L’uomo non resterà per sempre su Terra… Terra è la culla della mente, ma non si può vivere all’infinito in una culla.
Il rombo assordante diminuì, e finalmente cessò. La pressione si allentò, finché Stoner vide che le sue braccia fluttuavano sopra i braccioli. Si sentiva la testa leggerissima, e per un attimo lo stomaco gli disse che stava precipitando. Chiuse gli occhi, forte; quando li riaprì, non era più sdraiato di schiena, ma seduto. Non era cambiato nulla, solo la sua prospettiva.
«Shtoner» tuonò nella cuffia la voce di Federenko. «Tutto bene?»
L’americano annuì. «Okay, Nikolai. Sto benissimo. E tu?»
«Tutto bene.»
La visuale di Stoner era confusa. «Posso aprire il casco?»
Ma Federenko stava parlando col controllo missione. Stoner aspettò che avesse terminato, poi gli rifece la domanda.
«Sì, sì. La pressione in cabina è normale. Tutti i sistemi perfettamente funzionanti, conferma il controllo di terra.»
Stoner alzò la visiera, si tolse i guanti, si asciugò gli occhi. I guanti fluttuarono verso il pannello di comando, e lui, con un sorriso, li acchiappò.
«Gravità zero» disse Federenko. «Ricordi? Quando mangi, non sbriciolare.»
Stoner rise, respirò contento. Per la prima volta in quasi due anni era privo di peso. Un piacere che dava l’euforia.
«Bel lancio, no?»
«Perfetto» rispose Stoner.
«Adesso ci mettiamo in contatto radio con la Salyut, poi iniziamo l’Attività Extra Veicolare per agganciare i moduli con le apparecchiature e i rifornimenti.»
Stoner prese il fermadocumenti metallico sul pannello alla sua destra. In russo e in inglese erano elencate tutte le attività che dovevano compiere, il giorno e l’ora in cui iniziarle, il tempo previsto per il loro completamento.
«La prima AEV è tua» disse.
«Da.»
«Be’, io terrò d’occhio la bottega.»
Federenko gli lanciò un’occhiata perplessa. «Quale bottega?»
«E un nostro modo di dire» cercò di spiegargli Stoner.
Federenko ascoltò, fece una smorfia. «Ma qui non c’è nessuno che possa rubare in bottega.»
Con una scrollata di spalle sotto la tuta, Stoner disse: «Nikolai, lo sai com’è nelle società capitaliste. Abbiamo tanti ladri che ci aspettiamo di trovarli da per tutto.»
L’ironia non ebbe effetto sul cosmonauta. «Ma non ci sono ladri in orbita. Non ci sono ladri sulla Salyut. Sono due ottimi cittadini sovietici, ufficiali dell’Armata Rossa.»
Stoner, dopo un sorriso fiacco, si arrese.
Borodinski stava usando il videotelefono speciale che il segretario generale aveva fatto installare nei suoi appartamenti. L’uomo dal viso bovino che appariva sullo schermo indossava una divisa militare, e portava i gradi di generale di corpo d’armata.
«Questa linea telefonica è al sicuro da intercettazioni?» chiese Borodinski, quasi in un sussurro.
«Sì, compagno. Naturalmente.»
«Ho gravi notizie che non debbono arrivare a nessun altro finché non vi richiamerò.»
«Ho già custodito segreti di stato in passato, compagno» disse il generale, con un sorriso appena accennato agli angoli della bocca.
«Il nostro grande amico è morto.»
«No!»
«Pochi minuti fa. I dottori hanno confermato. Non c’è speranza di riportarlo in vita.»
Il generale parve genuinamente rattristato alla notizia. «Era un brav’uomo. Un ottimo uomo. Un compagno eccezionale.»
«Capite perché questa notizia dev’essere tenuta segreta per le prossime ore?»
«Certo, compagno. Dovrete fare molte telefonate, controllare molti… particolari.»
