Se i nostri scienziati dovessero veramente entrare in contatto diretto con la nave aliena, qualunque cosa sia, e se tutto dovesse andare per il meglio, se il mondo intero ne beneficiasse, il presidente diventerà un santo, e la sua aureola getterà una luce molto favorevole sul nostro partito nelle prossime elezioni.
Però, se la nave aliena porterà problemi, che Dio ci aiuti.
Jo fissava lo schermo del terminale. Numeri e lettere non avevano significato; non riusciva a concentrarsi. Si alzò, raggiunse la balconata che correva attorno agli uffici. Giù nel Pozzo, il computer ronzava, accendeva e spegneva luci secondo uno schema complicato, troppo veloce per essere comprensibile all’uomo.
Tornò in ufficio, prese dalla scrivania la vecchia borsetta di pelle e cominciò a scendere.
Si fermò alla toilette, si passò un pettine nei capelli, controllò il trucco. Poi partì verso il nuovo ufficio di Stoner.
La porta era aperta. Lui era al telefono. Jo aspettò appena oltre la soglia.
«Certo» stava dicendo Stoner. «Possono farmi tutte le visite che vogliono qui all’ospedale della base. Se la NASA vuole usare i suoi medici, può mandarli qui. D’accordo? Bene. Okay. Grazie. Arrivederci.»
Lui fece ruotare la sedia per riappendere il ricevitore, e vide Jo.
Un lampo d’incertezza gli solcò il viso. «Ciao, Jo.»
«Ciao.» Lei entrò nell’ufficio, che aveva ancora un’aria nuova, spoglia. Le voci echeggiavano sulle pareti dipinte di fresco. Metà degli scaffali erano vuoti; sugli altri c’erano mazzi di fotografie e qualche blocco per appunti. Tre scatole di cartone, chiuse, erano appoggiate sulla moquette, vicino all’armadietto dell’archivio. Anche la scrivania era d’acciaio, però verniciata in color noce. Sopra c’erano solo un telefono e un’assurda noce di cocco.
«Siediti» disse Stoner, senza alzarsi.
Jo scelse la sedia più vicina: cromo e plastica, fredda, scomoda.
«Stai bene?» gli chiese.
Lui annuì lentamente. «Un po’ di dolori e qualche ferita, però sto bene. Mezz’ora fa ho chiamato l’ospedale. Le condizioni di Schmidt sono stabili. I polmoni non hanno subito danni. Ha solo qualche osso rotto. Se la caverà.»
Jo intrecciò le mani in grembo. «Mi sento molto in colpa.»
Stoner non disse nulla.
«Insomma… Se non avessi tardato per cena, tu non saresti andato al Circolo, e Schmidt non ti avrebbe trovato.»
Il viso di lui assunse quell’espressione fredda, quasi rabbiosa, che escludeva chiunque altro. «Mi avrebbe trovato comunque. L’isola è piccola, e Schmidt cercava me.»
«Ma perché? Per quale motivo?»
«Tu dov’eri?» chiese Stoner.
Il cuore di Jo accelerò i battiti. “Vuole saperlo! Gli interessa!”
«Ero in laguna» rispose, e un sorriso cominciò a incresparle le labbra. «Ho fatto un giro in canoa con Markov.»
«Con Kirill?»
Lei annuì. «Abbiamo preso una canoa, e tra tutti e due non siamo riusciti a tenerla in acqua. Avresti dovuto vederci! Bagnati fradici.»
«Kirill è innamorato di te» disse Stoner senza ostilità.
«Come Cyrano era innamorato di Rossana» ribatté Jo. «Con lui sono perfettamente al sicuro.»
«Ammesso che gli squali non vi mangino.»
«Siamo tornati senza problemi.» Il sorriso di Jo si trasformò in una smorfia di scusa. «Però era tardi. Quando sono arrivata al Circolo…»
«Non è colpa tua» si affrettò a dire Stoner. «Non devi pensarlo. Qualcuno ha imbottito Schmidt di polvere degli angeli e gli ha ordinato di uccidermi.»
«Chi potrebbe essere stato?»
Lui scosse la testa. «Non lo so. Forse i russi.»
«I russi? E la marina lo…?»
«Io non ho detto una parola, e non voglio che la dica nemmeno tu.» Stoner si protese sulla scrivania, fissandola. «Se cominciamo a seminare dubbi, possiamo dire addio alla missione di rendez-vous.»
«Ma se qualcuno ha tentato di ucciderti…» La voce di Jo si spense.
