L’EVANGELISTA URBANO PREVEDE “UN CAMBIAMENTO CHE SCUOTERÀ IL MONDO”
Atlanta (UPI). Il reverendo Willie Wilson, autodefinitosi “evangelista urbano”, ha dichiarato ieri che un grande e poderoso cambiamento, “un cambiamento capace di scuotere il mondo”, modificherà, nel giro dei prossimi mesi, l’esistenza di ogni abitante della Terra.
“Scrutate i cieli” ha detto il reverendo Wilson all’estatico pubblico di circa mille persone, allo Hyatt Regency Hotel. “Nessuno sulla Terra sarà più lo stesso, dopo che questo grande e poderoso cambiamento sarà sceso sul mondo.”
Il reverendo Wilson si è rifiutato di dare indicazioni specifiche sulla natura del cambiamento, dichiarano solo che “cristiani e non cristiani dovrebbero preparare le proprie anime a un mondo nuovo con la preghiera e le opere buone”.
Il raduno di revival religioso di ieri sera, tenutosi nel futuristico atrio dello Hyatt Regency, rientrava nella “crociata” che il reverendo Wilson sta conducendo a livello nazionale e che nei prossimi sei mesi lo porterà in diciassette delle maggiori città americane.
Ieri sera erano a fianco del reverendo Wilson…
Ramsey McDermott spostava avanti e indietro la sua vecchia poltrona di pelle, fumando furiosamente, riflettendo, interrogandosi, cercando di decidere quale fosse la strategia migliore.
“E se avesse ragione?” si chiese. “Se si tratta davvero di intelligenza extraterrestre, potrebbe scapparci un Nobel per me. Dopo tutto, sono io il direttore del progetto. Sono io che ho portato Stoner all’osservatorio. Era solo un astronauta messo a riposo, prima che io lo chiedessi alla NASA.”
L’ufficio era invaso dal buio del tardo pomeriggio. Fuori, il sole era già sceso dietro gli edifici a mattoni rossi che delimitavano il cortile.
“Quando sarò scomparso, metteranno una targa qui” si disse McDermott. “In memoria del professor Ramsey McDermott, scopritore della vita extraterrestre.” Immaginò la cerimonia del Nobel, il discorso che avrebbe tenuto a Stoccolma, le interviste con la stampa. Con un sobbalzo, capì che avrebbe dovuto dividere il premio con Stoner e Thompson, forse con un’altra persona o due.
Stoner gli avrebbe procurato guai, lo sapeva. Era un rompiballe nato.
“Forse non è IET” pensò. “È più probabile che sia un oggetto naturale, magari una nuova cometa oppure un meteorite catturato da Giove e inseritosi in orbita.
“E gli impulsi radio? Come spiegarli? Una coincidenza? Un’influenza reciproca tra l’oggetto che Stoner ha scoperto e le emissioni radio di Giove, come per esempio nel caso di Io che influenza le scariche radio?”
La pipa si era spenta. McDermott se la tolse di bocca, senza accorgersi nemmeno lontanamente delle spesse nubi di fumo blu-grigio che si stendevano a strati nell’ufficio, che permeavano i libri, le carte, le tende alla finestra.
Era buio. McDermott accese la lampada da tavolo, E vide, di nuovo, il rapporto giunto da Washington.
“Accidenti a lui!” Il vecchio batté la pipa sul grande posacenere della scrivania, stracolmo. Il cannello, antico e fragile, si spezzò.
“Due volte accidenti a lui!” sbottò fra sé McDermott, “E dove diavolo è la ragazza? Ormai dovrebbe essere qui.”
Come in risposta, bussarono alla porta. Senza attendere, Jo aprì il battente ed entrò nell’ufficio del professor McDermott.
«È in ritardo» grugnì lui.
«La lezione è appena terminata.»
«Oh, ultimamente frequenta anche le lezioni» commentò lui, sarcastico.
«Quando posso.»
La ragazza era perfettamente calma. Senza togliersi la giacca, mettendosi i libri in grembo, gli sedette di fronte. Con una smorfia di disgusto, agitò una mano per allontanare il fumo.
«Si diverte nel New Hampshire? So che tutti i week-end li passa lì con Stoner.»
