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Unità aria/mare 504

Nonostante il casco a isolamento acustico, il rombo del motore dell’elicottero stava facendo venire l’emicrania al pilota. Sotto di lui c’era solo l’oceano grigio, vuoto. Al suo fianco, un uomo scrutava il mare con un binocolo.

«E come cazzo pensano che possiamo trovare uno in quest’acqua fottuta senza nemmeno un segnale luminoso?» urlò il pilota sopra il ruggito cacofonico del motore.

L’uomo al suo fianco abbassò il binocolo, si sfregò gli occhi arrossati. «Ordini» gridò.

«Vadano a farsi fottere! Quello stronzo è uscito a nuotare di sera ed è affogato. Ormai se lo sono mangiato gli squali.»

«Lo so» urlò l’altro «e lo sai anche tu, e lo sa persino il comandante. Ma i regolamenti dicono che dobbiamo cercarlo.»

«In culo ai regolamenti. Si perde tempo e basta.»

Ma quando giunse il momento del suo rapporto radio, la voce furibonda del pilota assunse un tono calmo, professionale, conciliante. «J cinque zero quattro al controllo di Kwajalein. Posizione sei nove alfa. Niente da segnalare.»

Spense la radio e riattaccò: «Ci tocca restare qui per altre tre fottute ore! Stronzo d’un inglese.»


Stoner sedeva su una scomodissima sedia di legno nell’ufficio di Tuttle. Ogni parte del suo corpo era un dolore lancinante. La testa gli ronzava per le ore di interrogatorio. E il frastuono del condizionatore d’aria alla finestra gli stava facendo venire l’emicrania.

Di fronte a Stoner erano seduti due ufficiali, mentre Tuttle se ne stava dietro la scrivania. Gli altri due erano del servizio di sicurezza dell’isola: un giovane sottotenente nero, e un uomo dal viso rubizzo che sembrava troppo anziano per essere soltanto tenente.

«Ma perché l’ha attaccata?» chiese per la centesima volta il sottotenente.

Stoner fece per scuotere la testa, ma ebbe un sobbalzo di dolore. «Ve l’ho già detto» rispose. «Non lo so.»

«Ha detto che è colpa sua» intervenne l’ufficiale più anziano. «A cosa alludeva?»

Si riparte da capo, pensò Stoner, e diede le stesse risposte che aveva già dato dozzine di volte: non lo so, non lo so, non lo so.

Però rivide, con gli occhi della mente, il viso folle di Schmidt, risentì la sua forza inumana, rivisse la furia cieca del suo attacco. E capì: non può essere stato un incidente, un caso. Voleva me. Voleva uccidermi.

«Dove può essersi procurato la droga?» chiese il tenente.

L’ufficiale nero rispose: «Adesso sappiamo cos’era. PCP. Polvere degli angeli. Ne ha presa tanta da mandare in orbita un reggimento.»

«Dove può essersela procurata?» chiese Tuttle, preoccupatissimo.

Stoner rise. «Non dirà sul serio, eh? Quest’isola è il paradiso dei drogati. A fare un giro di sera, c’è tanta erba nell’aria che ci si mette a volare.»

«La polvere degli angeli è una cosa molto più seria della marijuana» ribatté seccamente il tenente.

«Ma qui c’è un traffico enorme di pastiglie» disse Stoner. «Lo saprete, no?»

«Ma non di polvere degli angeli» disse il sottotenente.

Stoner scrollò le spalle, si azzittì.

«Che motivo poteva avere Schmidt per attaccarla?» chiese Tuttle.

«Nessuno, che io sappia.»

«Non ha mai avuto discussioni?»

«Praticamente non ci siamo mai parlati» disse Stoner.

Le domande continuarono a piovere, e Stoner continuò a dichiararsi all’oscuro di tutto; ma cominciò a capire. “Schmidt mi è saltato addosso per una ragione precisa, non solo perché era pieno di droga. Voleva ‘me’. Voleva togliermi di mezzo. Perché? Perché qualcuno gli ha raccontato che è il modo più rapido per mettere fine al progetto e far rimandare tutti a casa.”

Tuttle chiamò un marinaio, fece portare dei panini. L’interrogatorio proseguì mentre mangiavano.

Alla fine, Stoner si alzò. «Senta, ormai abbiamo ripetuto le stesse cose dozzine di volte. Le ho detto tutto quello che so… Il che non è molto, lo ammetto. Però c’è del lavoro che mi aspetta, e non vedo l’utilità di continuare con queste domande.»

