39

O siamo soli nell’universo, o non lo siamo. Entrambe le prospettive sono sconvolgenti.

Lee Dubridge


Stoner era chino sul foglio di carta, incerto, la penna in mano. Fino a quel momento aveva scritto:


Mr. Douglas Stoner

28 Rainbow Way

Palo Alto, CA 94302

Caro figlio,

come stai? Se hai seguito i notiziari, saprai probabilmente che mi trovo in Russia, e che sto per intraprendere una missione spaziale per andare incontro alla nave aliena, ammesso che ciò sia possibile. I russi ci trattano molto bene. Ci hanno sistemati in una specie di caserma, no, anzi, sembra più un collegio. Ognuno ha una stanzetta, ma io non passo molto tempo nella mia.

Nelle ultime settimane, ho lavorato sodo con i cosmonauti russi e coi tecnici addetti al lancio. Avresti dovuto vederli quando hanno cercato d’infilarmi in una delle loro tute! Io sono più alto e magro dei loro cosmonauti, e hanno dovuto modificare la tuta molto in fretta. E ho sempre avuto addosso i loro medici. C’era da pensare che fossi io l’alieno, con tutti gli esami che mi hanno fatto!

Tutti sono stati molto gentili con noi, anche se non possiamo allontanarci dai dormitori e dai pochi altri edifici dove abbiamo lavorato. Ai russi non va che noi ficcanasiamo in giro. Immagino che anche noi saremmo altrettanto prudenti, se avessimo ospiti stranieri al centro spaziale di Cape Kennedy, in Florida.

Qui ci sono altri undici scienziati stranieri, oltre a


Rimise giù la penna. “Cosa importa?” si chiese. “A Doug non interessa.”

E cosa diavolo interessa a Doug? D’improvviso, capì di non conoscere suo figlio. Il ragazzo era per lui un perfetto sconosciuto. E sapeva ancora meno della figlia più giovane.

Con uno sbuffo di disgusto sbatté la penna sul tavolo di legno, si alzò, raggiunse la porta, percorse lentamente il corridoio. Tutte le altre porte erano chiuse. Non era ancora tardi; la cena era terminata meno di un’ora prima.

“Però domani è il grande giorno” si disse Stoner. Il conto alla rovescia. Il lancio.

Tutto sembrava innaturalmente calmo. In America, tutto era più vivace, più vivo. C’erano sempre riunioni, conferenze stampa, incontri anche a notte fonda, fotografi che abbagliavano coi lampi dei flash.

Ma non qui. Niente giornalisti. Nessun fotografo.

Scese nella stanza dove mangiavano tutti assieme, Uno dei fisici cinesi sedeva sulla poltrona di pelle in un angolo; alla luce di una lampada, leggeva un libro in russo. Stoner fece un cenno, e il cinese rispose con un sorriso. L’interprete era scomparso; non potevano chiacchierare.

Stoner studiò il tavolo rotondo al centro della stanza, fissò irrequieto gli scaffali quasi vuoti di libri, s’incamminò verso la porta della cucina, l’aprì.

Markov era chino sul frigorifero aperto, probabilmente in cerca di cibo.

«Hai preso due razioni di dessert» disse Stoner.

Markov alzò la testa. «E con ciò? Mi tieni sotto controllo? Be’, non posso farci niente. Quando sono nervoso, mangio. È per non far abbassare il tasso degli zuccheri nel sangue.»

«La baklava era ottima» ammise Stoner. «Se non altro, qui la cucina è di alta classe.»

«Ne vuoi un po’? Se ne è rimasto.»

«No.» Stoner scosse la testa. «Quando sono nervoso, io non riesco a mangiare.»

Markov lo fissò. «Nervoso, tu? Sembri così calmo, così rilassato.»

«Dentro sono tutto un tremito.»

Con un sospiro di delusione, Markov chiuse il frigorifero. «Il dolce è finito. Strano, avrei giurato che ne fosse rimasto un po’.»

Tornarono nell’altra stanza. Il fisico cinese era scomparso, ma uno dei russi si era accomodato in poltrona e aveva acceso la radio. Una melodia classica per pianoforte risuonava nella stanza.

