inesplicabile, lui avvertì un nodo alla gola.
Il Laboratorio Ricerche Navali sorge lungo il fiume Potomac, quasi direttamente sulla rotta dei jet di linea che atterrano al National Airport di Washington.
Ramsey McDermott, compresso su uno dei piccoli sedili dell’aereo tra il finestrino e l’uomo d’affari ipertiroideo che nei quaranta minuti di volo non aveva fatto altro che consultare carte e battere cifre su una calcolatrice tascabile, sorrise acidamente fra sé quando il jet superò l’LRN. Sul tetto dell’edificio centrale si alzava la venerabile antenna parabolica del radiotelescopio da quindici metri.
“Non possono certo ricevere i segnali di Giove con quella ferraglia” si disse McDermott.
Spinto dalla fretta di avere un incontro personale con Tuttle, aveva preso due aerei: prima l’Eastern 727 da Boston a New York, e subito dopo era salito sul jet New York-Washington.
L’ufficio di Tuttle non si trovava né all’LRN né al Pentagono. Il vicecomandante aveva un ufficio lussuosissimo in un palazzo nuovo che la marina aveva preso in affitto a Crystal City, uno degli enormi grattacieli in vetro e acciaio da cui la zona aveva preso nome.
«McDermott gli telefonò all’aeroporto e stabilirono di vedersi in un ristorante del centro.»
Tamburellando impaziente sul ripiano del tavolo, Ramsey McDermott aspettò che il vicecomandante Tuttle scegliesse nel menu gigantesco il suo pranzo.
“Hanno fatto meno attenzione ai particolari quando hanno bombardato Pearl Harbor” grugnì fra sé il vecchio.
Tuttle aveva insistito perché si vedessero a un ristorante all’aperto.
«È più difficile che ci siano microfoni spia» aveva sussurrato, serissimo.
Discussero i problemi legati al trasferimento del personale ad Arecibo. Tuttle chiudeva bocca ogni volta che un cameriere o un cliente si avvicinavano al loro tavolo. McDermott, irritato, per il freddo e per il frastuono del traffico, lottava per mantenersi calmo.
«Se ci serve Arecibo» disse alla fine Tuttle «avremo Arecibo, anche se dovessi convincere il presidente a dichiarare l’emergenza nazionale.»
«E potrebbe farlo?»
Tuttle annuì solennemente. «Se sarà necessario.»
Per la prima volta, McDermott restò impressionato dal potere del giovane ufficiale.
«C’è questo Stoner, però» continuò Tuttle. «È lui la chiave di tutto. Ne abbiamo bisogno per correlare i rilevamenti ottici ai segnali radio.»
«Lo farà» promise McDermott.
«Non ha chiesto un avvocato? Non ha tentato di fuggire dalla casa dove l’abbiamo rinchiuso?»
«No. Ha in corso una causa di divorzio. Credo che sia felicissimo di starsene in un posto dove gli avvocati e la sua ex moglie non possono trovarlo.» McDermott sogghignò. «E, in più, ha la solita vecchia curiosità scientifica… Una dose fatale. È un prurito che non potrà grattarsi se non sta al nostro gioco.»
«Se possiamo evitarlo, non vorrei chiedere la collaborazione di altra gente» disse Tuttle. «Lo sa Dio se non ci sono già troppe persone coinvolte in questo progetto. Non voglio che qualcun altro sappia a cosa stiamo lavorando. Non ancora.»
«Stoner collaborerà.»
«E può ottenere altre foto da Big Eye?»
«È stato uno di quelli che l’hanno progettato e costruito. Quelli della NASA, a Goddard, lo stanno provando prima di passarlo ufficialmente al consorzio di università che lo userà. La data prevista per la consegna è il primo gennaio. Fino a quel momento, a Goddard saranno tutti felici di aiutare un vecchio amico. Stoner ha lavorato con quella gente per cinque anni. Passandogli qualche foto di Giove, sono convinti di non fare nient’altro che aiutare uno che è stato silurato.»
