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Quindi, se è possibile comunicare, pensiamo di sapere quale sarà il soggetto delle prime comunicazioni. Tratteranno dell’unica cosa che senza dubbio le due civiltà hanno in comune: la scienza.

Carl Sagan

The Interstellar Voyager — 1978


Stoner passeggiava avanti e indietro nel centro di controllo, caldo e affollato, aggirando la giungla di sedie e uomini e donne in piedi. Una dozzina di tecnici sedevano alle consolle elettroniche, gli auricolari in testa, gli occhi incollati agli schermi verdi.

A parte lo scintillio degli schermi e dei pulsanti luminosi sulle tastiere, la stanza era al buio. E le persone erano troppe, emettevano calore e ansietà, annullavano l’effetto dei condizionatori d’aria.

Stoner si muoveva freneticamente, come una belva in gabbia, fissando accigliato le schiene dei tecnici, i numeri che apparivano sugli schermi.

Si aprì la porta d’ingresso, entrò un raggio di sole, insopportabile. Tutti sobbalzarono, si agitarono. “Vampiri” pensò Stoner. “Siamo una tribù di osceni vampiri. La luce del giorno ci fa paura.”

Era Markov. Chiuse la porta, e in punta di piedi, col suo passo dinoccolato, si avvicinò a Stoner.

«Niente?» sussurrò.

«Buio assoluto» rispose Stoner. «Sono passate quasi sei ore, e nessuna reazione.»

Markov fissò lo schermo più vicino. «Non so bene se dovrei sentirmi allegro o depresso.»

«Depresso» disse, secco, Stoner.

Il russo scrollò le spalle. «Ho un messaggio per lei dal laboratorio fotografico. Hanno ricevuto le ultime foto ad alta definizione da Greenbelt.»

Stoner distolse gli occhi dallo schermo. «Da Big Eve? Le hanno viste? Come sono?»

«Non troppo buone, hanno detto.»

“Cosa ti aspettavi?” si chiese Stoner. “Non c’è niente che vada per il verso giusto. Non una sola maledetta cosa.”

«Sarà meglio che vada a dare un’occhiata.»

«Mi hanno detto che per ora le foto mostrano solo una macchia indistinta. Sembra la testa di una cometa.»

«Cristo! Non ditelo quando c’è McDermott nei paraggi. Non aspetta altro per tirarsi indietro sulla missione di rendez-vous.»


Il dottor Marvin Chartris si appoggiò all’indietro sulla poltrona e guardò dalla finestra del suo ufficio a pianterreno. Fuori, sul prato mal tenuto del museo, due cani si stavano montando con tutto l’entusiasmo possibile, sotto gli occhi curiosi di una dozzina di bambini.

“Ah, la primavera di Manhattan” pensò il dottor Chartris.

Squillò il telefono.

Chartris lanciò un’occhiata alla porta aperta dell’ufficio. Come al solito, la sua segretaria non si vedeva. Una volta, a chi gli aveva chiesto quanta gente lavorasse nel museo, Chartris aveva risposto: «Circa un terzo del personale.» La sua segretaria faceva parte della maggioranza.

Con un sospiro, alzò il ricevitore. «Planetario» disse.

«Marv» gracchiò la voce all’altro capo del filo «sono Harry Hartunian.»

«Ciao, Harry. Come vanno le cose a San Diego?»

«Benissimo. Folle oceaniche. E tu?»

«Tra un po’ crollo.»

«Sei sotto pressione? Mi dicono che a New York col bel tempo si sta peggio del solito.»

«E quand’è che abbiamo il bel tempo?» ribatté Chartris.

Hartunian rise. «Ehi, Marv, sai niente di un’attività insolita di macchie solari? Di eruzioni solari? Ho cercato di farmi dire dall’osservatorio di Kitty Peak cosa sta succedendo, ma hanno la bocca cucita.»

«È successo anche a te?»

«Come sarebbe a dire, anche a me?»

Chartris si agitò sulla poltrona, irrequieto come un ragazzo precoce regolarmente ignorato dall’insegnante.

«Da martedì scorso» spiegò «ricevo telefonate di continuo. Tutti vedono aurore boreali…»

«Già. Stanotte ce n’è stata una grandiosa qui.»

«Per quanto ne so, non si registra nessuna attività solare insolita. Ho sentito Kitty Peak, lo Smithsonian, persino qualche amico della NASA. Niente eruzioni solari, e nemmeno novità di rilievo nel campo delle macchie solari.»