Tuttle disse: «È una faccenda seria.»

Stoner ribatté: «Lo so. Sono io quello che si è preso le botte. Ma se lei cercasse sul serio di scoprire da chi Schmidt ha avuto la droga, forse concluderebbe qualcosa. Io le ho detto tutto quello che so.»

Si girò, arrivò alla porta. Nessuno lo fermò. Lasciò l’ufficio, uscì sulla strada inondata di sole, s’incamminò verso l’edificio che ospitava “la palude.”

Poi ricordò che il suo ufficio era stato trasferito al centro computer. Sconvolto, martoriato, Stoner s’avviò verso il suo nuovo ufficio.

Stava sistemando sugli scaffali vuoti cartoni pieni di fotografie, quando Markov bussò alla porta ed entrò in ufficio. Teneva le mani intrecciate dietro la schiena e sorrideva.

«Stai facendo strada, compagno Stoner. Congratulazioni.»

Stoner si asciugò il sudore dalla fronte. «Grazie. In effetti, qui è meglio della palude.»

«Credi che questo nuovo ufficio sia una ricompensa per le tue doti intellettuali» chiese Markov «o per la tua abilità di lottatore?»

Lo stomaco di Stoner si raggelò. «Non è il caso di scherzare, Kirill. Avrei potuto uccidere quel ragazzo.»

«Sì, lo so.» Il viso di Markov si fece serio. «Però sono felice che all’ospedale ci sia lui, e non tu.»

«Come sta? Sai qualcosa?»

«Se la caverà. E giovane e sano. Le sue ossa si salderanno.»

Stoner crollò sulla poltroncina della scrivania. «Stamattina mi hanno svegliato alle otto e portato all’ufficio di Tuttle. È tutto il giorno che non faccio che rispondere alle loro domande.»

Markov, sempre in piedi, annuì, comprensivo.

«Cosa nascondi dietro la schiena?» chiese alla fine Stoner.

«Oh.» Markov, adesso, era quasi imbarazzato. «Non è niente. Una specie di regalo. Per il tuo nuovo ufficio.»

«Un regalo?»

«Un simbolo, più che altro. Emblematico del problema che ci ha fatto conoscere e diventare amici. Un simbolo che rappresenta perfettamente la situazione in cui ci troviamo e ciò che dobbiamo affrontare.»

«Ma cosa stai dicendo?» chiese Stoner, perplesso nonostante tutto.

Markov stava ridiventando il ragazzo di sempre. «Avevo pensato di portarti champagne e caviale, per festeggiare il nuovo ufficio. Ma poi, cosa sono? Niente di più che cibo per la pancia. Ti porto invece un dono eterno per la mente. E poi, non potrei permettermi di comperare champagne e caviale.»

Stoner appoggiò le mani sul ripiano liscio, spoglio, della scrivania. «Okay. Sono pronto a ricevere questo terribile simbolo.»

Con gesto teatrale, Markov fece apparire una grossa noce di cocco.

Stoner la guardò, poi rise.

«No, no, no!» disse Markov, quasi serio. «È un vero simbolo, come ti ho detto. È simbolico di quest’isola, no? E se cerchi di romperla, scoprirai che è molto difficile farla a pezzi, come tanti dei vostri simboli americani.»

Stoner alzò le mani, arrendendosi. «Hai ragione, amico mio. Quando uno ha ragione, ha ragione.»

«Tautologia» ribatté Markov. «E un’altra cosa su questo simbolo: è un viaggiatore infaticabile. La noce di cocco, mi dicono, può percorrere l’intero oceano Pacifico e riprodursi su spiagge lontanissime dal suo luogo d’origine.»

«Come il nostro visitatore» comprese Stoner, e il sorriso gli morì sulle labbra.

«Esatto.»

«Sei un pensatore profondo» disse Stoner. Prese la noce di cocco dalle mani di Markov, la mise sulla scrivania accanto al telefono. «La terrò qui, per ricordarmi cosa dobbiamo affrontare.»

«Bene. Ancora un simbolismo: quando sei riuscito ad aprire una noce di cocco, scopri che contiene un latte e una polpa molto nutrienti.»

«Però il difficile è aprirla.»

«Non è facile.»