Stoner scrollò le spalle. «Credo che volessero soltanto mettermi fuori uso, per impedirmi di andare in Russia e partire, Evidentemente qualcuno non vuole che sia un americano a effettuare la missione di rendez-vous.»
«I russi» sussurrò lei.
«Non gli scienziati russi» ribatté Stoner, «E probabilmente nemmeno il governo russo.» Credo si tratti solo di un elemento di opposizione all’interno del loro governo. Gli oltranzisti. Il KGB, probabilmente.
Jo ricadde a sedere, distrutta. «Allora sei in pericolo.»
«Forse. Kirill sta controllando.»
«Devi dirlo alla marina!» insistette lei. «Tuttle e gli altri devono saperlo, per poterti proteggere.»
«No» rispose lui, secco. «Se cominciano a fare indagini, la missione di rendez-vous salta.»
«Sempre meglio che farti uccidere.»
«Jo, ti ho già detto che si tratta della mia vita. Non scherzavo. Lasciami vivere a modo mio.»
«Per farti uccidere.»
«Correrò il rischio.»
«Keith…» “Ma cosa posso dire?” si chiese Jo, “Tra noi due c’è questa scrivania: il suo lavoro, la sua ossessione. Per lui, è tutto più importante della sua stessa vita. Più importante di me.”
«D’altronde» stava dicendo Stoner, cercando di non dare peso alla cosa «forse è stata solo opera di Cavendish. Non credo che il fatto che lui sia scomparso ieri sera sia una coincidenza.»
Jo annuì lentamente, pensosa «Corrono un sacco di voci sul dottor Cavendish, infatti.»
Anche Stoner annuì. «Sì, lo immagino.»
«Era veramente un agente dei russi?»
«Nel New England mi ha raccontato di essere un agente doppio. Adesso, però, non sono più sicuro che sapesse per chi lavorava.»
«Era malato. Stava male.»
«Forse. E forse fingeva.»
«Non credi che qualcuno degli altri scienziati sia una spia?» chiese Jo.
Stoner aggrottò la fronte, «Non lo so. Non ci ho mai pensato. Qualcuno potrebbe farlo, immagino.»
«Il professor McDermott lo farebbe» disse lei, apposta.
Stoner uscì in una risata cupa. «Big Mac? Bella spia che sarebbe. Ha sempre la bocca aperta.»
«È più subdolo di quanto tu non creda» disse Jo.
Lui le scoccò un’occhiata ambigua. «Già. Ci scommetterei.»
«Non sta molto bene. Da quando è apparsa l’aurora boreale, è a pezzi.»
«Ho sentito. È più di una settimana che non lo vedo.»
«Nemmeno io» ribatté lei, caustica.
Stoner esitò, poi disse: «Bene.»
Per lunghi momenti, nessuno dei due parlò, Jo aspettò che Stoner dicesse qualcosa, che si alzasse, la cercasse, la toccasse, facesse un gesto capace di dimostrare il suo affetto. Invece, restò seduto, incerto, irrequieto.
«Ho saputo» disse alla fine lei, per spezzare il silenzio «che ti hanno incaricato di scegliere il personale che verrà in Russia con te.»
«È vero.»
«Voglio venire anch’io. Ho già controllato. Puoi portarmi come analista di computer. Mi accetteranno.»
Stoner tamburellò per un secondo sul piano della scrivania. «Jo… Se questo viaggio fosse pericoloso per me, potrebbero correre rischi anche tutti gli americani che mi accompagnano.»
La ragazza alzò la testa. «Credi di essere l’unico capace di fare l’eroe?»
Lui ebbe quasi un sorriso. «Io non sono un eroe, Jo. Sono un pazzo. Questo lo so.»
Lei non poté impedirsi di restituirgli il sorriso, «Keith, ti ho detto tanto tempo fa che siamo fatti della stessa stoffa. Io voglio partire quanto lo vuoi tu.»
«Davvero?»
«Me l’hai detto tu. Una cosa del genere farà un figurone sul mio curriculum vitae.»
«Bene» disse lui. Era quasi un sospiro. «Okay. Ti metterò in lista. Sarà meglio che tu vada a farti fare la visita all’ospedale.»
Jo si alzò. «Grazie, Keith.»
«Sei matta, credimi.»
«Sì, lo so. Come te.»
Anche Stoner si alzò, ma senza fare il giro della scrivania. Jo raggiunse la porta e uscì, mentre lui, in piedi, la guardava andarsene.
«Gesù Cristo, ma guarda!»
Il giornalista televisivo fissò con una smorfia il pilota dell’elicottero. «Cerca di non bestemmiare» disse, ma la sua voce si perse nel rombo dei motori.