«Sono affari miei» ribatté lei.
«E invece diventeranno miei» scattò McDermott. «Sono affari del PROGETTO JUPITER, se non lo sa.»
La ragazza s’irrigidì. «Lei mi ha detto di fare tutto il possibile perché lui accettasse di restare in quella casa senza creare altri guaì. Quindi, faccio quello che posso.»
McDermott tamburellò le dita sul rapporto che aveva sulla scrivania. «Il che significa anche imbucare lettere sue per l’estero?»
Jo esitò solo per una frazione di secondo, «Cosa vuole dire?»
«Chissà come, Stoner è riuscito a far partire una lettera. Per la Russia, niente di meno. Era indirizzata a un linguista sovietico, stando a Washington.»
«Non ne so niente» disse Jo.
«Lei è l’unica che possa far uscire una sua lettera.»
Lei scosse la testa, decisa. «Non ho imbucato nessuna lettera per la Russia né per lui né per chiunque altro. Non lo farei mai.»
«Ne è sicura?»
«E Washington come sa che ha spedito una lettera a quel russo?»
McDermott ridacchiò. «Non mi dicono quale sia la fonte delle loro informazioni. Immagino che avremo spie al Cremlino, come i russi hanno spie a Washington.»
«E cosa c’è scritto nella lettera?»
«Quanto basta per sbattere Stoner in una prigione federale per molto, molto tempo.» McDermott capì, nel momento in cui lo diceva, che era la verità. Il suo cuore si alleggerì d’un peso. Con Stoner uscito di scena…
«Non può farlo!» disse Jo.
Lui scrollò le spalle. «Non sta a me decidere. È un problema della marina.»
«Ma… Ha detto che per il progetto le serve Stoner.»
McDermott sorrise. «Presumo che ormai si possa procedere anche senza di lui. In effetti, ci ha dato più problemi che altro.»
«No. Non può.»
La voce di Jo era quasi implorante. McDermott avvertì la tensione improvvisa della ragazza, la vide protendersi in avanti, il volto contratto per la preoccupazione.
«Stoner si è impiccato con le sue mani» le disse, e il sangue dentro di lui si rimescolò, gli si formò dentro uno strano calore.
«Non farebbe mai niente di male» stava dicendo Jo. «Deve trattarsi di un errore…»
Ma McDermott non l’ascoltava più. Aveva sentito il tono della sua voce, visto l’ansietà nei suoi occhi; e aveva capito, con uno shock interiore, di volerla per sé. Disperatamente. Per sé, e per nessun altro.
«Ci dev’essere qualcosa che potete fare!» implorò Jo.
McDermott aveva ancora in mano il cannello della pipa spezzato. Lo gettò nel posacenere, prese un’altra pipa e cominciò a riempirla in silenzio, metodicamente, senza una parola, osservando la ragazza che osservava lui, aspettando che lei rompesse il silenzio.
«Non può… fare qualcosa? Aiutarlo?»
«Ha infranto i regolamenti di sicurezza» rispose lentamente McDermott. «Ha firmato l’impegno alla segretezza e poi ha spedito una lettera in Unione Sovietica.»
«Forse è una lettera vecchia. Forse l’ha scritta prima di firmare l’impegno alla segretezza.»
McDermott schiacciò il tabacco e s’infilò la pipa in bocca. «È sempre un crimine punibile dalle leggi federali.»
Jo si guardò attorno nella stanza, come in cerca d’aiuto. «Ma lei può fare qualcosa, senz’altro.»
Con un tremito interiore, McDermott si sentì dire: «Probabilmente potrei raccontare alla marina che è troppo importante per il progetto per mandarlo in galera.»
Jo annuì, felice.
«Ma perché dovrei? Perché dovrei mettere a rischio le possibilità di successo del progetto per lui? Cosa ci guadagno?»
Per diversi momenti, lei non parlò. McDermott sentiva il sangue pulsargli nelle orecchie.
Alla fine, non resistette più. «Se io… gli salvassi il collo, lei cosa farebbe?»
Gli occhi di Jo s’illuminarono. La ragazza s’irrigidì sulla sedia. «Cosa farei io?»
