40

Wichita

«Harry, corri! Ti perdi Walter.»

«Walter? Ma non era andato in pensione?»

«Per questa occasione è tornato. Sbrigati!»

«Aspettate. Aspettate. Sono qui. Alza il volume.»

«Giuro che stai diventando sordo. Giuro.»

«Se chiudessi la bocca per un minuto, forse potrei sentire la televisione!»

«Non metterti a urlare, Harry! La prima volta in un anno che si vede Walter, e tu vuoi litigare.»

«Alza il volume e siediti.»

«…E adesso ci colleghiamo con Roger Mudd, a Mosca.»

«Qui a Mosca sono le tre di notte, Walter, e la città dorme. Però le luci negli uffici del Cremlino dove verrà seguito il volo sono tutte accese…»

«Sta succedendo in questo momento, Harry?»

«Non ci vedi? Guarda la scritta. “In diretta via satellite.”»

«…E al cosmodromo russo di Tyuratam si stanno ultimando i preparativi per il lancio dei missili alla luce dei riflettori…»

«Quello sarebbe un vero missile russo?»

«Sicuro.»

«Gesù, sembra uno dei nostri.»


Maria Kirtchatovska Markova perfettamente sveglia a fianco del marito che dormiva, guardò il cielo illuminarsi lentamente alle luci dell’alba.

Nonostante barba e capelli gli stessero diventando grigi, Markov sembrava ancora un bambino, nel sonno: il suo viso non conosceva rughe, a parte le pieghe del sorriso agli angoli degli occhi; la bocca era leggermente aperta, il respiro calmo, regolare.

Gli occhi di Maria bruciavano. Era rimasta sveglia tutta notte, irrigidita dalla tensione, preoccupata per il futuro. L’americano era condannato a morte, lo sapeva. Era nulla di più che una pedina nella lotta per il potere all’interno del Cremlino. Ma se Stoner era una pedina, Maria stessa, e Kirill, erano ancora meno. Potevano restare travolti tutt’e due dal gesto brusco di una mano indifferente.

“Devo proteggerlo. Devo proteggere lui e me.” Piano, pianissimo, scostò le coperte per scendere dal letto. Il pavimento era freddo, ma quasi non se ne accorse. S’avvicinò alla finestra, e la luce del sole le scaldò il viso.

«Maria?» disse la voce assonnata di Markov.

Lei non rispose.

«Cosa stai facendo?»

Maria si girò, vide che suo marito era seduto sul letto. La vecchia camicia da notte verde gli si era sollevata fino al petto, ma lei non trovò la forza di ridere a quello spettacolo.

«Guarda l’alba» disse. «È bellissima.»

Markov prese una sigaretta dal pacchetto sul comodino.

«Cosa c’è?» le chiese, accendendo la sigaretta. «Perché ti sei alzata così presto?»

Lei scrollò le spalle, Inutile parlarne con Kirill. Si sarebbe solo arrabbiato e avrebbe detto idiozie, trascinato dalla foga.

Markov scese dal letto, la raggiunse alla finestra.

«Sei rimasta sveglia tutta notte, eh? Hai gli occhi rossi.»

«Stamattina lanciano il missile» disse Maria.

«Sì.» Markov tirò una boccata di fumo, guardò fuori dalla finestra. Da lì, la piattaforma di lancio non si vedeva.

«È strano pensare» continuò lui «che Stoner sarà più al sicuro nello spazio che qui.»

Lei non disse nulla.

«Se non altro» rifletté suo marito «nello spazio non ci sono assassini.»

Lei continuò a tacere.

Lui la fissò, con aria inquisitrice. «Maria Kirtchatovska, “sarà” al sicuro su quel missile, vero?»

«Sì» rispose automaticamente lei. «Naturalmente.»

Afferrandola alle spalle, Markov sussurrò: «Maria, è amico mio. Non voglio che gli succeda qualcosa.»

«Non c’è nulla che io possa fare ai suoi danni» disse lei.

«Però puoi aiutarlo.»

«No, non posso.»

«È ancora in pericolo, Maria?»

Lei si allontanò dal marito.

Ma lui la strinse di nuovo, più forte. «Maria! Se esiste ancora una possibilità per noi due di vivere insieme, tu devi essere sincera con me. È in pericolo?»

«La cosa non è nelle nostre mani, Kirill» disse Maria, cercando di sfuggire gli occhi di lui. «Non possiamo farci niente.»