«Chaikovskij?» chiese Stoner.

Markov gli scoccò un’occhiata di rimprovero. «È Beethoven. La Patetica.»

Stoner rifiutò di lasciarsi intimidire. «Anche Chaikovskij ha scritto una Patetica, no?»

«Una sinfonia. Che richiede per lo meno cento musicisti e un’ora di tempo. Keith, per essere un uomo colto…»

«Pensavo che una stazione rossa trasmettesse solo opere di compositori russi.»

Markov fece per ribattere, poi capì che l’americano lo stava prendendo in giro. Rise.

«Vediamo se riusciamo a trovare un po’ di caffè» disse Stoner.

«Ma stanotte non devi astenerti dall’uso di stimolanti?» chiese Markov. «Credevo che il medico…»

Stoner alzò un dito a zittirlo. «Quel tizio muscoloso seduto in un angolo fa parte della vostra équipe medica» disse, in tono affabile. Il russo non prestava la minima attenzione a loro due. «Alle undici mi infilerà in corpo un ago spesso come l’oleodotto dell’Alaska. Fino a quel momento, mangerò e berrò tutto quello che voglio.»

«In camera ho della vodka» disse Markov.

«No, sarebbe troppo. Domani il caffè non mi confonderà le idee. Invece la vodka potrebbe farlo.»

Tornarono in cucina, e Stoner mise il caffè sul fuoco. Le note di Beethoven filtravano dalla porta.

«Stavo pensando» disse Markov, sedendosi al tavolo «a un filosofo inglese, Haldane.»

«J. B. S. Haldane? Era un biologo, no?»

«Un genetista, credo. E un marxista. Negli anni Trenta era iscritto al partito comunista inglese.»

«E allora?»

«Una volta ha detto: “L’universo, non solo è più strano di quanto immaginiamo, è più strano di quanto ‘possiamo’ immaginare”.»

Stoner fece una smorfia, si girò verso la caffettiera, poi ancora verso Markov.

«Non capisci cosa significa?» chiese il russo. «Domani rischierai la vita per raggiungere l’astronave aliena. Ma se per ipotesi, quando la raggiungerai…»

«“Se” la raggiungeremo» si sentì mormorare Stoner; e ne restò sorpreso.

«Se e quando la raggiungerete, d’accordo… Ma se fosse qualcosa al di là della comprensione umana? Se tu non riuscissi a capirci niente?»

Stoner tolse dal fornello il caffè, ne versò in due delle delicate tazzine di porcellana che erano le uniche disponibili in cucina. La Patetica di Beethoven giunse al secondo movimento.

«La senti?» chiese Stoner, gesticolando.

«La musica? Sì, naturalmente.»

«È stato un essere umano a crearla. Una mente umana. Altre menti umane l’hanno eseguita, registrata e trasmessa per farcela sentire. In questo momento, stiamo ascoltando i pensieri di un musicista tedesco morto da più di un secolo e mezzo.»

«E questo cosa c’entra con l’alieno?» chiese Markov.

«Una mente aliena ha costruito quella nave…»

«Una mente che forse non riusciremo a comprendere.»

«Però quella nave segue le stesse leggi di fisica che “comprendiamo”. Si sposta nello spazio esattamente come le navi che abbiamo costruito noi.»

«E scatena l’aurora boreale sull’intero pianeta» ribatté il russo.

«Servendosi di tecniche elettromagnetiche che non comprendiamo. Non ancora. Ma le comprenderemo. Possediamo la capacità di capire.»

«Mi chiedo se sia vero.»

Stoner appoggiò sul tavolo il bricco del caffè.

«Non ti è chiaro, Kirill? La possediamo. La possediamo! Perché credi che io voglia andare nello spazio? Per lasciarmi suggestionare da qualcosa d’incomprensibile? Per poter adorare gli alieni? No, porca miseria! Voglio vedere, apprendere, “comprendere”.»

«E se non ci riuscissi? Se fosse al di là della comprensione?»

Stoner scosse la testa, deciso.

«Non c’è nulla nell’universo che non possiamo comprendere. Basta avere il tempo per studiarlo.»

«Questa è una convinzione tua.»