«A meno di non avere gli strumenti adatti… e la tecnica adatta.»

Markov annuì.

«Grazie, Kirill» disse Stoner. «Mi hai sollevato il morale. È stata una giornata brutta.»

«Già. Non hanno ancora trovato Cavendish.»

«Cavendish?» Stoner s’irrigidì.

Markov strizzò gli occhi. «Non hai saputo?»

«Saputo cosa?»

«Il dottor Cavendish è scomparso. Si presume che sia annegato. Non c’è traccia di lui sull’isola, e la marina ha fatto uscire squadre di ricerca…»

Stoner ricadde sulla poltroncina. Quasi a convalidare la rivelazione di Markov, passò un elicottero. L’edificio tremò al rombo dei motori.

«Cavendish» ripeté Stoner, «Mio Dio…»

Markov si tirò la barba. «Stai bene? Sei pallidissimo.»

Alzando gli occhi sul russo, Stoner disse: «Cavendish era un agente… Una spia…»

«No.»

«Me l’ha detto lui. Un agente doppio. Lavorava per voi, per il KGB, però in realtà lavorava per il controspionaggio inglese.»

Markov spalancò la bocca in una smorfia di stupore.

«Me l’ha detto lui» ripeté Stoner. «Subiva pressioni da entrambe le parti.»

«E adesso è scomparso» sussurrò Markov. «Sarà morto, senz’altro.»

«Ieri sera Schmidt tenta di uccidermi» rifletté ad alta voce Stoner «e Cavendish scompare. La stessa sera.» Fissò Markov. «Kirill, cosa dobbiamo concludere?»

Il russo gli restituì lo sguardo, senza una parola.

«Credi che i tuoi stiano cercando di fermare la missione di rendez-vous?»

«Io…» Markov esitò. «Io penso che potrebbe essere vero» disse, in un sussurro quasi impercettibile.

«Gesù Cristo.»

Markov si scosse, come per allontanare un brutto sogno. «Lasciami controllare. Lasciami vedere cosa posso scoprire.» Fece per uscire.

Ma Stoner lo bloccò. «Forse dovresti restarne fuori, Kirill. Potresti finire in guai grossi, se t’intrometti in questa faccenda.»

«Ci sono già in mezzo» ribatté Markov, con voce durissima. «Hanno cercato di uccidere il mio amico.»

«E hanno già ucciso Cavendish.»

«Forse.»

Stoner si alzò, fece il giro della scrivania. «Restane fuori, Kirill. Non metterti nei guai.»

Markov rise. «Siamo tutti nei guai, amico mio. Tutti quanti.»


Markov camminava automaticamente, quasi senza vedere, nel sole cocente del pomeriggio. Superò le antenne del radiotelescopio, gli uffici, l’Alloggio Ufficiali Scapoli, l’hotel, le case su ruote. Raggiunse la zona dei bungalow e marciò verso il suo.

«Maria Kirtchatovska!» urlò, sbattendo la porta.

Sua moglie, una padella sfrigolante in mano, spuntò dalla cucina. «Cosa ci fai a casa?»

«Mettila giù e vieni qui» disse Markov. Le indicò il divano.

Lei lo fissò corrucciata, però tornò in cucina e riapparve un attimo dopo con una salvietta.

«Stavo preparando la cena» disse.

«Siediti.»

«Non ho raccontato a nessuno la tua esplosione di ieri sera…»

«Il dottor Cavendish è morto» scattò Markov, completamente furibondo. «Annegato, con ogni probabilità.»

Maria cadde a sedere sul divano. «Annegato?»

Ancora in piedi, Markov aggiunse: «E ieri sera Schmidt è andato in overdose di droga e ha tentato di uccidere Stoner. Vedi qualche rapporto tra questi due fatti?»

Maria distolse gli occhi, senza rispondere.

Markov torreggiava su di lei. «Quella macchina che stavi usando ieri sera. Aveva qualcosa a che fare con Cavendish, vero? Oppure con Schmidt?»

«Kir, abbiamo deciso tanti anni fa che non avremmo mai discusso di certe parti del mio lavoro.»

Lui provò la tentazione di schiaffeggiarla. «L’accordo non vale più. Avrei dovuto tirarmi indietro già quando hai rovinato la vita di quella studentessa. E ora hai ucciso Cavendish, giusto?»

«No!»