«Non possiamo fare niente per cosa?» La voce di Markov stava diventando frenetica.

«Non lo so!» gemette lei. «Le decisioni che si stanno prendendo… Kirill, non dovremmo nemmeno pensarci! Non ci riguarda!»

«Sì che ci riguarda!» La voce di Markov era tagliente, implacabile. «Se lasci che uccidano Stoner, lasci anche che uccidano noi.»

«Kir, non posso…»

«Cosa faranno?»

«Non lo so.»

«Ma faranno qualcosa?»

«Esistono… fazioni, ai massimi livelli di autorità.»

«Devi scoprire cosa hanno intenzione di fare, Maria. Prima che lui salga su quel missile!»

«Non sarà il missile a ucciderlo» disse lei. «Questo lo so. Non vogliono che il lancio fallisca. Il mondo intero lo seguirà per televisione.»

«E allora?»

«Come posso saperlo, Kir? Se anche solo tentassi di scoprirlo, significherebbe… Non posso, Kir. Non posso.»

Markov la circondò con le braccia, la strinse. La sua voce si fece dolce, quasi carezzevole.

«Devi, Maria. È l’unica speranza per noi, per tutti noi. Devi scoprire cosa vogliono fargli. E in fretta.»


Le loro voci svegliarono Jo. Le pareti sottili che dividevano le stanze al secondo piano non lasciavano filtrare parole comprensibili, ma dal ritmo delle voci lei capì che due russi stavano discutendo animatamente.

Si lavò e si vestì in fretta. Solo quando arrivò davanti allo specchio, per mettersi il rossetto sulle labbra, si accorse che le tremavano le mani.

Fu la prima a scendere a pianterreno. La cuoca e la sua aiutante, due russe mogli di tecnici, avevano già preparato la tavola. Dalla cucina giungeva il profumo di cereali cotti, uova, prosciutto, e frittelle.

Quando Markov scese, era teso come una corda di violino; lo seguiva la moglie, cupa in viso. Jo capì che erano state le loro voci a svegliarla. Nel giro di qualche minuto arrivarono i due scienziati cinesi, poi Zworkin e due dei suoi assistenti. Nessuno parlò molto. La tensione, nell’aria, era come elettricità ad alto voltaggio.

Jo non riuscì a mangiare. Sorseggiò una tazza di caffè, e intanto fuori si fermò un camioncino. Sei tecnici in tuta bianca entrarono, dissero qualche parola in russo a Zworkin, poi salirono di sopra.

Jo li seguì. Salendo le scale, si accorse di avere Markov alle spalle.

«Mi tremano le mani» gli disse.

«Sì» rispose lui. Nient’altro.

Stoner era in corridoio. Indossava anche lui una tuta che gli avevano dato i russi. Il gruppo di tecnici lo circondò come una falange di guardie del corpo, come una scorta di sacerdoti vestiti di bianco.

«Vado io con lui» borbottò Markov, superando Jo.

«Kirill!» disse Stoner, con un sorriso allegro. «Buongiorno. Vuoi essere così gentile da dire a questi signori che sono pronto a partire? Cosa aspettiamo? Diamo il via allo spettacolo.»

Markov tradusse in russo. I tecnici risero e annuirono, cominciarono a ridiscendere. Jo si scostò per lasciarli passare, e vide che Zworkin e tutti gli altri si erano radunati ai piedi delle scale, a testa in su.

“Il comitato d’addio” pensò la ragazza.

Quando le arrivò vicino, Stoner si fermò. «Arrivederci, piccola. Grazie di tutto.»

Lei restò come paralizzata, incapace di muovere le mani, stretta contro la parete dalla folla di tecnici.

«Buona fortuna, Keith» riuscì a sussurrare.

Lui si chinò su di lei, la sfiorò con un bacio. «Tornerò» le sussurrò.

Poi scomparve giù per le scale, preceduto da Markov, col gruppo di tecnici alle spalle.

Jo restò lì, improvvisamente sola in corridoio, e pensò: “Se non altro, sta per partire. Adesso non tenteranno più di fargli del male. Ucciderebbero anche il cosmonauta che andrà con lui”.


A Washington era quasi mezzanotte, ma le luci splendevano nell’ufficio ovale, dove erano radunati i consiglieri del presidente.

«Quanto manca al lancio?» chiese l’addetto stampa.

«Meno di due ore» rispose il consigliere scientifico.