«Andiamo in trasmissione tra dodici minuti» urlò in risposta il pilota, continuando a fissare la folla colossale che assediava lo stadio di Anaheim. A perdita d’occhio, sulle autostrade che da un lato arrivavano a Los Angeles e dall’altro a Disneyland, masse compatte di automobili avanzavano, parafango contro parafango.
«E dove la trovano tutta questa benzina?» si chiese il pilota.
Il giornalista alzò gli occhiali sulla fronte, si grattò il naso. «Senti» disse al pilota «ti spiace cercare di tenere la bocca chiusa? Una parola sbagliata in diretta, e “tutti quelli” vorranno farci la festa.» Indicò le automobili in basso.
Il pilota scosse la testa. «Non ho mai visto una folla del genere. Dove li metteranno tutti?»
Per il reporter fu solo un sussurro negli auricolari. Si girò sul sedile, con le cinture di sicurezza che gli mordevano la pelle, e cercò nel cielo al tramonto l’elicottero che aveva a bordo la telecamera. Stava sorvolando la Orange Freeway, riprendeva quel traffico incredibile per il notiziario delle undici.
Il giornalista accese la radio, sulla frequenza di comunicazione con l’altro elicottero.
«Harry, sono Jack. Mi senti?»
«Sì, Jack.»
«La telecamera è a posto?»
«Tutto in perfetto ordine.»
«Ottimo. Allora, ricordati che a metà del discorso di Wilson spegneranno le luci, per far vedere a tutti l’aurora boreale. È questa la ripresa che voglio. Lo stadio illuminato dalle luci in cielo.»
«Lo so. L’avrai.»
«Sicuro?»
«Ho un apparecchio per la ripresa a raggi infrarossi. Non preoccuparti. Sarà stupendo.»
«Me lo auguro» disse il giornalista.
Lo stadio pulsava letteralmente di una folla immensa: un gigantesco animale sovrannaturale che viveva e mormorava nel tramonto incipiente. Fila dopo fila, la folla riempì tutti i sedili, si ammassò sulle scale impedendo il passaggio ai venditori di gelati e bibite, si accalcò sulle rampe dietro i sedili e sul campo che circondava la piattaforma destinata all’oratore.
A un’estremità dell’enorme ovale, il grandissimo cartellone che serviva per le partite di baseball proclamava a lettere fluorescenti: CASA DEGLI ANGELI. Una A gigantesca circondata da un’aureola luminosa brillava nel cielo sempre più buio.
Fuori dello stadio, migliaia di persone si affollavano nei parcheggi. Televisori portatili si accendevano su ogni auto. Le famiglie facevano picnic tra i fumi dell’anidride carbonica.
Le tenebre s’infittirono, e la serata ebbe inizio. La folla multiforme urlò e rise e cantò, sollecitata da predicatori, cantanti, gruppi rock e politici che si succedettero sulla piattaforma di legno al centro del campo.
Un ex astronauta, noto per essersi dedicato da anni allo studio delle esperienze extrasensoriali e paranormali, si avvicinò al microfono e proclamò: «Questo ambasciatore alieno ci offre la nostra unica possibilità di unirci alla fratellanza delle galassie.»
La folla, stupita, sospirò.
Un predicatore, rosso in viso, esortò: «Questo messaggio del Signore è un avvertimento a correggere le nostre vie, a chiedere perdono per i nostri peccati e a offrire i nostri cuori a Gesù Cristo, nostro Dio e nostro Salvatore.»
Migliaia di persone s’inginocchiarono, pregarono, chiesero perdono in un brande urlo collettivo.
«Tutti coloro che ci hanno scherniti» urlò un noto ufologo «si facciano avanti e ammettano di avere sbagliato! Non siamo soli, e non lo siamo mai stati!»
La folla ruggì la propria approvazione.
Alla fine, dopo altri inni e gospel intonati in coro, dopo l’esibizione assordante di un gruppo rock iperamplificato, dopo che l’oscurità ebbe ammantato le luci dello stadio, gli altoparlanti annunciarono solennemente: «Signore e signori, l’uomo la cui voce è risuonata nel deserto, il messaggero dei grandi giorni che verranno, l’evangelista urbano… WILLIE WTLSON!»
Come un colossale animale con centomila voci, la folla si alzò e ruggì quando Willie Wilson, in un vestito azzurro di cotone, traversò il campo e salì gli scalini di legno che portavano al microfono.
“Non posso farlo” si disse, mentre afferrava il microfono. Contagiato dalla forza della folla che aveva attorno, dal senso d’attesa che caricava d’elettricità l’aria, Wilson scosse la testa. “Non posso deluderli. Non posso permettere al governo di interferire con la Parola del Signore.”