«Ho chiamato voi per primo» disse Borodinski «perché voglio sottolineare il fatto che le linee politiche del segretario generale sono ancora valide, e che quindi vanno seguite esattamente com’era nei suoi desideri.»
«Sì, compagno. E il Presidium…?»
«Per il momento la cosa non la riguarda. La questione più importante è quella dei missili. Sono pronti a essere lanciati, qualora fosse necessario?»
«La forza d’attacco strategico è sempre pronta, compagno.»
«Alludevo» spiegò pazientemente Borodinski «ai missili per la nave aliena.» E si chiese: “Lo fa apposta a fingere di non capire?”.
«Oh! Quelli! Sì, compagno, sono pronti per un lancio immediato. I radar ci forniscono di continuo i dati sulla posizione dell’alieno. Le testate nucleari sono armate e pronte.»
Borodinski annuì. «Molto bene. Tenete pronti i missili. E stia pronto anche lei. La chiamerò io, personalmente, se il loro uso si rendesse necessario.»
«Capisco, compagno. Saranno pronti, e lo sarò anch’io.»
Borodinski interruppe la comunicazione, e il viso del generale scomparve dallo schermo. Poi Borodinski si girò a guardare il corpo del segretario generale sul letto: a occhi chiusi, mani intrecciate sul petto.
«Quante cose da fare» mormorò tra sé. Adesso iniziava il vero lavoro. E i veri pericoli. Una cosa era ricevere le redini del potere, e una cosa completamente diversa riuscire a tenerle in mano.
Borodinski scosse la testa. Per un brevissimo momento, quasi invidiò il sonno tranquillo del segretario generale.
Stoner si girò sul sedile quando Federenko aprì il portello che immetteva al modulo orbitale e tornò strisciando in cabina di comando. Il cosmonauta raggiunse il proprio sedile ed emise un sospiro di sollievo.
«Ho impiegato più del tempo previsto, vero?» Respirava pesantemente, e la tuta aveva macchie scure di sudore.
Stoner guardò il portadocumenti che fluttuava all’altezza del suo ginocchio. «Diciotto minuti in più. Non male. Abbiamo ancora molti tempi morti nell’ordine di servizio.»
Federenko si passò una mano sugli occhi. «Là fuori è tutto così diverso… Un lavoraccio.»
«Lo so.»
Scrutando dall’oblò posto sopra il sedile. Stoner riusciva a intravedere la forma tozza della stazione spaziale Salyut. I due cosmonauti che per tutto il mese avevano vissuto e lavorato nella Salyut si erano assunti il compito di collegare i moduli alla Soyuz.
“Il prossimo turno è mio” pensò Stoner. Lavorare a gravità zero sembra semplice, ma lui sapeva quanto fosse facile stancarsi. Ogni movimento fatto in assenza di peso dev’essere coscientemente, deliberatamente bilanciato da un contromovimento. Non esiste frizione che faccia terminare in modo “naturale” i movimenti. Non esistono indicazioni visive subliminali per giudicare le distanze e orientarsi. Non esistono su o giù.
Anni addietro, il generale Leonov, il primo uomo che abbia mai “camminato” nello spazio, aveva consigliato ai suoi cosmonauti: «Riflettete dieci volte prima di muovere un dito, e venti volte prima di muovere una mano» parlando del lavoro nello spazio.
Eppure, Stoner era ansioso di uscire. Impaziente, aspettò e restò a guardare i due cosmonauti all’opera, mentre Federenko tornava nel modulo orbitale della loro nave a succhiare un tè caldo dal contenitore di plastica e a sgranchirsi i muscoli indolenziti. Stoner restò solo nel modulo di comando, circondato dagli strumenti della Soyuz, gli occhi puntati sui due uomini che lavoravano all’esterno.
Alla fine, l’orologio digitale sul pannello di comando gli disse che era giunta l’ora di prepararsi. L’ordine radio da terra confermò.
Federenko rientrò nel modulo di comando e sedette al posto di pilotaggio.