«Allora, cosa diavolo è stato a causare l’aurora boreale di stanotte? Noi non abbiamo aurore boreali… Insomma, qui non se ne sono mai viste!»

Chartris si grattò la testa. «Mi venga un colpo se lo so, Harry. Però non è successo solo da voi. La settimana scorsa, l’aurora boreale è stata vista a Denver, Salt Lake City, persino a Las Vegas. Era più forte dei neon.»

«E a New York?»

«Scherzi? Qui ci va già bene se vediamo la luna piena.»

Hartunian non rise. «Cosa sta succedendo, Marv? Hai qualche idea?»

«Assolutamente nessuna. In ogni caso, è una cosa molto insolita.»

«Insolita? È una cosa da far paura!»


La sala riunioni del centro computer era troppo piccola per accogliere tutto il personale del Progetto Jupiter, e Ramsey McDermott ne era felicissimo. Voleva solo la gente più importante, non i tirapiedi.

«Lasciamo lavorare i peones» borbottò fra sé, percorrendo i pochi metri di corridoio che dal suo ufficio portavano alla sala riunioni.

McDermott si era scelto l’ufficio più spazioso a pianterreno del centro computer. Era l’ufficio più lussuoso e comodo di tutta l’isola, a eccezione di quello del capitano di marina che comandava il personale militare. Il capitano Youngblood aveva un ufficio più grande, che però si trovava nella vecchia sede dell’amministrazione militare, con condizionatori d’aria scassati e la pista d’atterraggio davanti. Il vicecomandante Tuttle aveva un ripostiglio per le scope vicino all’ufficio del capitano.

McDermott, invece, aveva il condizionamento d’aria centrale e la tranquillità rilassante del centro computer. Il suo ufficio si addiceva perfettamente al direttore del progetto, al celebre scienziato che faceva rapporto direttamente a Washington, all’uomo che sarebbe stato candidato al Nobel, se tutto funzionava a dovere.

Badava sempre ad arrivare in ritardo a quelle riunioni settimanali dei capigruppo, in modo che tutti fossero già presenti: Zworkin e i suoi due assistenti, più il loro linguista, Markov; Cavendish, rappresentante della NATO; i tre cinesi, che ancora non avevano aperto bocca alle riunioni; Reynaud, l’inviato del Vaticano e Thompson, che rappresentava il gruppo di McDermott, con due dei suoi assistenti.

Uno dei quali era Stoner.

McDermott odiava la presenza di Stoner: era un rompiballe, lo era stato sin dall’inizio. Continuava a insistere perché si preparasse la missione di rendez-vous con la nave aliena.

“Vuole diventare direttore del progetto al posto mio” rifletté McDermott. “Be’, non ci riuscirà mai. Ho la sua ragazza e sono il pezzo più grosso del progetto… E non mollerò! Né l’una né l’altra cosa!”

Quando entrò in sala riunioni e si portò a capo del tavolo, stava ridacchiando fra sé. Tolse pipa, accendino, tabacco, scovolini da diverse tasche del vestito e li dispose sul tavolo, poi si accomodò. Ai saluti dei capigruppo rispose con un solo cenno della testa. Era l’unico a indossare il vestito, o anche solo la giacca; tutti gli altri erano seminudi, sembravano gente in ferie. Persino i russi portavano camicie con le maniche corte.

“È per questo che sono seduto a capo del tavolo” si disse McDermott. “Io mantengo la mia dignità.”

Spostò gli occhi lungo il tavolo. «Dov’è il dottor Reynaud?»

Nessuno lo sapeva.

McDermott diede un’occhiata alla sua segretaria, una dipendente civile della marina di mezza età, seduta in un angolo sulla sinistra, il registratore pronto.

«Era informato della riunione» si scusò la donna.

«Telefonategli» ordinò McDermott. «Trovatelo.» Poi, girandosi verso il gruppo: «Cominceremo senza Reynaud.»

La segretaria fece partire il registratore, poi uscì di corsa.

«Allora» tuonò McDermott «qual è la situazione?»

Gli altri si scambiarono occhiate, chiedendosi chi dovesse essere il primo.

Markov si tirò la barba, poi disse: «Stamattina abbiamo iniziato a trasmettere diversi messaggi radio alla nave…»

«Sì» intervenne Zworkin. «Ho qui una diapositiva che mostra i tipi di messaggi trasmessi e le frequenze che usiamo.» Sfiorò un pulsante inserito nel tavolo, e sullo schermo in fondo alla stanza apparve un elenco.