«Per me.»
Jo quasi sorrise. «Cosa vuole che faccia?»
Togliendosi di bocca la pipa ancora spenta, McDermott disse, tremando: «Deve smettere di vederlo. E passare il suo tempo con me.»
Lei annuì lentamente. «E io cosa ci guadagno?»
Lui si sentì confuso. «Come sarebbe a dire?»
«Voglio una lettera di raccomandazione per la NASA. Una lettera che mi raccomandi per l’assunzione come astronauta.»
«Vuole…»
«Le darò quello che vuole, se lei darà a me quello che voglio.»
«E Stoner?»
«Resterà al progetto. Non lo vedrò più. Lei scriva la lettera.»
Deglutendo a fatica, McDermott ribatté: «Quando… Quando il progetto sarà terminato. Scriverò la lettera allora. C’è un sacco di lavoro che ci aspetta.»
«Comunque, può mandare lo stesso la lettera alla NASA. Subito. Resterò col progetto sino alla fine.»
A McDermott stava scoppiando la testa, «Non è così semplice, ragazza. Se si aspetta che io…»
«Farò quello che vuole» disse Jo. «Però, prima, scriva la lettera.»
«Io… Vedremo. Devo pensarci.»
Jo si alzò, s’infilò i libri sotto il braccio, all’altezza dei fianchi. «Okay, ci pensi. Quando mi darà la lettera e l’assicurazione che il dottor Stoner non sarà allontanato dal progetto, io terrò fede ai miei impegni.»
Arrivò alla porta, si girò a guardarlo. «Tanto per capirci… Non mi vanno le catene e i divertimenti sado-masochistici, ma per tutto il resto sono disponibile.»
Quando lei uscì, chiudendosi la porta alle spalle con un colpo secco, McDermott era in un bagno di sudore.
Markov sedeva in sala d’aspetto come uno scolaretto colto in fallo, e aspettava, aspettava. La segretaria dell’accademico Bulacheff, una donna corpulenta di cinquant’anni o più, di tanto in tanto gli scoccava un’occhiata. Uomini entravano e uscivano dall’ufficio dell’accademico. Ma nessuno rivolgeva la parola a Markov.
Fuori nevicava. Markov restò a guardare i fiocchi bianchi che si appiccicavano ai vetri della finestra. A poco a poco, Mosca scomparve sotto le raffiche di vento e neve. Persino le guglie e le mura del Cremlino divennero macchie confuse.
“Una vera tormenta” si disse Markov. “Chissà quanto ci metterò per tornare a casa.”
Alla fine, quando stava per cadere in un sopore ipnotico indotto dalla neve, la voce nasale della segretaria gracchiò: «Kirill Vasilovsk Markov?»
Lui si risvegliò di colpo. Non c’era nessun altro nella sala, ma la donna aveva lo stesso trasformato il suo nome in una domanda. «Sì, sono io» rispose Markov.
«L’accademico Bulacheff può riceverla.»
Markov si alzò, leggermente incerto sulle gambe, e raggiunse la porta in legno grezzo dell’ufficio dell’accademico.
“Bulacheff è l’uomo chiave” gli ripeté la voce ammonitrice di sua moglie. È lui che deve restare soddisfatto. Se riesci a convincerlo che quei segnali non sono un linguaggio, forse andrà tutto bene. Ma se resterà scontento del tuo lavoro… Maria non aveva terminato la frase: una spada sospesa sulla testa di Markov.
L’ufficio di Bulacheff non era né spazioso né lussuoso, però un samovar lucidissimo sbuffava in un angolo della piccola stanza. E l’accademico si alzò dalla scrivania per dare a Markov un caldo benvenuto.
«Kirill Vasilovsk! Come è stato gentile a venire di persona. Spero che la neve non le darà noie, tornando a casa.»
Markov sorrise e annuì e mormorò frasi di circostanza, e pensò: “Sono stato costretto a venire di persona, mi hai convocato. E come potrei sperare di non avere noie dalla neve, a meno che non restiamo qui fino a primavera?”.
«Ho letto il suo rapporto» disse l’accademico, riaccomodandosi alla scrivania. «Molto interessante. Molto interessante.»