«Quand’è che cominciamo a pregare?» gracidò il senatore Jay, che si stava dedicando al terzo scotch della serata.

«Io ho cominciato un’ora fa» rispose il presidente da dietro il tavolo.

Gli occhi di tutti erano incollati sullo schermo televisivo incorporato a una parete dell’ufficio ovale. Lo schermo mostrava le immagini trasmesse da Tyuratam senza le interruzioni pubblicitarie. Il presidente, premendo un pulsante sul suo tavolo, poteva ricevere il commento audio della stazione che preferiva, oppure il commento degli esperti della NASA che seguivano la trasmissione dagli uffici nel seminterrato dell’Ala Ovest. In quel momento, su uno schermo più piccolo appariva, a lettere elettroniche, il commento della CBS. Il presidente aveva abbassato a zero il volume.

Walden C. Vincennes, bello e abbronzato sotto la criniera leonina, era riuscito a impossessarsi della vecchia sedia a dondolo di Kennedy e a sistemarla alla destra del tavolo del presidente.

«Se la missione andrà bene, signor presidente» disse, e la sua voce melodiosa, baritonale, sovrastò ogni altra conversazione nella stanza «le sue azioni saliranno alle stelle.»

«Forse» disse il presidente. «Vedremo.»

L’addetto stampa concentrò tutta la sua attenzione sui due uomini, anche se sedeva al lato opposto della stanza, stretto sul divano tra il senatore Jay e il generale Hofstader.

Vincennes sorrise come una star del cinema. «Sa, signor presidente, se tutto andrà per il meglio forse gli americani le chiederanno di ripensare alla sua decisione di non presentarsi alle elezioni.»

Il presidente scosse la testa. «Ne dubito.»

«Il partito potrebbe avanzare una proposta in questo senso.»

«No.»

«Ho sentito… voci.»

Il presidente fece uno sforzo per staccare gli occhi dallo schermo. «Walden, “se” entreremo in contatto con l’astronave aliena e “se” gli alieni non saranno ostili e “se c’è” parecchio da guadagnare da questo contatto… non crede che avrò un sacco di cose da fare tra oggi e novembre? Come potrei sostenere una campagna elettorale e contemporaneamente far fronte a tutti questi impegni?»

Vincennes assunse un’espressione pensosa. Il suo sorriso si smorzò gradatamente, ma all’addetto stampa parve che i suoi occhi fossero ancora più allegri di quando sorrideva.

«Immagino che abbia ragione» disse Vincennes.

«E se la missione dovesse fallire» continuò il presidente «se quell’uomo morisse o l’alieno fosse ostile, mostruoso… sarei finito completamente.»

«Vero. Ma sono sicuro che andrà tutto bene.»

L’addetto stampa rise in silenzio. “Vincennes mira alla candidatura del partito. Mi venga un colpo! Vuole davvero presentarsi alle elezioni!” Poi, tornato serio, pensò: “Dovrò avere un lungo colloquio con lui. Gli servirà uno staff d’esperti, dopo tutto”.


In California erano le nove di sera. Tutti gli spettacoli più importanti erano stati annullati per la ripresa in diretta dell’impresa spaziale.

Doug ed Elly Stoner guardavano la televisione nel soggiorno dei nonni. La madre era uscita con amici. Seduti accanto ai nonni, seguirono le spiegazioni di Walter Cronkite.

«Questa sarà la missione spaziale con equipaggio umano più difficile e complessa che sia mai stata tentata. Astronauta e cosmonauta, infatti, dovranno spingersi nello spazio a una distanza quattro volte superiore alla distanza massima raggiunta da un essere umano.»

Cronkite sedeva a una scrivania curva piena di strumenti elettronici. Alle sue spalle, una mappa a quattro colori mostrava le posizioni della Terra, della Luna, e della nave aliena.

«I cosmonauti russi che si trovavano sulla stazione spaziale sovietica Salyut Sei hanno già assemblato i tre moduli lanciati da Tyuratam nel corso delle ultime due settimane.»

Al posto della mappa, dietro l’orecchio di Cronkite apparvero le immagini dei moduli. Erano cilindri color argento con pannelli di accumulatori d’energia solare che sporgevano ai lati. Su ogni modulo erano dipinte le lettere CCCP.