«E Stoner non ci darà guai? Resterà dove l’abbiamo messo?»
«Sì.»
«Ne è sicuro? Assolutamente certo?»
McDermott appoggiò i robusti avambracci sul tavolo. «Senta, in quella casa ha tutto quello che gli serve. Ma io ho intenzione di fare un’altra cosa. Gli manderò una ragazza, una studentessa, una certa Jo comesichiama. Una bomba. Gliela sbatteremo tra le braccia e lasceremo che la natura segua il suo corso. Lei lo terrà occupato. E lo renderà felice di restare dov’è.»
Tuttle ebbe una smorfia di disapprovazione. «È una cosa peccaminosa.»
«Sicuro.»
«Be’» disse il vicecomandante «almeno spero che questa ragazza abbia firmato l’impegno alla segretezza.»
Markov si appisolò sul sedile posteriore, e intanto l’auto correva nel grigio pomeriggio d’ottobre sull’autostrada interminabile: chilometri e chilometri di campagna piatta, deserta. Un sottile manto di neve copriva il terreno. I campi erano nudi. Gli alberi spogli, sullo sfondo di un cielo cupo.
Madre Russia, rifletté Markov, semiaddormentato. La vera forza della nostra nazione: il suolo, tutta la sua vastità, tutto il suo potere senza tempo.
Il sole era una macchia giallastra all’orizzonte quando finalmente la macchina si fermò davanti a una cancellata. Ai lati del cancello, due soldati. A parte la piccola garitta di legno, Markov non vide attorno segni di altre costruzioni. La cancellata sembrava messa a guardia del vuoto, a perdita d’occhio.
L’autista parlò ai soldati e Markov aprì la valigetta per mostrare loro i suoi documenti. Furono cortesi, spalancarono subito il cancello.
Quando la macchina si lanciò sulla strada asfaltata, Markov ricordò improvvisamente di non aver mangiato più nulla dalla colazione. Il paesaggio si stendeva monotono in ogni direzione, vuoto e grigio. Lo stomaco di Markov si mise a brontolare. “Sarebbe lo stesso se mi stessero portando in Siberia” pensò. “Per un moscovita come me, questa terra è l’esilio.”
Era completamente buio quando giunsero al secondo cancello. La garitta lì era più grande, e di pietra. Altri soldati studiarono i suoi documenti, alla luce di una torcia elettrica.
«Professor Markov, è atteso. Un momento, per favore.»
La guardia scomparve nell’edificio di pietra. Pochi secondi dopo, ne uscì di corsa una ragazza, i capelli al vento, il cappotto col collo di pelo sbottonato.
«Professor Markov!» esclamò, aprendo la portiera e sedendosi al suo fianco. «Cominciavamo a preoccuparci; è molto in ritardo.» Batté sulla spalla dell’autista. «Avanti diritto, poi prenda la seconda a sinistra.»
Prima che Markov riuscisse a dire qualcosa, la ragazza si volse verso di lui. «Sono Sonya Vlasov… Sono una semplice laureata, e sto facendo qui le ricerche per la mia tesi di specializzazione, ma il direttore mi ha chiesto di farle da guida.» Era quasi senza fiato per l’eccitazione.
Markov non prestò la minima attenzione alle file e file di grandi radiotelescopi che mandavano bagliori metallici sotto i lampioni della strada. Vide solo che Sonya Vlasov era giovane, eccitata, un po’ grassottella, e che aveva seni enormi.
«Sarà la mia guida personale?» le chiese con un sorriso paterno.
«Oh, sì. Sarà mio piacere fare in modo che abbia tutto ciò che vuole o che le serve.»
«Un pensiero davvero delicato.»
La ragazza allontanò con una mano i lunghi capelli castani, e a quel gesto il suo cappotto si aprì ancora di più.
«Benvenuto all’Istituto Landau di Radioastronomia, professor Markov!» gli disse allegramente.
Markov annuì cortesemente. “Forse, a conti fatti, l’esilio non sarà poi troppo orribile” pensò.