Stoner slacciò la cintura e fluttuò verso il modulo orbitale.
Il modulo orbitale, globulare, serviva da laboratorio, dormitorio e camera d’equilibrio. Stoner s’infilò lentamente la tuta a pressione, controllando con cura ogni cerniera e chiusura, costringendosi a essere preciso e paziente. Il modulo conteneva cuccette, diversi armadietti, e due portelli a tenuta d’aria: uno metteva in comunicazione col modulo di comando, l’altro si apriva sul vuoto.
Federenko lo aiutò a sistemarsi sulla schiena le bombole d’ossigeno e i jet per manovrare. Alla fine, Stoner si mise in testa il casco rotondo e lo collegò ermeticamente al colletto metallico della tuta. Federenko collegò al casco i tubi delle bombole d’ossigeno. Assieme, controllarono la radio della tuta, la pressione dell’ossigeno, l’impianto di riscaldamento. Stoner provò tutti i giunti della tuta, poi annuì verso Federenko e abbassò la visiera sugli occhi. Il cosmonauta tornò nel modulo di comando, chiudendo il massiccio portello a tenuta d’aria.
Adesso Stoner era solo nel grembo di metallo. Tendendo la mano, aprì il portello di sicurezza, poi premette il bottone che metteva in funzione le pompe d’aria. Anche sotto l’elmetto, sentì le macchine che cominciavano a risucchiare l’aria del modulo e la immagazzinavano nei serbatoi.
La luce sul pannello passò dal verde all’ambra, e infine al rosso. Stoner aprì lentamente il portello e uscì, a testa in avanti, dal modulo.
E restò senza fiato.
Per tutti i mesi trascorsi a terra, aveva continuato a ricordare quanto fosse bello lo spazio; ma il ricordo era un’immagine mentale, non la passione viscerale. Adesso era di nuovo lì, e fu travolto da tutta quella bellezza, e boccheggiò.
Davanti ai suoi occhi, scintillava la massa scura e imponente della Terra, con l’azzurro degli oceani striato dal bianco delle nubi: la Terra era enorme, e stupenda. Girandosi piano, Stoner vide le profondità dell’infinito, completamente nere; ma le stelle erano tante da sembrare polvere di diamanti spruzzata su un velluto nero.
“Oh, Signore, amo la bellezza della Tua casa, e il luogo dove la Tua gloria splende.”
Le parole gli salirono alle labbra mentre, ruotando su se stesso senza sforzo, ammirava il cielo. E poi vide i moduli tozzi che si trovavano a poche dozzine di metri dalla Soyuz. Più avanti, la stazione spaziale Salyut ruotava dolcemente nel cielo, i pannelli di accumulatori solari distesi come ali d’un gabbiano; e la Terra, maestosa, si muoveva dietro la Salyut, sfondo sempre uguale e sempre diverso.
Doveva fare il suo lavoro.
Usando i jet che aveva sulla schiena, Stoner raggiunse i moduli che contenevano le apparecchiature e i rifornimenti. Federenko li aveva collegati l’uno all’altro, e i cosmonauti della Salyut li avevano agganciati alla Soyuz con rigidissimi cavi d’acciaio. Stoner doveva controllare tutti gli agganci, fare l’ultima ispezione. Gli avevano riservato il lavoro meno faticoso.
Si spostò come in sogno, fluttuando dolcemente; ogni movimento era un lungo volo librato senza peso. La mancanza di peso non lo infastidiva, anzi era bellissima. Più divertente che sciare. Era un po’ come cavalcare le onde più alte dell’oceano, al largo, lontano da terra. “Segui la corrente” si ricordò Stoner. “Divertiti finché puoi.”
Controllando a uno a uno tutti i collegamenti che legavano la Soyuz ai moduli, chiacchierò per radio con Federenko. Tutto perfetto: i cosmonauti avevano fatto bene il loro lavoro. La Soyuz era pronta ad affrontare l’incontro con l’alieno.
