Le isole Marshall costituiscono il gruppo più orientale delle isole della Micronesia, nonché la regione orientale dello United States Trust Territory delle isole del Pacifico. Due degli atolli, Kwajalein ed Eniwetok, sono stati teatro di pesanti scontri durante la Seconda guerra mondiale. Più tardi, Bikini ed Eniwetok sono stati i bersagli di esperimenti con l’atomica… Le isole si estendono all’incirca da latitudine 3° a 15° N. e da longitudine 161° a 172° E. La superficie delle terre emerse è di 158 chilometri quadrati, mentre la zona lagunare occupa 11.650 chilometri quadrati. Una laguna chiusa da scogliere, con un’area di 2.175 chilometri quadrati, fa di Kwajalein l’atollo più grande del mondo.
Keith Stoner, seduto sotto il sole alto e caldissimo, scrutava a occhi socchiusi la spiaggia di sabbia.
Da lì, l’atollo aveva l’aspetto del classico paradiso tropicale: palme aggraziate mosse dalla brezza marina, onde bianche che si frangevano contro scogliere lontane, la laguna di un incredibile azzurro-verde, calma e invitante, un cielo cristallino disseminato di nuvolette bianche che seguivano il vento.
“Manca solo una donna col gonnellino d’erba” si disse Stoner.
Però, quando girò la testa nella direzione opposta alla spiaggia, vide che il mondo moderno aveva già impresso su Kwajalein il suo marchio inconfondibile. Edifici grigi, tozzi, sorgevano a pochi metri dalla spiaggia, su uno spiazzo che i bulldozer avevano liberato da palme e susini.
Oltre, c’erano la pista d’atterraggio, i garage e gli uffici, le officine, le jeep e i camion che percorrevano l’unica strada: un sentiero corallino distrutto che andava dal molo all’estremità nord dell’isola agli alloggi a sud.
Su tutto si alzavano le sei antenne del radiotelescopio, mezza dozzina di giganteschi dischi di metallo puntati verso un punto invisibile del cielo: l’astronave in avvicinamento.
«Fai vita da spiaggia?»
Girandosi, Stoner vide Jo Camerata che camminava verso di lui, a piedi scalzi, con jeans al ginocchio che mettevano in risalto le sue gambe lunghe, e un top ridottissimo. La carnagione della ragazza, già abbronzata, aveva un colorito olivastro.
Nei pochi giorni da che erano arrivati sull’isola, Stoner era riuscito a evitarla. “Però lo sapevi che prima o poi l’avresti incontrata” si disse.
«Più o meno» rispose, guardingo.
Lei sorrise. «Come abbigliamento ci siamo.»
Stoner indossava un vecchio paio di calzoncini da ginnastica e una camicia leggera, sbottonata, le maniche arrotolate sopra i gomiti. I ripetuti avvertimenti della marina su infezioni e malattie tropicali lo avevano convinto a portare sempre calze e scarpe.
«Come stai?» le chiese.
Per un attimo, lei non rispose. Poi: «Vuoi saperlo davvero, Keith?»
Lui vide qualcosa d’incomprensibile nei grandi occhi della ragazza. «Big Mac ti tratta bene?» disse.
La bocca di lei s’irrigidì.
«Vai a letto con lui» disse Stoner, secco. «Lo sanno tutti.»
Annuendo lentamente, lei disse: «Mi tratta meglio di te.»
«Di me?» Stoner era sinceramente sorpreso. «E cosa ti ho mai fatto?»
«Niente. Un accidente di niente» rispose Jo, e i suoi occhi s’infiammarono. «Mi trattavi come un Kleenex: usare e gettare.»
«Non è giusto, Cristo!»
«Ma è vero, Keith.»
«E così mi hai piantato e ti sei messa con McDermott. Hai concluso un affare migliore.»
«Giustissimo. E ho concluso un affare migliore anche per te.»
«Cosa vorresti dire?»
Lei fece per rispondere, e invece gli girò la schiena. Stoner l’afferrò alla spalla, la costrinse a guardarlo.
«Di cosa stai parlando?» chiese, «Cos’è questo affare migliore?»
Stoner pensava che lei piangesse; ma gli occhi di Jo erano asciutti, calmissimi.
«L’affare migliore?» ripeté lei. «Ti ho lasciato solo, così hai potuto dedicare tutta la tua attenzione al lavoro. Alle tue foto di Giove e ai tuoi stampati di computer. Tu non hai mai voluto altro, no? Qualche canale di scarico, e nessun legame sentimentale che ti creasse problemi.»
Lui indietreggiò di un passo, barcollando. «Gesù Cristo, sembri Doris.»
«Doris? La tua ex moglie?»
Stoner annuì.
Jo abbassò le spalle. Le fiamme scomparvero dai suoi occhi.