«I moduli contengono le apparecchiature per il riciclaggio dell’aria, il cibo e l’acqua per la missione che durerà due settimane» continuò Cronkite «nonché la strumentazione scientifica che l’astronauta americano e il cosmonauta russo useranno per studiare la nave aliena, e, se tutto andrà “alla perfezione”, per eseguire il rendez-vous spaziale con questo visitatore giunto da un lontano Sistema Solare.»

Doug si agitò sul divano, irrequieto: aveva voglia d’una birra. Sua sorella gli scoccò un’occhiataccia, poi riportò l’attenzione allo schermo.

«A pilotare la Soyuz sarà il maggiore Nikolai Federenko, un veterano delle tre precedenti imprese spaziali sovietiche. Lo scienziato-astronauta sarà il dottor Keith Stoner, della National Aeronautics and Space Administration degli Stati Uniti, la NASA. Il dottor Stoner…»

Per chissà quale ridicola ragione, gli occhi di Doug si riempirono di lacrime. Senza distogliere gli occhi dal televisore, ringraziò il cielo che la stanza fosse troppo buia perché i nonni e sua sorella potessero accorgersene.


Markov non aveva figli, e il suo unico parente vivente, una sorella più anziana, si era sposata e trasferita in una città industriale del Caucaso quando Kirill studiava ancora. Quindi, la tempesta emotiva di accompagnare Stoner in quel lunghissimo mattino lo colse alla sprovvista.

Come traduttore ufficiale, Markov seguì l’americano passo dopo passo: entrarono assieme al centro di lancio, dove Stoner fu sottoposto agli ultimi controlli medici (un semplice esame del sangue e un elettrocardiogramma), poi scesero per la vestizione.

«Mi sembra di essere uno sposo che si mette lo smoking» disse Stoner, mentre un paio di tecnici lo aiutavano a infilarsi la goffa tuta spaziale.

Markov, seduto su una panca, ribatté: «No, sei il guerriero che indossa l’armatura.»

Poi salirono su un minibus e raggiunsero la piattaforma di lancio. Assieme ad altri quattro tecnici, salirono in ascensore sino alla sommità della torre, A Markov sembrava che Stoner fosse stato inghiottito da un mostro bianco senza testa, e avvertiva una sensazione di vuoto allo stomaco, come se avesse scordato qualcosa d’importanza vitale, come se stesse per accadere qualcosa di terribilmente sbagliato.

“Ma questi sono tutti uomini in gamba, onesti. Hanno consacrato l’esistenza ai programmi spaziali. Non saboterebbero mai deliberatamente il loro stesso lavoro. Non potrebbero farlo!”

Eppure, si senti tutt’altro che rassicurato. “Una mela marcia è sufficiente” gli sussurrò il cobra raggomitolato nel suo cervello.

L’ascensore si spalancò su una piattaforma chiusa ai lati, piena di tecnici nelle inevitabili tute bianche. Un tubo dalle pareti grigie partiva dalla piattaforma e arrivava al portello della Soyuz.

Stoner si girò verso l’amico. «Qui devi fermarti, Kirill. Il resto del percorso è riservato all’equipaggio.»

Markov vide che il cosmonauta, il maggiore Federenko, aveva già percorso una parte del tubo: la tuta sigillata, il casco sotto il braccio, aspettava l’altro.

«Tutto a posto» disse Stoner. «Federenko parla l’inglese piuttosto bene. Non mi perderò.»

Markov si costrinse a sorridere. «Buona fortuna, Keith. Vaya con Dios.»

Stoner ricambiò il sorriso. «Et cum spirito tuo, vecchio mio. Ci vediamo quando torno.»

Markov restò lì; e, guardando Stoner che s’avviava lungo il tubo verso il cosmonauta, si sentì terribilmente mutile e triste.

«Salve, Nikolai» sentì dire Stoner. «È una giornata ottima per volare.»

«Sì, sì» rispose Federenko, con la sua voce profonda, da basso, che riecheggiò sulle pareti del tubo. «Ottima giornata. Ottima.»

“Sono come due giovani cavalieri che partono alla ventura” pensò Markov. Poi capì perché si sentisse tanto triste: non lo portavano con loro.

Scese in ascensore, e il minibus lo riportò al centro controllo lancio. Maria lo aspettava, in uniforme.

«Spero che vada tutto bene» disse.

Markov annuì, circondò col braccio le spalle della moglie. Incredibilmente, lei non si oppose.