«Non c’è stata risposta» disse McDermott.

«Non ancora» ribatté Zworkin. «Però sono passate solo poche ore.»

«Da Maui sta per arrivare l’impianto laser» disse Jeff Thompson.

«Su che frequenza opera?»

«Sull’infrarosso… Uno virgola sei micron.»

«Allora non è un laser al CO2

«No. Al neodimio.»

Stoner chiese: «Non potremmo usare il laser come radar, oltre che come canale di comunicazione? Potremmo ottenere dati ad altissima definizione sull’oggetto.»

«Ci servirebbe un impianto ricevente ad alta definizione» disse Thompson.

«Che costerebbe tempo e denaro» aggiunse McDermott.

«Però a Maui hanno l’impianto ricevente, no, Jeff?» insistette Stoner. «Usano il laser per seguire i satelliti.»

“Un rompiballe nato” ripeté fra sé McDermott. Ad alta voce, disse: «Stiamo ottenendo buone informazioni sulla forma e le dimensioni col radar, no?»

Thompson fissò Zworkin, che gli sedeva di fronte.

«Prego» disse il russo, gesticolando con le mani.

Thompson spinse un po’ indietro la poltroncina, sfiorò i comandi del proiettore all’estremità del tavolo.

«Come ha detto Keith» iniziò «abbiamo usato le frequenze di comunicazione anche come radar, registrando gli echi che ci tornano dall’astronave. I risultati che abbiamo sono… enigmatici.»

Sullo schermo apparve un’altra diapositiva. Mostrava una forma ovale. All’interno c’era un ovale allungato, una specie di sigaro piuttosto grosso.

«Che accidenti è?» grugnì McDermott.

«Il nostro visitatore» rispose Thompson. «Alle frequenze più basse, l’oggetto ha la forma di un uovo irregolare e inconsistente. Alcuni indizi sembrerebbero indicare che la forma pulsa, ma potrebbe trattarsi di anomalie dei nostri strumenti. Stiamo controllando. In ogni caso, le pulsazioni, se sono pulsazioni, non seguono ritmi regolari. Direi che è più probabile si tratti di interferenze degli strumenti.»

«Però è inconsistente, non solida» disse Cavendish.

«Esatto.»

«Come una nube di gas» disse McDermott.

«Una nube di plasma» lo corresse Thompson, «Un gas ionizzato che riflette le onde radar a bassa frequenza.»

«Quanto è grande la nube?»

«Oh, un centinaio di metri, centoventi. Più o meno, ha le dimensioni di un campo da football.»

«E la cosa che c’è dentro?»

«Quella dà una riflessione piuttosto solida alle frequenze più alte. È venti metri per cinque. Lo spettro di riflessione è simile a quello del metallo, stando alle prime analisi, o della roccia ad alto contenuto metallico. Sembra che la superficie sia parecchio liscia.»

«A me pare una cometa» mugugnò McDermott.

«Non c’è coda» ribatté Thompson.

«E le foto di Big Eye?»

Thompson si girò verso Stoner.

«Può abbassare le luci, per favore?» urlò Stoner, per farsi sentire dal tecnico che, nella stanza accanto, faceva da balia al proiettore automatico di diapositive.

“Deve sempre distinguersi” borbottò fra sé McDermott.

Stoner fece partire una diapositiva che mostrava una macchia indistinta su uno sfondo scuro. Si alzò, raggiunse lo schermo che arrivava al soffitto.

«Non è visibile una grande struttura…»

«A me pare una maledetta cometa» ripeté McDermott.

Stoner strinse i denti, poi proseguì: «C’è un vecchio trucco degli astronomi,., Jeff, ti spiace far partire la diapositiva seguente?»

La stessa foto apparve sullo schermo, ma questa volta in negativo. Il fondo celeste era bianco-grigiastro, la macchia indistinta grigio scuro.

«Nella foto in negativo si intravede una struttura all’interno della nube» disse Stoner. «In particolare, se socchiude gli occhi, riuscirà a vedere l’oggetto a forma di sigaro che il radar ha rilevato.»

«Di cos’è composta la nube?» chiese Zworkin.

«Sino a ora» disse Stoner «l’analisi spettrografica ci ha dato solo uno spettro solare riflesso. Di qualunque cosa la nube sia composta, riflette la luce del sole quasi come un perfetto specchio.»

«Uno specchio non solido e pulsante» disse Cavendish.

Stoner si rimise a sedere, premette il pulsante del proiettore. L’immagine svanì dallo schermo, e i pannelli fluorescenti sul soffitto si riaccesero.