«È la mia religione. La stessa religione di Einstein: “L’eterno mistero dell’universo è la sua comprensibilità”.»

Markov gli sorrise. «Gli americani sono ottimisti per natura.»

«Non per natura» lo corresse Stoner. «In virtù della realtà storica. Alla lunga, l’ottimismo vince sempre.»

«Benissimo, mio ottimista amico, spero che tu abbia ragione. Spero che l’alieno ci sia amico e voglia aiutarci. Non vorrei dovermi sottomettere a qualcuno che non è nemmeno umano.»

Tornarono nell’altra stanza, con le tazzine di caffè. Il medico russo seduto nell’angolo alzò gli occhi, indicò l’orologio e disse qualcosa a Markov.

«Vuole ricordarti che l’iniezione è per le undici.»

Stoner sorrise al medico. «Digli che apprezzo il suo sadico interessamento e che mi piacerebbe prendere quell’ago e infilarglielo nel culo.»

Markov tradusse in russo. Il medico annuì e sorrise.

Beethoven terminò, e la radio cominciò a trasmettere musica da camera: una melodia per archi dolce, piacevole, astratta, matematica.

«Bach, vero?» chiese Stoner, accomodandosi sulla poltrona vicino all’unico divano della stanza.

Markov sospirò. «Vivaldi.»

Si aprì la porta ed entrò Jo, che si stava grattando le braccia.

«Zanzare» disse. «Grosse come aeroplani.»

«Uno dei piaceri della campagna» commentò Markov.

Jo indossava jeans e un maglione leggero. Passandosi una mano tra i capelli, si lamentò: «Tutto l’edificio è circondato da quei maledetti riflettori. Il cielo non si vede, e non permettono di spingersi oltre la zona illuminata.»

«Ma pensa al lato positivo della cosa» le consigliò Markov. «I riflettori attirano le zanzare.»

Jo rise, raggiunse il divano. «Non credo che stanotte riuscirò a dormire. Sono troppo agitata.»

«Vuoi un po’ di caffè?» offrì Stoner.

«Sarebbe ancora peggio.»

«Una tazza di tè caldo, magari?» chiese Markov. «O un po’ di vodka?»

«Niente alcool. Devo avere le idee chiare per domani, anche se non mi lasceranno mettere le mani sulle loro apparecchiature.»

«Forse potremmo convincere il medico lì a fare a te l’iniezione che dovrebbe fare a Stoner. Garantisce un sonno profondo e rilassante, e il mattino dopo ci si sveglia con la testa chiara come un lago di montagna.»

«Così dicono» commentò Stoner.

«No, grazie» rispose Jo. Poi guardò il medico. «Capisce l’inglese?»

«No» disse Markov. «Solo il russo.»

«Di dov’è?»

Markov lo chiese al medico, che alla vista di Jo fece un sorriso enorme e rispose con una lunga serie di parole accorate.

«È di un piccolo villaggio nei pressi di Leningrado» tradusse Markov «il più bel villaggio dell’intera Russia. Sarebbe felicissimo di mostrarti com’è bello, specialmente in primavera.»

Jo restituì il sorriso. «Allora è un vero russo? Non è dell’Ucraina o della Georgia o del Kazakhistan?»

Markov soppesò il medico, che era grassoccio, rosso di capelli e di carnagione chiara. «È un russo autentico, te lo garantisco. Ma perché tanto interesse per le nostre nazioni confederate?»

Jo si girò verso Markov e Stoner. «Ho parlato con un po’ di gente di qui. Guardie, impiegati, persone normali.»

«Non astronomi o linguisti» mormorò Markov.

Jo lo ignorò. «Parecchi russi sono preoccupati per gli abitanti del Kazakhistan e per altri gruppi etnici non russi.»

«Preoccupati?» chiese Stoner.

«La marea islamica» disse Markov, in tono annoiato. «Dopo l’Iran e l’Afghanistan, l’argomento preferito di conversazione è la possibilità di una rivolta indigena. Che però è del tutto impossibile.»

«Una rivolta» disse Jo. «E un sabotaggio? Se gli stessi che si sono serviti di Schmidt si servissero domani di un tecnico del Kazakhistan per sabotare il missile?»