E Stoner avvertì all’improvviso un senso di riluttanza, di ribellione: non voleva lasciare la libertà dello spazio per tornare nei confini metallici della nave.
«Shtoner» disse in cuffia la voce di Federenko.
«Sì?»
«Il controllo è completato. Adesso torna al portello.»
Stoner guardò la Terra, grande e scintillante e bella da straziare. Girandosi, scrutò le profondità dello spazio stellato. Oh, sì, sapeva cosa aveva sentito Ulisse quando le sirene l’avevano incantato col loro richiamo.
«Shtoner! Mi senti?»
Con uno sforzo, riportò lo sguardo sulla loro nave piccola e sgraziata. «Sì, sì, ti sento. Sto rientrando.»
Ma anche quando rientrò nel portello, i suoi occhi restarono fissi sulle stelle finché la pesante massa di metallo non le nascose completamente.
Jo, seduta alla consolle del computer, guardava numeri e simboli che sfilavano sullo sfondo verde dello schermo.
I tecnici russi la sopportavano al centro controllo missione. Le avevano assegnato una consolle per seguire il procedere del volo, una delle centinaia di consolle che a lunghe file occupavano la grande stanza. All’estremità opposta del locale c’erano enormi schermi televisivi e una mappa elettronica che mostrava dove si trovassero le diverse navi (la Soyuz, la stazione orbitale Salyut e l’astronave aliena) rispetto alla Terra e alla Luna.
I tecnici tolleravano la presenza di una donna americana al centro, ma le autorità preposte alla sicurezza erano chiaramente in allarme. Entrando e uscendo dal centro, Jo veniva scortata da guardie in uniforme e armate. Markov sedeva alle sue spalle, tirandosi nervosamente la barba e fumando sigarette a ripetizione. Spesso entrava sua moglie, si sedeva al suo fianco. Anche lei portava un’uniforme, per quanto Jo non sapesse a quale corpo appartenesse, e non volesse saperlo.
I comandi della consolle servivano esclusivamente per chiedere dati, non per elaborarli. Jo era lì come osservatrice, e le autorità russe avevano messo subito in chiaro che lei non era un membro attivo della missione. Da come dicevano “osservatore” era chiaro che, nella loro lingua, il termine equivaleva semanticamente a “spia”.
Jo poteva guardare, poteva osservare, ma non intervenire.
Lasciò vagare lo sguardo nel grande locale. La tensione delle prime ore era svanita. Il centro aveva un’atmosfera tranquilla, quasi pigra. Persino Markov sembrava più rilassato. La Soyuz aveva superato l’orbita della Luna circa quarantotto ore prima. Stoner e Federenko erano a una distanza dalla Terra mai raggiunta da nessun essere umano.
La mappa elettronica mostrava, dietro la Soyuz, l’aerocisterna senza equipaggio lanciata dagli Stati Uniti. Stava percorrendo una traiettoria diversa, che l’avrebbe portata in contatto con la Soyuz poche ore prima che Stoner e Federenko avvistassero l’alieno.
“In quel momento, avranno un sacco di cose da fare” pensò Jo. “E anche noi.”
Nel giro di venti ore, il centro sarebbe stato un ribollire di attività: prima per dirigere l’aggancio con la cisterna, poi per il rendez-vous con l’alieno.
Ma adesso era tutto tranquillo.
Metà delle consolle non erano occupate, e i tecnici che si trovavano al proprio posto sembravano tranquilli, quasi indifferenti. Persino i pochi che parlavano al microfono o sfioravano interruttori e tasti della consolle non dimostravano la minima fretta.
“Va tutto bene” pensò Jo. “Keith è al sicuro. Ed è troppo tardi per sabotare la missione. Tutti i lanci sono andati perfettamente, tutti i veicoli stanno seguendo la traiettoria prevista. Keith è al sicuro, a quasi un milione e mezzo di chilometri dalla Terra.”
Stoner si grattò pigramente la barba, che cominciava a dargli fastidio.