«Il futuro del mondo è nelle loro mani, Marushka» le disse lui. «Il nostro futuro, il futuro della Russia, dell’America… il futuro del mondo intero.»

Maria lo guardò. «Non succederà niente» gli assicurò. «Il lancio sarà perfetto. Vieni, entriamo nel centro di controllo.»


Quando il sole si levò sulle colline lontane e le nebbie del mattino di Roma cominciarono a dissolversi, il papa si alzò dall’inginocchiatoio e raggiunse lentamente la porta della sua cappella privata.

Ci sarebbe stato il cardinale Benedetto, lo sapeva. E Von Friedrich, e molte altre persone. Gli inviati della televisione. I paparazzi. E lui doveva rendere tutto semplice, tradurre la situazione in poche parole che chiunque potesse comprendere. Non avrebbe parlato semplicemente alle telecamere e ai giornalisti, ma a centinaia di milioni di credenti e, stranamente, anche a miliardi di non credenti. Il papato era un grande peso, un peso di portata mondiale. Adesso stava per diventare interstellare.

“Ecco cosa dirò” pensò il papa, annuendo piano. “Dio, nella Sua benevolenza e saggezza, ha ritenuto opportuno svelarci nuovi segreti della Sua creazione. È una fortuna eccezionale vivere in quest’epoca. Questo oggetto alieno riafferma la verità di Cristo: tutti gli uomini sono fratelli.”

Per un istante fugace, si chiese di nuovo quali sarebbero state le conseguenze se gli alieni si fossero rivelati malvagi, maligni.

Non può essere, si ripeté fermamente. Non posso crederlo. Dio non permetterebbe mai che un male simile scenda sulle nostre teste.

Sicuro di sé, spalancò le porte. Le luci degli operatori televisivi si puntarono su di lui; la folla di giornalisti si accalcava contro i drappi rossi messi per l’occasione.

Le luci abbaglianti filtrarono sino nella cappella, dove, sopra l’altare a cui si era inginocchiato il papa, un affresco medievale del Diluvio ritraeva un’umanità peccaminosa castigata da un Dio terribile nella sua ira.


A metà globo di distanza, a Kwajalein, era primo mattino. Reynaud, seduto accanto al letto di Schmidt, guardava sul televisore dell’ospedale il countdown.

Cronkite stava mostrando una visuale di Cape Canaveral. Uno Space Shuttle della NASA era immobile sotto le luci dei riflettori, il muso puntato verso il cielo della Florida.

«E al centro spaziale Kennedy, gli americani si preparano a lanciare l’aerocisterna che nello spazio, in prossimità della nave aliena, rifornirà di carburante la Soyuz russa.

«L’aerocisterna è un veicolo russo, giunto negli Stati Uniti sei giorni fa per essere utilizzato nel complesso sforzo congiunto americano-sovietico per entrare in contatto con l’astronave aliena».

Schmidt, seduto sul letto, fasciato dalla testa ai piedi, chiese: «Pensi che ce la faranno?» La sua voce era esile, lenta.

«Ne sono sicuro» rispose Reynaud. «Stoner non si lascerà fermare da nulla.»


Anche il segretario generale era seduto sul letto, e seguiva le fasi finali del conto alla rovescia. Borodinski gli era a fianco.

«Sta andando tutto bene, compagno segretario» disse, senza distogliere gli occhi dallo schermo. «Stamattina deve essere molto fiero di lei. Il mondo intero guarda la Russia aprire la strada all’incontro con l’alieno.»

Ma il segretario generale aveva chiuso gli occhi. Il mento gli ricadde sul petto. Il suo ultimo respiro fu un lungo, dolce sospiro di liberazione.

Stoner era sdraiato di schiena nella piccola capsula sferica della Soyuz. Adesso aveva il casco in testa, la visiera era abbassata e chiusa ermeticamente; le mani guantate gli riposavano sulle ginocchia. E sudava. Le gambe penzolavano sopra di lui. “Come una tartaruga rovesciata sul dorso” pensò. Paralizzata e in pericolo.

Si girò a guardare Federenko, sul sedile di sinistra, ma il casco gli bloccò la visuale. Però, in cuffia, sentiva il cosmonauta chiacchierare allegramente in russo coi tecnici addetti al lancio. Stoner cercò d’immaginare cosa stessero dicendo.

«Alimentazione interna in funzione,» Sul pannello qualche centimetro sopra la sua testa si accese una fila di luci verdi.