Markov scosse la testa, alzò le mani al soffitto. «No, no! Impossibile. Questa è una cosa che gli uomini della nostra sicurezza hanno controllato a fondo. Alle rampe di lancio si sono potuti avvicinare solo russi. Ve lo garantisco.»

«E io sono al sicuro da tutti i russi?» chiese Stoner.

Per un attimo, Markov non rispose. Poi, tirandosi la barba, disse con estrema serietà: «Sì. Ne sono certo.»

I due uomini restarono a fissarsi per un lungo momento di silenzio.

«Penso che mi andrebbe un po’ di quel tè» disse Jo, per interrompere il confronto muto.

«Subito.» Markov schizzò verso la cucina. «Ti preparerò una tazza di tè che ti calmerà i nervi e rinfrancherà il tuo spirito. Non come quell’orribile porcheria che chiamano caffè. Puà! Come si fa a bere roba del genere tutti i giorni?»

Stoner rise mentre Markov spariva in cucina. “Ci ha lasciati soli” capì; e andò a sedersi sul divano accanto a Jo.

«La mia ultima notte sulla Terra» disse. Poi aggiunse: «Per una settimana circa.»

«Non sei nervoso?»

«Maledettamente.»

«Non si vede. Sembri calmissimo.»

«All’esterno. Dentro, mi si agita tutto. Se mi facessero una radiografia, verrebbe confusa. A meno di non usare un tempo d’esposizione di un millesimo di secondo.»

Jo rise piano.

«Divento sempre nervoso prima di un lancio, specialmente negli ultimi minuti. Il mio battito cardiaco accelera.»

«È comprensibile» disse lei, e tornò seria. «Puoi ancora tirarti indietro, se vuoi. I russi hanno pronti altri cosmonauti che…»

«Lo so.»

«Non hai paura che cerchino di… di fermarti?»

«Kirill mi ha fatto la balia come un San Bernardo.»

«Ma non è sufficiente…»

«E anche tu» aggiunse lui. «Ti ho osservata, sai. Te ne vai in giro a controllare tutto e ti fai mangiare viva dalle zanzare.»

Lei parve sorpresa. «Non ho… Be’, noi due non bastiamo come guardie del corpo.»

Stoner tese una mano, le afferrò la nuca. «Te ne sono grato, Jo. Capisco quello che stai facendo e te ne sono grato, sul serio.»

«Ma certo.»

«Certo. Spero tu capisca perché mi sono così intestardito in questa faccenda.»

Jo annuì. «Sì, capisco, Keith. È questo che mi spaventa. Io farei esattamente le stesse cose, al tuo posto. Però odio l’idea che le stia facendo tu, che metta a repentaglio la tua vita.»

«Però le cose stanno così» disse lui, dolcemente.

«Ed è impossibile cambiarle. Lo so.»

Markov tornò nella stanza, reggendo due bicchieri fumanti di tè con supporti d’argento. Quando vide Stoner e Jo seduti vicini, strizzò l’occhio.

«Due romantici innamorati» sospirò. «Come vi invidio.»

Stoner si scostò da Jo, che accettò il bicchiere di tè.

«Grazie, Kirill.»

«Per te, mia bellissima, conquisterei la Cina per poterti sempre offrire il tè migliore.»

La ragazza sorrise al complimento.

Mentre Stoner finiva di bere il caffè, il medico consultò l’orologio, si alzò e spense la radio. I tre lo guardarono raggiungere il minuscolo studio adiacente alla stanza, lo videro aprire un armadietto chiuso a chiave.

«Nessuno ha messo veleno al posto del tranquillante che devono darmi» si sentì dire Stoner.

«La tua ora è giunta» disse solennemente Markov.

Stoner guardò Jo. La ragazza stava osservando il medico che toglieva una scatola di plastica nera dall’armadietto. Gli occhi scuri, ansiosi di Jo si posarono su Stoner. «E tutto il giorno che tengo sotto controllo l’armadietto. È sempre rimasto chiuso.»

Markov fece una smorfia, ma non disse nulla.