Alzò le braccia e ruotò lentamente nel cerchio di luce, suscitando l’urlo di approvazione della folla, che fece tremare il terreno.
In alto, invisibili nel bagliore dei riflettori, i due elicotteri della televisione volavano instancabili sullo stadio, riprendevano quel momento eccezionale, mentre il reporter recitava il suo commento nel microfono.
«Grazie a tutti e che Dio conceda la Sua benedizione a ognuno di voi» urlò Willie nel microfono, dopo averlo tolto dal supporto per potersi girare liberamente in ogni direzione.
La folla si calmò, tornò a sedere. Restarono in piedi solo gli spettatori sul campo attorno alla piattaforma.
«Il mio messaggio è molto semplice» iniziò Willie. «Dio vi ama. Ama ognuno di voi. Dio vi conosce a uno a uno, individualmente, sa cosa avete nel cuore e nella mente. E vi ama. Ama ognuno di voi. Nonostante i vostri difetti. Nonostante i vostri sbagli. Il Signore Dio Gesù Cristo ama te…» Willie puntò l’indice tra la folla. «…e te, e te, e ognuno di voi.»
Gli spettatori mormorarono, sussurrarono. Qualche “Amen” risuona nella notte.
«E poiché Dio vi ama» continuò Willie «ha messo un segno in cielo, per ricordarci chi è Lui e chi siamo noi… Un segno che è al tempo stesso un ammonimento e un annuncio… Un segno che è inconfondibile.» Una pausa drammatica. Una parte della mente disse a Willie che il fisco gli sarebbe stato addosso entro ventiquattro ore.
«Guardate il cielo!» annunciò. «E ammirate la gloria del Signore!»
Nello stadio si spensero tutte le luci, e la folla guardò in cielo. Non si udiva un solo suono. I minuti trascorsero in silenzio, mentre lo splendore dell’aurora boreale si accendeva lentamente in cielo, sotto gli occhi degli spettatori.
Poi gemettero. Sussultarono. Sospirarono. Willie stesso, immobile sulla piattaforma, sentiva rizzarsi i capelli sulla nuca.
“Non tirarla troppo in lungo” si ricordò. “Intervieni quando la tensione è al massimo…”
In quel silenzio innaturale, Willie udì uno strano ronzio che sembrava quasi un gemito: i rotori di un elicottero. Girandosi in direzione del suono, vide lampeggiare le luci di navigazione di un elicottero che stava sorvolando lo stadio a bassa quota.
«Sono loro!» urlò qualcuno.
«Sono qui!»
«Sono arrivati! Sono arrivati!»
Il grande animale che era la folla fu travolto dal panico. Prima che Willie potesse capire cosa stesse accadendo, una marea umana si riversò nello stadio. La gente strillava e urlava e correva.
«No, fermi!» urlò Willie nel microfono. «Non c’è niente da temere…»
Ma l’animale era accecato dal terrore. La gente veniva spinta alle uscite. Tutti fuggivano. L’ondata di bestie impaurite raggiunse la piattaforma, la sommerse; la piattaforma oscillò, traballò, urlò e cedette, sommersa da un mare di gemiti, di panico, di sangue.
E sotto le assi squarciate, sotto i piedi che correvano freneticamente, Willie Wilson giacque immobile, mentre migliaia di persone impazzite calpestavano la sua forma riversa e gli crollavano addosso.
WILSON E ALTRE 126 PERSONE UCCISE DAL PANICO
ANAHEIM: Il reverendo Willie Wilson è tra le 127 persone morte ieri notte quando il panico ha investito l’iperaffollato stadio di Anaheim. I feriti sono più di tremila.
Il reverendo Wilson, l’evangelista urbano, era l’oratore più atteso del gigantesco raduno di revival religioso. La polizia dice che lo stadio era affollato molto oltre la capacità legale per il raduno che ha richiamato molti dei maggiori leader nazionali del protestantesimo, ufologi, ricercatori nel campo dell’occulto e religiosi di fedi più ortodosse.
Stando alla polizia, il panico si è diffuso quando un elicottero della televisione è passato a bassa quota sopra lo stadio, inducendo qualcuno a credere che un UFO stesse per atterrare.
L’enorme folla si è riversata disordinatamente verso le uscite, e migliaia di persone sono rimaste travolte.
Il reverendo Wilson, che a più riprese ha messo in rapporto le aurore boreali provocate dall’astronave aliena in avvicinamento alla Terra con un messaggio di Dio, era nato…