«È un enigma» disse Zworkin.

«È una cometa» insistette McDermott.

«Troppo piccola…»

«Un frammento di cometa» disse Big Mac, «Ci siamo convinti di aver scoperto un’astronave aliena, e invece è solo un pezzo di cometa.»

Markov scosse la testa. «Non posso crederlo.»

«Ma apra gli occhi!» tuonò McDermott, «È una sfera di gas che circonda un pezzo di roccia metallica.»

«Non si comporta da cometa» disse Stoner. «Non ce chioma, non c’è coda. È troppo piccola. Non possiede lo spettro di una cometa.»

«È un frammento anomalo espulso da una cometa più grande» disse McDermott. «Vi ricordate Kohoutek, nel settantatré? Doveva essere la cometa del secolo, e invece è finito tutto in nulla. Quella cosa è solo un pezzo di roccia con un po’ di gas attorno. Stiamo dando la caccia a un fantasma.»

«Non sono d’accordo» disse dopo un po’ Zworkin. «Se anche però lei avesse ragione, professor McDermott, dobbiamo lo stesso studiare l’oggetto con estrema cura. Se anche si tratta di un corpo naturale, può dirci molto sulla natura del nostro Sistema Solare.»

«Sarà difficile giustificare tutto questo spreco di talenti e di soldi per un piccolo frammento di cometa» ribatté McDermott.

«Non è una cometa!» scattò Stoner. «Nessuna cometa ha mai espulso una nube che riflette la luce del sole come uno specchio. Nessuna cometa ha mai cambiato traiettoria dopo aver superato Giove, non così bruscamente.»

McDermott scrollò le spalle. «Il cambiamento di traiettoria, probabilmente, è stato causato da una perdita di gas. Un po’ di gas si è disperso nello spazio, la cosa ha ricevuto una spinta e si è diretta verso di noi. Siamo tutti saltati alla conclusione che lo abbia fatto per una decisione intelligente.»

«Il rasoio di Ockham» mormorò fra sé Thompson.

«E poi non si avvicinerà troppo alla Terra» continuò McDermott. «Ci sfiorerà a una distanza che è circa il quadruplo dell’orbita lunare, non è vero, Stoner? Ho ragione?»

«Se non cambia di nuovo traiettoria.»

«Cosa? Magari per atterrare sul prato della Casa Bianca? Vogliamo scommetterci?»

«E i segnali radio da Giove? Cosa li ha originati?»

«Una coincidenza» rispose subito McDermott. «I segnali radio da Giove erano un fenomeno naturale, e quando ha guardato in quella direzione con Big Eye ha scoperto un frammento di cometa e si è ficcato in testa che si tratta di un’astronave aliena.»

Stoner lanciò un’occhiata di fuoco al vecchio.

McDermott lasciò vagare lo sguardo lungo il tavolo, sfidando tutti a mettere in discussione le sue conclusioni.

«Benissimo, allora» disse. «Ecco cosa faremo. Mi sembra troppo presto per comunicare a Washington che l’oggetto è di origine naturale. Potremmo anche sbagliarci, e il PROGETTO JUPITER verrebbe immediatamente interrotto.»

Markov tamburellò con le dita sul piano del tavolo. «Se esiste anche solo la minima probabilità che questo oggetto sia un visitatore lanciato da un’altra civiltà, abbandonare il progetto sarebbe una negligenza criminale. Se anche la possibilità è infinitesima, perché sciogliere il nostro gruppo quando tra qualche settimana, al massimo tra pochi mesi, “sapremo” la verità, quale che sia? Perché non continuare a studiare l’oggetto con ogni mezzo a nostra disposizione, partendo dall’ipotesi che “sia” un visitatore intelligente, e che “possa” rispondere ai nostri segnali? Se abbandoniamo il lavoro adesso, questa cosa potrebbe passare oltre il nostro pianeta, e noi perderemmo l’unica possibilità di entrare in contatto con una razza extraterrestre intelligente. Il che sarebbe criminale!»

McDermott raccolse la pipa. «Sono pronto a concederle qualche altra settimana. Se è intelligente, se è vivo, in qualche modo risponderà ai nostri segnali. Ma se non lo è, non ha senso abbandonarsi ai sogni.» Scrutò Stoner con aria intensa. «O a piani grandiosi.»

“Ecco cosa vuole” capì Stoner, serrando le labbra, mentre il gelo gli stringeva lo stomaco. “Quel vecchio bastardo vuole far annullare la missione di rendez-vous.”