Tutte quattro, guidati dal medico, salirono alla camera di Stoner. Stoner sedette sulla poltroncina scricchiolante, sotto lo sguardo di Markov e Jo.

Con meticolosa precisione, il medico preparò la siringa e la provò.

Stoner guardò la lettera per suo figlio abbandonata sulla scrivania. La concluse in fretta:


Adesso devo andare. Probabilmente seguirai il lancio in televisione. Spero di rivedere presto te ed Elly. Scrivimi, per favore, e chiedi anche a tua sorella di scrivere. Vi voglio tanto bene.


Firmò, piegò il foglio, lo infilò nella busta già indirizzata, passò la lettera a Markov. «Me la imbuchi, Kirill?»

Markov annuì.

Il medico si avvicinò, disinfettò il braccio di Stoner appena sopra il gomito. Markov e Stoner girarono la testa. Stoner avvertì appena la puntura. Dopo un attimo, il medico gli premeva sul braccio un batuffolo di cotone.

«Tutto finito» disse Jo.

«Cristo, odio le iniezioni» borbottò Stoner.

Il medico sorrise a tutti, a Jo con particolare calore, poi uscì. Stoner si alzò, controllò le gambe.

«Niente. Nessun effetto.»

«Lo sentirai subito» disse Markov. «Sarà meglio che ti sdrai a letto.»

«Sì, probabilmente.»

Markov si carezzò la barba. «Keith… Domani avrai attorno altra gente… Tecnici, dottori…»

Stoner annuì. Markov gli strinse le spalle, lo abbracciò. Stoner batté i pugni sulla schiena del russo, che ricambiò il gesto.

«Buonanotte» disse Markov, scostandosi. «E buona fortuna, amico mio.»

«Buonanotte, Kirill.»

Markov scappò fuori. Stoner si girò: Jo era ancora lì, tra lui e il letto.

Stoner tese una mano per chiudere la porta, e non riuscì a toccarla. Barcollò.

«Whoa…!» La stanza ondeggiava.

«Ti aiuto io» disse Jo.

«Ce la faccio da solo.» Stoner si aggrappò alla porta, recuperò l’equilibrio, poi diede un colpo. La porta si chiuse, e lui si girò a guardare Jo.

«Devono averti dato qualcosa di molto forte» disse Jo. La sua voce era lontana, lontanissima.

«Roba da ragazzini» ribatté Stoner. Poi cercò di schioccare le dita, ma non ci riuscì.

E lei lo afferrò, lo trascinò, lo accompagnò fino al letto. Una distanza infinita. Interminabile.

«La mia ultima notte sulla Terra» borbottò Stoner. «Voglio trascorrerla con te.»

«La passeremo insieme» disse lei.

Stoner precipitò, scivolò dolcemente, come senza peso, sul letto così invitante e così lontano.

«La mia ultima notte sulla Terra» ripeté, coricandosi sul letto cigolante.

«Sì, lo so.»

Jo era al suo fianco, e lui la strinse forte. Era calda, il cervello di Stoner fu invaso dal profumo dei fiori di primavera.

«Siamo polvere di stelle» le disse.

La voce di lei era un mormorio lontano, «Me l’hai detto la nostra ultima sera a Kwajalein.»

«Un milione di anni fa. Sì, ricordo.»

«Chiudi gli occhi, Keith. Dormi.»

«Voglio fare l’amore con te, Jo. Voglio che tu faccia l’amore con me.»

La risata della ragazza fu dolce come uno scampanellio smorzato. Lui non ne avvertì la tristezza. «Keith, tra un minuto sarai belle addormentato.»

«No, no. Io…» Stoner s’interruppe, chiuse gli occhi.

Jo restò seduta al suo fianco per lunghi momenti, scrutò il suo viso che si rilassava in un sonno profondo, tranquillo. Lo baciò, e lui sorrise.

«Dimmi che mi ami, Keith» sussurrò Jo. «Dimmi almeno una volta che mi ami.»

Ma Stoner era ormai addormentato, il sorriso sulle labbra.

Jo si alzò, si lisciò i vestiti, raggiunse la porta. Lanciò un’ultima occhiata a Stoner che dormiva profondamente e uscì.

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