Fece una strizzatina d’occhi a Markov, poi frugò nell’ultimo cassetto della scrivania, dove trovò una bottiglia di vodka e due bicchieri.
«Non è ghiacciata» si scusò.
Markov gli sorrise. «Non si preoccupi. Sono già congelato io.»
Bulacheff indicò all’ospite il logoro divano in pelle in un angolo dell’ufficio. Sopra il divano erano incorniciati ritratti di Mendeléev, Lobachevski, Oparin e Kapitza. L’inevitabile ritratto di Lenin era sopra la scrivania dell’accademico. Però non c’erano uomini politici contemporanei, notò Markov.
Accettò il minuscolo bicchiere di vodka. Bulacheff brindò: «Alla comprensione.»
Tutt’e due trangugiarono il liquore d’un fiato.
Mentre Bulacheff si spostava con la sedia girevole per riempire il bicchiere di Markov, il linguista disse: «Lei è stato gentile a trovare tempo per me. So che deve essere molto occupato.»
Il cranio calvo di Bulacheff luccicava alla luce dei pannelli sul soffitto. «A dire il vero, sono felicissimo di vederla. Voglio discutere questa faccenda di Giove con qualcuno che non appartenga all’Accademia, che non faccia parte dell’ufficialità.»
«Oh?»
Con un sorriso quasi timido, Bulacheff si riaccomodò in poltrona. «È persino troppo facile restare isolati, in una posizione come la mia. Vedo solo gente che fa parte dell’Accademia o del governo. A volte ci chiudiamo troppo su noi stessi; perdiamo di vista le cose importanti perché siamo troppo presi dai problemi immediati del momento.»
Stringendo il bicchiere di nuovo pieno, Markov annuì. «Capisco.»
«È un piacere discutere questa questione di…» Bulacheff lanciò un’occhiata distratta al soffitto. «…Di intelligenza extraterrestre con un uomo di scienza, anziché con un politico.»
“O alza lo sguardo al cielo, o cerca microfoni sul soffitto” pensò Markov. Poi disse: «E una questione di importanza estrema, vero.»
«Sì» convenne Bulacheff. «E gli americani sono parecchio più avanti di noi… Come al solito.»
«Cioè?»
«Questo Stoner… L’idealista che le ha scritto quella lettera… Sa chi è?»
Markov scosse la testa.
«La nostra ambasciata a Washington ci comunica che è uno degli astronomi che hanno collaborato alla progettazione e alla costruzione del telescopio orbitale lanciato da poco dagli americani. Lo chiamano Big Eye.»
«Un telescopio in orbita? Come uno Sputnik?»
«Esattamente. È chiaro che gli americani lo usano per studiare Giove da vicino… Molto più da vicino di quanto possiamo fare noi, visto che non abbiamo in orbita strumenti del genere.»
Markov si lisciò la barba con la mano. «Quindi, hanno scoperto cose che noi non possiamo vedere.»
«Esatto! Loro posseggono occhi, e noi siamo ciechi.»
«È un… vero peccato.»
Bulacheff bevve la vodka, appoggiò il bicchiere sulla scrivania. «La scienza dipende dalla politica. È sempre stato così. Capitalismo o socialismo, non fa differenza. Noi vogliamo studiare l’universo, però dobbiamo mendicare i soldi dei politici.»
Markov era d’accordo. «Anche agli inizi della scienza, grandi uomini come Galileo e Keplero dovevano preparare l’oroscopo dei loro mecenati, se volevano portare avanti il loro vero lavoro.»
«Sì. E oggi noi dobbiamo inventare armi per loro.»
Scrutando a sua volta il soffitto, Markov disse: «Ma è necessario per la difesa della Madrepatria.»
«Certo» disse seccamente Bulacheff. Poi aggiunse: «E per il trionfo del socialismo.»
«È un vero peccato che noi non abbiamo un telescopio orbitale» disse Markov.
«Occorrerebbero dieci anni per portarlo nello spazio… Nove dei quali spesi per manovre di corridoio e richieste umilianti.»
«Mi chiedo… Esiste la possibilità che possiamo usare il telescopio americano? O vedere le fotografie che ha scattato?»