«Non ti ho fatto nessun torto, Keith» disse dolcemente. «Non sono mai entrata a far parte della tua vita. Non mi hai mai permesso di essere una parte di te.»
Lui girò la testa, scrutò l’orizzonte e le onde lontane, riportò le emozioni sotto controllo. “Lasciala in pace” si disse. “È troppo giovane per mettersi con te, e tu non puoi metterti con lei.”
«Senti, Jo» le disse, voltandosi a guardarla «l’isola è maledettamente piccola e noi due ci vedremo tutti i giorni, più o meno. Firmiamo una tregua e dimentichiamo quello che è successo. Okay?»
«Certo» rispose lei, tesa. «L’acqua passata, eccetera eccetera.»
«Già.»
«Okay» disse Jo, ergendosi in tutta la sua altezza. «Stavo solo facendo un giro sulla spiaggia per dare un’occhiata a questo posto. Ci vediamo.»
Se ne andò, lasciandolo solo. Con una scrollata di spalle, Stoner s’incamminò nella direzione opposta.
Solo quando furono trascorsi diversi minuti, e lei ebbe girato la testa tre volte per accertarsi che lui non fosse nei dintorni, Jo si concesse il lusso di piangere.
Stoner risalì in fretta la spiaggia, continuando a ripetersi che era uno stupido, ma senza sapere che altro avrebbe potuto fare.
Scorse Jeff Thompson seduto sulla spiaggia, la schiena appoggiata al tronco inclinato di una palma. Jeff si alzò all’avvicinarsi di Stoner.
«Che te ne pare del nostro paradiso tropicale?» chiese Jeff a mo’ di saluto.
«Stavo pensando» rispose Stoner «a tutte le volte che ho sognato di fare un viaggio in un’isola come questa, da ragazzo.»
«Be’, eccoci qui.»
«Già. Sicuro.» Stoner inalò una boccata d’aria salmastra. «La tua famiglia ha deciso di venire con te?»
«No» disse Thompson. «Gloria non vuole far perdere l’anno scolastico ai ragazzi. Sono d’accordo anch’io, per cui, per un paio di mesi, sono scapolo.»
«Forse torneremo a casa prima di giugno.»
«Sì, col cavolo.»
«Okay, d’accordo.»
«L’aereo dei russi deve arrivare nel pomeriggio.»
«Quanti uomini mandano?»
«Una ventina, da quello che ho sentito, Dove li metteranno tutti?»
«Dormitori. Case. Roulotte. C’è posto anche per loro, direi, a meno che non vogliano fare gruppo a parte.»
«E domani arriveranno altri due aerei carichi di gente» aggiunse Thompson. «Uno della NATO e uno delle Nazioni Unite. Quelli dovrebbero rappresentare gli scienziati del terzo mondo.»
Smuovendo la sabbia con la scarpa, Stoner grugnì: «Questo non è un centro di ricerca. E un fottuto circo politico. La prossima volta ci porteranno la regina d’Inghilterra e il coro mormone del tabernacolo.»
«Solo di domenica…»
«ATTENZIONE, ATTENZIONE» urlarono gli altoparlanti disseminati su tutta l’isola. Thompson e Stoner guardarono l’altoparlante inserito nel tronco della palma. «“L’arrivo della delegazione russa è previsto per le sedici e trenta. Il colloquio d’orientamento con la delegazione russa è stato spostato alle ventuno, dopo il pasto della sera.”»
La voce metallica, rimbombante, s’interruppe di colpo; per un attimo, a Stoner parve che nell’aria si fosse scavato un foro. Poi la brezza sussurrò e un gabbiano lanciò il suo richiamo e le palme più vicine frusciarono. L’isola tornò alla normalità.
«Sono in ritardo» disse Thompson.
«Viaggeranno su un aereo russo» mormorò Stoner «con un efficientissimo equipaggio sovietico.»
Markov studiò attentamente l’isola che l’aereo stava sorvolando.
Maria sedeva sulla poltrona accanto alla sua, stringendo i braccioli con tale ansietà da avere le nocche bianche. Il viaggio era stato tutt’altro che tranquillo. Dapprima avevano dovuto aggirare un grosso temporale estivo sugli Urali. Poi avevano fatto una sosta extra per il rifornimento al lago Baykal; e lì, freddamente, li avevano informati che uno dei motori era in avaria e andava riparato oppure sostituito.
Tutto quello non contribuiva certo a creare fiducia per il lungo viaggio sull’Oceano Pacifico. Non li aiutò nemmeno il fatto di essere tenuti chiusi sull’aereo per sei ore, con nulla da guardare se non i meccanici mongoli che si affannavano, perplessi, attorno al motore.