Aveva un desiderio folle di un bagno caldo. Federenko, sporco e stanco quanto lui, sedeva calmissimo alla sinistra di Stoner controllando il piano di volo della missione. Il modulo di comando puzzava di sudore e calore umano.
«Staccare il modulo dei rifornimenti non è un problema» stava spiegando Federenko. «I bulloni esplosivi faranno saltare il cavo, e il modulo si staccherà.»
«È la quarta volta in un’ora che me lo ripeti» ribatté Stoner. «Sei preoccupato, eh?»
«No, no. Non è un problema.»
«Qualcosa ti preoccupa, Nikolai.»
Il viso del russo s’incupì. «Tu non preoccuparti, Shtoner. Però vedo un problema.»
«L’aerocisterna?»
«Da. Dobbiamo agganciarla prima di tentare il rendez-vous con l’alieno, secondo i piani di volo.»
«Lo so.»
«Però gli ultimi rilevamenti radar mostrano che la cisterna non è nella posizione migliore per noi, Sta deviando dalla traiettoria prevista.»
«Possiamo sempre raggiungerla, no?»
Federenko annuì, serio. «Però dovremo consumare più carburante del previsto. Ce ne resterà meno per il rendez-vous con l’alieno.»
Stoner rifletté un momento. «Potremmo lasciar perdere la cisterna e risparmiare carburante per il rendez-vous.»
«E non avremmo propellente per tornare sulla Terra» disse Federenko.
«Potrebbero lanciare un’altra cisterna.»
Federenko rise. «Tra quanto? Due giorni? Due settimane?»
«A Cape Canaveral ne hanno pronta un’altra. L’hanno tenuta di riserva nel caso il lancio della prima fallisse.»
«Però quando arriverà la seconda cisterna noi saremo già sulla stessa traiettoria dell’alieno, diretti all’esterno del Sistema Solare. La seconda cisterna non ci raggiungerà.»
«Merda.»
«Dobbiamo agganciare la cisterna» disse Federenko, deciso «anche se significasse rinunciare al rendez-vous.»
«Cristo, Nikolai! Siamo arrivati fin qui per entrare in contatto con quella nave!»
«È vero» rispose tranquillamente il russo. «Però io non desidero effettuare il contatto e non tornare mai più sulla Terra. E tu?»
Stoner non rispose.
«Non preoccuparti» disse Markov, «Non avranno difficoltà a raggiungere la cisterna. Hanno carburante più che a sufficienza, stando al controllo missione.»
Markov sedeva a tavola a fianco di Jo, nella sala da pranzo dei loro alloggi. Maria era seduta all’altro lato del marito. Di fronte a loro, uno dei fisici cinesi stava fissando sconcertato il cibo.
«Però non avranno più carburante a sufficienza per il rendez-vous con l’alieno» disse Jo. La ragazza aveva davanti il piatto di borscht, che non aveva toccato.
Markov scrollò le spalle. «In questo caso, si avvicineranno il più possibile, scatteranno qualche migliaio di foto e torneranno a casa. Se è il meglio che possono fare, è quello che faranno.»
Ma Jo sentiva i tentacoli freddi della paura insinuarsi nelle sue vene. «Keith non lo accetterà. Vuole “salire” su quella nave.»
«Federenko è un cosmonauta con molta esperienza» insistette Markov. «Non permetterà mai che qualcosa metta in pericolo la loro sicurezza.»
«Ma Keith…»
«Cosa può fare?» Markov gesticolò. «Mettere fuori combattimento Federenko e raggiungere l’alieno con la Soyuz? È assurdo.»
«Con lui, non si può mai sapere» disse Jo.
«E poi, Federenko è un pilota eccezionale. L’orgoglio dei cosmonauti sovietici. Ci scommetto che riuscirà ad agganciare la cisterna e ad avere ancora un sacco di carburante per il rendez-vous.»
«Spero che tu abbia ragione» disse Jo, che non credeva nemmeno a una parola del suo amico russo.