Bulacheff lo fissò con sguardo truce. «Quando non vogliono nemmeno ammettere di avere scoperta qualcosa? Quando tengono segreta l’intera faccenda?»
«Hmmm. Sì. Sarebbe difficile.» Markov bevve metà della vodka, si sentì bruciare lo stomaco.
«Non fosse perché scoppierebbe la guerra, sarei tentato di chiedere ai nostri cosmonauti di impadronirsi di Big Eve» borbottò Bulacheff.
Markov scoppiò quasi a ridere, ma riuscì a controllarsi.
«No» disse cupamente Bulacheff «la nostra unica speranza è collaborare con gli americani. Però, vista la situazione internazionale, i nostri capi politici non accetteranno mai di essere costretti a chiedere favori a Washington.»
«Sarebbe umiliante» convenne Markov.
«Ma dev’esserci un modo per riuscirci!»
Markov scrutò con attenzione il piccolo uomo calvo. Per quanto avesse un aspetto fragile, Bulacheff possedeva una voce dura come l’acciaio. I suoi occhi scintillavano, e non semplicemente per effetto della vodka.
«Per il mio rapporto…» cominciò lentamente Markov, aspettando un’interruzione.
«Sì?»
«Immagino che l’abbia letto.»
«Con estrema attenzione.»
Markov annuì. «Se i segnali radio provenienti da Giove non sono un linguaggio, questo non significa che le probabilità dell’esistenza di vita intelligente sono… insomma, nulle?»
«Sarei portato a convenirne, certo» disse Bulacheff, scrollando leggermente le spalle «solo che gli americani stanno lavorando come indemoniati al problema.»
«Davvero?»
Bulacheff si mise a enumerare i punti sulle dita. Markov notò che aveva mani lunghe, magre, delicate: mani da pianista.
«Uno, il suo amico Stoner sta lavorando al problema. Ha lasciato l’ente spaziale americano per andare in un radio osservatorio piccolo e vecchio.»
Markov cominciò a dire: «Non è mio amico o…»
Ma Bulacheff continuò «Due, Stoner è in ottimi rapporti con i tecnici della NASA che si occupano di Big Eye. A quanto ci risulta, le fotografie che arrivano dal telescopio orbitale vengono inviate a Stoner attraverso canali sicurissimi.»
Markov annuì.
«Tre, tutto il personale dell’osservatorio, compreso il suo amico Stoner, è stato costretto a firmare nuovi impegni alla segretezza dalla marina degli Stati Uniti…»
«La “marina”?»
Bulacheff fece una smorfia. «Gli americani sono pessimi amministratori. In un modo o nell’altro, del progetto è incaricata la marina.»
«Non capisco.»
«Non fa differenza. La conclusione è che stanno lavorando al problema di Giove in segreto. Sappiamo anche che hanno già trovato un nome in codice: PROGETTO JUPITER. A quanto sembra, hanno informato del problema la NATO.»
«Forse annunceranno la notizia ufficialmente, appena avranno le prove…»
Bulacheff scosse la testa. «No. Vogliono entrare in contatto con gli alieni. E tenerci nascosta l’informazione.»
«Allora forse dovremmo essere “noi” ad annunciare al mondo che abbiamo ricevuto i loro segnali!»
Bulacheff alzò di nuovo gli occhi al soffitto. «Questo sarebbe contrario alla politica del nostro governo.»
«Ma non possiamo tenere segreta per sempre la notizia» insistette Markov. «E dato che gli americani ne sono già al corrente e sono più avanti di noi, rendere pubblica la cosa e costringerli ad arrivare a un programma di collaborazione a livello mondiale verrebbe tutto a nostro vantaggio.»
«Ne convengo, Kirill Vasilovsk» disse Bulacheff. «Ho preso in considerazione questa possibilità.»
Markov annuì.
«Il nostro ambasciatore alle Nazioni Unite potrebbe svelare la “nostra” scoperta dei segnali radio» disse Bulacheff, ripiegando le dita «dopo di che il merito di aver scoperto vita intelligente nell’universo sarebbe nostro.»