Ma adesso, finalmente, stavano sorvolando una piccola isola color argento, con la striscia nera della pista d’atterraggio; le giravano sopra come un cane che faccia il giro della cuccia prima di decidersi a mettersi a dormire.
Markov prestò poca attenzione ai superbi banchi di nubi che a ovest stavano trasformando l’orizzonte in un arcobaleno di rossi e arancioni. Studiò l’isola.
Non c’era molto da vedere. Un gruppo di edifici a un’estremità. La pista d’atterraggio. Altri edifici sul lato opposto della pista. Un’unica strada. Qualche antenna di radiotelescopio.
Le altre isole sparse lungo la barriera corallina ovale sembravano deserte, abbandonate. Spiagge bianche e lussureggiante vegetazione verde. Tutte piccole, lunghe quanto pochi isolati di una città, giudicò Markov. L’isola centrale era più grande, ma era stata spogliata quasi completamente degli alberi per fare posto alle costruzioni e alla pista d’atterraggio.
Markov cercò sotto il sedile la borsa.
«Cosa fai?» brontolò Maria.
«Voglio prendere il binocolo.»
«Cosa ti aspetti di vedere? Ballerine col gonnellino d’erba?»
Lui sospirò. Aveva rinunciato a quella fantasia quando un ufficiale del KGB li aveva informati che gli americani avevano trasformato Kwajalein in base militare da più di vent’anni.
«No, no, naturalmente» mormorò.
«Quelle antenne…» Maria le indicò con una mano, mentre con l’altra stringeva ancora il bracciolo. «Un tempo erano radar, per studiare il rientro dei missili sperimentali lanciati dalla California.»
«Sì, così ci hanno detto.»
«Sono state modificate per osservare la nave aliena.»
«Ummm» sussurrò Markov. Si portò il binocolo agli occhi e aggiustò il fuoco.
Non c’era il minimo segno d’indigeni. Nessun comitato di benvenuto alla pista d’atterraggio. Niente ragazze dalla carnagione scura con ghirlande di fiori da appendere al collo degli ospiti, per poi baciarli sulle guance. Niente, a parte macchine molto efficienti, americani con l’aria di uomini d’affari, e quelle strane case tipiche degli americani, le case su ruote.
Visualizzò con gli occhi della mente il viso di Sonya Vlasov e si chiese cosa facesse in quel momento a Kharkov, in una fabbrica di trattrici. “Quanto le sarebbe piaciuto venire qui!” pensò Markov. “Dev’esserci qualcosa che possa fare per lei, un modo per convincere Maria a togliere dal suo curriculum quella macchia.”
Scrutò la moglie mentre l’aereo cominciava a scendere. Il carrello d’atterraggio si abbassò, riempiendo la cabina di un sibilo fortissimo. Il vecchio che sonnecchiava sulla fila vicina di poltrone si svegliò di colpo, spaventato, strabuzzando gli occhi.
“Dice che non mi perderà d’occhio per un momento” pensò Markov. “Benissimo. Sarò un marito perfetto. La affascinerò come nessuno l’ha mai affascinata.”
Ma l’espressione sul viso di Maria non era per nulla incoraggiante. La donna fissava davanti a sé, rifiutandosi testardamente di mostrare la propria paura; l’aereo, intanto, scendeva verso la pista d’atterraggio, scosso dal vento. Le onde bianche si alzavano a lato dei finestrini.
Markov ricordò quei momenti di rabbia nel loro appartamento, il trionfo che si era dipinto sul viso di Maria quando gli aveva annunciato la caduta in disgrazia di Sonya, l’espulsione dall’università, il trasferimento in fabbrica.
E ricordò l’odio assoluto che gli aveva bruciato il cuore. “Non sarà facile accattivarmi le sue grazie” si disse. “Ma è indispensabile, quella ragazza non dev’essere rovinata per colpa mia.”
Il verde confuso delle fronde di palma stupì Markov; poi le ruote dell’aereo urlarono sulla pista di cemento, ci fu un sobbalzo pauroso. Si posarono di nuovo e percorsero la pista d’atterraggio, coi motori che ruggivano.
Quando l’aereo rallentò, dirigendosi verso l’unico edificio del terminal dell’aeroporto, le guance di Maria cominciarono a riprendere colore.
Girandosi verso Markov, la donna sussurrò: «Ti ricordi l’americano che ti ha scritto, Stoner?»
Lui annuì.
«Devi trovarlo e fartelo amico. Si fida di te.»
«E io dovrò tradire la sua fiducia, non è vero?»
Maria, tornata padrona di sé, gli diede un’occhiataccia. «Dovrai fare ciò che è necessario, qualunque cosa sia.»
Markov sospirò, conscio che avrebbe fatto tutto quello che lei gli ordinava. “È un modo più sicuro per ingraziarmela che non coprirla di baci” pensò.