Scrutando gli altri visi, guardando quelle teste che annuivano, magari con riluttanza, Stoner comprese che McDermott aveva raggiunto il suo scopo. “Gliela lasceranno passare liscia. Piuttosto che permettergli di chiudere il progetto, accetteranno che venga annullata la missione spaziale.”

Troppo furibondo per trovare il coraggio d’una risposta, Stoner restò seduto in un silenzio cupo, mentre la riunione si aggiornava.

Cavendish lo raggiunse, gli batté la mano sulla spalla e mormorò: «Peccato, vecchio mio.»

«Perché non hai aperto bocca?» gli chiese Stoner, alzandosi.

Cavendish scosse la testa. «Il tuo McDermott è deciso a impedire la missione di rendez-vous.»

«Un tuo intervento sarebbe stato utile.»

«Certo…» Cavendish parve per un attimo confuso, disorientato. «Io… Credimi, ultimamente non mi sento troppo bene. Mi spiace…»

Stoner notò il suo viso teso, gli occhi gonfi.

«Sei malato?»

Cavendish ebbe un mezzo sorriso. «Giuro che non lo so.»

«Dovresti vedere un medico.»

«Sì» disse l’inglese, distrattamente. «Certo.» E uscì dalla sala riunioni, piantando lì Stoner.

Markov era sulla soglia, una smorfia in viso. «Il professor McDermott si sbaglia» disse a Stoner. «Dobbiamo tenerci pronti a mandare un cosmonauta su quella nave. Non è un oggetto naturale. Me lo sento nelle ossa.»

«In questa faccenda» ribatté Stoner «le sensazioni non contano. Contano le prove.»

«Ma perché McDermott si è tanto intestardito?»

«Perché sa che se venisse lanciata una missione, inevitabilmente verrei scelto io. E lui mi odia visceralmente.»

«Non è una buona ragione.»

«Per lui, sì.»

«Non dobbiamo permettergli di fare quello che vuole. Dobbiamo essere audaci. Rivoluzionari!»

Stoner, improvvisamente stanco, svuotato d’ogni energia, si appoggiò alla porta. «Cosa vorrebbe dire?» chiese.

«Dobbiamo scavalcare McDermott e dare inizio al nostro programma spaziale.»

Stoner rise. «E come facciamo?»

«Non ho ancora idee precise» rispose onestamente Markov. «Però possiamo partire da noi due, e reclutare altra gente. Creeremo un movimento rivoluzionario sotterraneo.»

Stoner capì che parlava sul serio, dietro il tono faceto. «Ci occorrerà qualcuno del centro computer per tenerci informati sui movimenti della nave» disse.

Markov sorrise. «Ho la persona giusta. Un’americana, Jo Camerata.»

«Jo?» Stoner lanciò un’occhiata tagliente al russo. «No, non lavorerebbe con me.»

«Ah, però con me sì» disse Markov.

Stoner fu invaso da un’ondata improvvisa di rabbia. Stupito delle proprie reazioni, soffocò l’ira.

Alla fine, riuscì a dire: «Okay. Lavorerete con lei.»

Markov studiò attentamente il viso dell’americano. «Allora è lei.»

«Lei cosa?» chiese freddamente Stoner.

«Quello che le vuole bene.»

«No.» Stoner scosse la testa.

«Allora perché sembra che le abbiano appena infilato un coltello nel fegato?»

«Senta, Markov…»

«Kirill.»

«Okay, Kirill. Jo e io abbiamo avuto una storia mesi fa, ma adesso è tutto finito. Morto.»

«Eppure riesce ancora a ferirvi molto bene.»

«Ferirci? Jo si sente ferita?»

Markov annuì gravemente.

«Per colpa mia?»

«Così sembra.»

Stoner cercò di valutare quel nuovo dato, che però non trovava un posto logico nella sua mente. «Non capisco» mormorò.

«Nemmeno io» disse Markov, con un sospiro. «Ne sono follemente innamorato, sai, però prevedo che non me ne verrà nulla di buono. Penso che forse anche tu ne sia follemente innamorato, ma non l’hai ancora ammesso con te stesso.»

Stoner non rispose. Il suo cervello era in corto circuito: niente output.

Markov fece un sorriso timido. «Le chiederò di unirsi alla nostra rivoluzione. Se non altro, avrò un motivo lecito per parlarle.»

Stoner si trovò solo sulla porta, confuso, incerto, perplesso.

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