«E potremmo raccomandare un programma internazionale per lo studio di segnali» aggiunse Markov sempre più eccitato. «Gli americani sarebbero costretti ad accettare.»
«Ma questo non significa che gli americani ci fornirebbero le foto di Big Eye. Potrebbero sostenere di non aver mai usato il telescopio per fotografare Giove. Potrebbero tenere ancora per sé le informazioni.»
«Già» disse Markov, abbattuto.
«Ed è per questo che lei è tanto importante per noi» proseguì Bulacheff.
«Davvero?»
«Naturalmente! L’americano, Stoner, si fida talmente di lei da scriverle e rivelarle che sta lavorando al problema.»
«Non ha mai detto a chiare lettere…»
«Fra le righe, Kirill Vasilovsk, fra le righe.»
«Sì. Vedo.»
«Adesso deve rispondergli. Deve guadagnarsi ancora di più la sua fiducia. Forse possiamo combinare un incontro tra voi due… In America, magari.»
«Io?» Markov boccheggiò di sorpresa. «Andare in America?»
«Con la scorta del caso, naturalmente. A quanto mi risulta, sua moglie sarebbe per lei un’ottima guardia del corpo.»
Il cuore di Markov ebbe un altro sobbalzo. «Sì… Certo…»
«È solo un suggerimento. Il germe di un’idea. Comunque penso sia importante che lei si metta in corrispondenza con Stoner. Gli scriva una lettera lunga e cordiale. Gli dica quanto l’affascina il problema dei linguaggi extraterrestri. Insinui molto, ma non gli riveli nulla.»
«Posso tentare…»
«L’aiuteremo noi a stendere la lettera» disse allegramente Bulacheff. «E, naturalmente, ci accerteremo che sia assolutamente perfetta prima di spedirla in America.»
«Naturalmente.»
«Bene!» Bulacheff si alzò talmente di scatto che Markov pensò gli avessero tirato un calcio. «Sapevo di poter fare affidamento su di lei, Kirill Vasilovsk.»
Markov lasciò il divano e s’incamminò verso la porta, affiancato da Bulacheff.
«È tempo che mettiamo il suo nome sulla lista dei candidati al titolo di accademico» disse Bulacheff, gesticolando. «Dopo tutto, lei è uno dei maggiori linguisti russi… e un uomo importantissimo per tutti noi.»
Markov annuì, obbediente, e strinse la mano che l’accademico gli tendeva. Riuscì a stento a frenare la gioia quando, tornato in sala d’aspetto, si rimise il cappotto e si tirò sulle orecchie il colbacco. Nemmeno l’occhiataccia della grassa segretaria lo preoccupò.
In strada, nevicava più forte che mai. Niente si muoveva. Non si vedeva nessuno. La neve si stava accumulando, altissima, sulla scala esterna dell’edificio. Ma Markov rise, infilò i guanti nella neve e fece una palla. La tirò contro il lampione più vicino, quasi invisibile nella tormenta. La palla di neve volò in alto e colpì la lampadina. La luce si spense.
Stupefatto, Markov si guardò attorno, per controllare se qualcuno lo avesse visto distruggere una proprietà di stato. Poi si piegò in due dalle risate, e quasi precipitò sulla neve. Rialzatosi, sfidò il vento e cominciò il lungo viaggio di ritorno a casa. Aveva un sorriso da ragazzino sulle labbra, e la sua barba sembrava ormai un ghiacciolo.
«Tutto a posto, Maria Kirtchatovska» urlò alla neve che scendeva. «I tuoi timori sono infondati. Sono un uomo importante. Mi faranno entrare nell’Accademia!»
Nel suo ufficio caldo, Bulacheff restò a guardare Markov che scompariva tra le ombre e la neve della sera.
«Idiota» mormorò. Scostò la sedia dai vetri ghiacciati, si versò un’altra vodka. «Idiota troppo suggestionabile.»
“Il guaio” pensò l’accademico “è che è un tipo molto simpatico. Immaturo, forse, ma simpatico.”
Bulacheff sospirò e tracannò la vodka. “Be’” si disse “se tutto va come voglio io, Markov diventerà accademico. Se no… Tanto meglio che gli piaccia giocare con la neve.”