«Sistema di mantenimento vitale in funzione.»

«Computer di navigazione in funzione.»

«Pressione atmosferica normale.»

Il cosmonauta faceva danzare le dita sugli interruttori del pannello di comando come un pianista che provasse uno strumento nuovo. A una a una, le file di luci si accesero.

«Shtoner!» esplose il basso di Federenko.

«Sì?»

«Al mio segnale, saremo a T meno un minuto… “Ora!”»

T meno un minuto. Stoner udì in cuffia le parole del russo, e gli fu grato di aver trovato il tempo per informarlo. Adesso, il suo orologio mentale poteva contare gli ultimi sessanta secondi a ritmo con la voce del controllore russo di lancio.

Gli occhi di Stoner guizzarono sul pannello di comando. A ogni spia e interruttore era stata aggiunta un’etichetta in inglese. In poche settimane, aveva dovuto assimilare conoscenze che avrebbero richiesto un anno. “Ma posso guidare questa nave, se ci sarò costretto” pensò Stoner. “Se sarà necessario potrò intervenire. Posso farlo.”

Sotto i guanti, le sue mani erano madide di sudore. Sperò di non dover essere costretto ad assumere il comando della nave.

T meno trenta secondi.


Jo, sul tetto dell’edificio dov’erano alloggiati, scrutava il cielo chiaro e la rampa di lancio, lontana diversi chilometri.

Non permettere che succeda qualcosa, pregò in silenzio. Non permettere che succeda qualcosa.

L’altoparlante urlò in russo per diversi momenti, poi in inglese: «Un messaggio del presidente dell’Unione Sovietica. “Buona fortuna ai due coraggiosi che partono per incontrarsi con la nave aliena. L’ammirazione più sincera e gli auguri più sentiti del popolo sovietico vi accompagnino nell’audace missione.”»

Prima che gli echi si fossero spenti, la voce aggiunse: «T MENO QUINDICI SECONDI.»


T meno dieci secondi, contò mentalmente Stoner.

Il cuore prese a battergli follemente in petto al trascorrere dei secondi: cinque, quattro, tre…

La rampa tremò sotto di loro. Le pompe cominciarono a entrare in funzione.

«…Uno, zero…»

Udì il termine russo per “Accensione!”, e tutta la capsula fu scossa da un brivido. Un rombo cupo nacque sotto di loro, esplose in un urlo assordante: milioni di demoni levarono la voce nel loro coro più infernale, e una mano pesantissima, implacabile, gli schiacciò il petto, lo affondò sul sedile, lo scosse con violenza mostruosa.

Stoner sentì tutto il fiato uscirgli dai polmoni. Gli occhi gli rientrarono nelle orbite. Il rumore era travolgente, una parete solida che gli squassava le orecchie. Non riusciva ad alzare le mani dai braccioli. La spina dorsale gli si stava spezzando. E il rumore, il rumore e le vibrazioni che lo scuotevano…

Nel mondo intero, centinaia di milioni di persone videro il razzo scintillante alzarsi su una lingua di fuoco, diritto e sicuro quasi fosse guidato da un filo invisibile; alzarsi piano, maestosamente, poi accelerare, salire più in alto, accelerare, raggiungere l’azzurro macchiato di nubi, aumentare ancora la velocità, tracciare un arco in cielo, e finalmente scomparire tra le fiamme che uscivano dagli ugelli dei motori.

A Mosca, un folto gruppo di giornalisti incalliti uscì in grida d’esultanza quando il missile spari in cielo.

A New York, Walter Cronkite si alzò all’improvviso dietro la scrivania, cogliendo alla sprovvista i cameramen, che dovettero alzare le telecamere per continuare a inquadrarlo. A milioni di spettatori parve di udire Cronkite che mormorava: «Vai, baby, vai.»


Jo guardò alzarsi il missile: le fiamme dei motori erano la cosa più luminosa che avesse mai visto. Il missile si alzò in un silenzio innaturale, sempre più su, sempre più in alto; e non si udì un solo suono. Poi il rombo gigantesco la raggiunse, l’investì: una marea solida di suono che arrivò a ondate, facendo tremare tutto l’edificio. A Jo parve di avvertire il calore sprigionato dai motori; capì che si trattava solo della sua immaginazione, ma lo sentì ugualmente.

“Addio, Keith” disse fra sé. Perché, nel profondo, sapeva che non lo avrebbe mai più rivisto.

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