«Non raccontarmi bugie, Maria Kirtchatovska! Cavendish era un informatore del KGB, ed è morto. L’hai ucciso tu con quella macchina infernale.»

Lei scosse la testa. «Era solo un impianto di comunicazione, una specie di radio…»

«Balle! Tu comunichi con Mosca attraverso quelle lettere stupide che spedisci ogni settimana. Questo lo so. In un modo o nell’altro, quella macchina ha ucciso Cavendish.»

«Non è possibile…»

«Ho visto la tua espressione quando ti ho sorpresa! Tu stavi trasmettendo solo dolore e morte! Non cercare di negarlo.»

«Kirill, io…» Maria si passò una mano nei capelli, improvvisamente agitata, sull’orlo delle lacrime. «Cosa potevo fare? Dovevo seguire gli ordini. Che altro potevo fare?»

«Assassinio. Torture. È questo che fai da sempre, eh? In tutti questi anni non hai fatto altro.»

Adesso lei stava piangendo. Le lacrime le solcavano le guance. «No. L’ho fatto solo adesso. E non volevo. Sono stata costretta. Era l’unico modo per sopravvivere…»

«E in tutti questi anni io ho tenuto gli occhi chiusi. “Sapevo” che tutte le storie che si sussurrano sono vere, ma continuavo a ripetermi: “Non la mia Maria. Non farebbe mai cose del genere. Lei lavora alla sezione crittografica. Non è coinvolta in arresti e interrogatori e omicidi…”»

«È vero!» gemette lei. «Non l’ho mai fatto fino a che questa… questa… “cosa” ci è piombata addosso.»

«Non hai mai fatto arrestare qualcuno? Non sei mai stata coinvolta in interrogatori? Omicidi?»

«No! Non direttamente!»

Markov si mise a passeggiare nella stanza, agitando le mani. «Merda. Non direttamente. Hai le mani pulite… Più o meno. Disgustoso. Disgustoso! Pensare che io ho vissuto con te tutti questi anni e ho tenuto gli occhi chiusi.»

Lei sollevò la testa. «Io ho tenuto gli occhi chiusi sulle tue avventure. Se tu…»

«Le mie avventure!» Markov si girò a guardarla. «Io facevo “l’amore”, donna! Cercavo bellezza e dolcezza e piacere! Non facevo l’elettroshock a qualche poveraccio chiuso nei sotterranei di un ospedale-prigione.»

«Non ho mai…» La voce di Maria affogò tra i singhiozzi.

«È finita» disse Markov, secco. «Mi senti? È tutto finito. Non dividerò la mia vita con una torturatrice, un’assassina.»

«Cosa vuoi dire?»

«O lasci il KGB, o lasci me. A te la scelta.»

Maria strabuzzò gli occhi. «Non posso dare le dimissioni! Non è permesso.»

«Mettiti in pensione, dai le dimissioni, trovati un altro lavoro. Se no, io non vivrò più con te. Mai più! Non potrei!»

«Kir, se tu mi lasci ci saranno domande, un’inchiesta…»

«Digli che mi hai piantato per le mie avventure. Ti crederanno.»

«Non voglio lasciarti» disse lei. «Non voglio che tu mi lasci.»

«Allora devi rinunciare al tuo lavoro.»

«Non posso…»

Lui andò a sedere sul divano, accanto alla moglie. Maria aveva smesso di piangere, ma le lacrime le avevano rigato il viso.

«È vero che non volevi fare quello che hai fatto? Che ti hanno costretta?»

«Mi hanno dato ordini, e io ho obbedito. Non avevo scelta.»

«Ti hanno ordinato di fare cosa? Di uccidere Stoner?»

Lei uscì in un gemito di sorpresa. «No… Vogliono impedire a Stoner di comandare la missione di rendez-vous. Vogliono fermarlo, a qualunque costo.»

«Ma il nostro governo collabora con gli americani, adesso!» disse Markov. «Zworkin, l’accademico Bulacheff, lo stesso segretario generale…»

Maria scosse la testa, piano. «Io so solo quali sono i miei ordini. Vogliono fermare Stoner.»

Markov sospirò. «Maria… Come posso vivere con qualcuno che… che segue questi ordini? È impossibile!»

«La colpa è tua quanto mia» disse lei. «Io non ho mai voluto trovarmi coinvolta in questa storia.»

Markov era disperato. «Cosa dobbiamo fare, Maria? Cosa dobbiamo fare?»

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