36

Markov sedeva, in cupo silenzio, sul portico buio del bungalow. Una zanzara gli sfiorò l’orecchio, ma lui non la scacciò.

“Forza, bevi il mio sangue” disse fra sé. “Non sarai l’unica.”

La porta cigolò leggermente quando Maria l’aprì. La donna sedette all’estremità opposta del divano di vimini, il più lontano possibile dal marito.

«Allora?» chiese lui.

Per diversi secondi lei non rispose. Poi disse, con voce incolore: «Ho spedito il rapporto a Mosca. Ho raccontato che Cavendish si è suicidato e che io ho distrutto l’apparecchio per evitare che gli americani potessero scoprirlo.»

«Hai detto che vuoi dare le dimissioni?»

«No, ovviamente.»

«Hai chiesto di essere trasferita a una sezione che non venga coinvolta in queste cose atroci?»

«Kir, ti ho già detto mille volte che normalmente la nostra sezione non si occupa di agenti segreti e d’interrogatori. È solo questo… questo oggetto alieno che ci ha spinti in questa situazione.»

«Voglio che tu lasci il KGB. Maria Kirtchatovska» disse Markov. «Voglio che tu sia la moglie di un professore universitario, e niente di più.»

Maria si girò verso il marito, una smorfia caparbia in viso. «Ti piacerebbe, eh? Io me ne resto a casa, prendo la pensione, e tu passi ogni notte con una studentessa diversa. Un’esistenza meravigliosa! Per te.»

«Credi che torturare e uccidere esseri umani sia un modo tanto bello di vivere?»

«Non ho mai fatto niente del genere!»

Lui batté le mani sulle cosce, si alzò. «Maria, tu menti. Menti a me e persino a te stessa. Se tu riesci a sopportare quello che hai fatto, così sia. Ma io non posso. Io non posso sopportarlo.»

«L’hai sopportato per quasi vent’anni» ribatté lei.

Markov la scrutò. «Sì, ho tenuto gli occhi chiusi per vent’anni. Adesso li ho aperti.»

«Cosa vuoi da me?» chiese Maria. La sua voce era diversa: non più aspra e imperiosa, ma quasi implorante.

«Te l’ho detto cosa voglio.»

«“Non posso” dare le dimissioni. Non lo permetterebbero mai. Non capisci quello che sta succedendo in questo periodo? Col segretario generale ammalato e il Cremlino scosso da terremoti interni?»

«Per me, l’unica alternativa è il divorzio» disse Markov.

«Il divorzio? Dopo tanti anni?»

«Non posso accettare quello che stai facendo» disse lui. «Lo so che cerchi di impedire a Stoner di eseguire la missione di rendez-vous. Stoner è mio amico, Maria. Se gli fai del male, ti metti contro di me.»

Lei sospirò. «Kir, tu finirai col fare l’insegnante in una scuola di qualche città prigione del Gulag.»

Markov annuì. Fissando il cielo illuminato, disse sottovoce, così piano da non udire quasi le sue stesse parole: «C’è un’altra possibilità.»

«Quale altra possibilità?»

«Potrei restare con gli americani… Chiedere l’asilo politico.»

Maria boccheggiò di stupore. «Tradire? Lasciare per sempre la Russia? Abbandonare la tua gente, la tua nazione?»

«Non vorrei farlo, ma…»

«Ti ucciderebbero, Kirill Vasilovsk.» La voce di Maria era gelida, metallica, implacabile come una pistola automatica. «Ti ucciderei io stessa, piuttosto che permetterti un atto del genere.»


Quando Stoner alzò gli occhi dalla scrivania, vide che fuori era sera. Le luci che sì muovevano in cielo, però, riempivano l’orizzonte di una danza scintillante.

Guardò l’orologio, poi, d’impulso, afferrò il telefono. Gli occorse qualche minuto per rintracciarla attraverso il centralino dell’isola, ma alla fine udì la voce di Jo: «Pronto?»

«Sono Keith, Jo.»

«Oh. Ciao, Keith.»

D’improvviso, lui si sentì timido come un ragazzino. «Uh… Hai già cenato?»

«Un’ora fa.»

«Oh.»

«Sei ancora in ufficio?»

«Sì. Ho un sacco di cose da fare…»

«E non hai mangiato niente da mezzogiorno?»

«No.»

Lei disse: «Be’, allora vai da Pete. È l’unico che tenga aperto dopo le nove. Ci vediamo lì.»

«Ma tu hai già cenato.»

Jo esitò solo un attimo. «Prenderò un dessert con te. Okay?»

«Certo. Benissimo.»


Un’ora dopo, uscendo dal ristorante, Jo disse: «La prossima volta ricordami di prendere il budino.»

«La torta non era buona?»

«Era talmente vecchia che deve averla lasciata qui qualche giapponese ai tempi della Seconda guerra mondiale.»

Lui rise.

S’avviarono lungo la strada deserta, tra gli edifici, dirigendosi alla spiaggia. Camminavano affiancati, senza toccarsi, ma talmente vicini che Stoner percepiva il calore di lei. Jo indossava un vestito leggero a fiori, senza maniche, che la brezza marina gonfiava.

«Keith… Vuoi rispondere a una domanda?»

«Se posso.»

«La missione di rendez-vous è tanto importante per te? Perché “devi” partire?»

Lui la guardò. «Cristo, Jo, dovresti capirlo. Dovresti pensarla allo stesso modo anche tu, no?»

«“La penso” allo stesso modo» disse lei, in tutta sincerità. «Però non capisco perché. Cos’è che ci spinge? Perché devi partire? Perché anch’io voglio andare nello spazio?»

Stoner restò a riflettere mentre si lasciavano gli edifici alle spalle e arrivavano tra gli alberi della spiaggia. La sabbia era bianca e tiepida, l’oceano mormorava.

Alla fine, lui rispose: «È la mia carriera, Jo. La strada che ho scelto. Il lavoro che faccio.»

«No» disse lei. «C’è di più. Non è un lavoro, è… un bisogno interiore. Il desiderio irresistibile di andare nello spazio e lasciarsi tutto alle spalle.»

«Non ho nulla che mi trattenga qui» disse lui.

Poi, prima che Jo potesse ribattere, aggiunse: «Tranne te.»

Jo gli mise una mano sul braccio. «Ma anche se… No, Keith, non è vero. Tu vuoi ancora partire e andare incontro alla nave aliena, vero?»

«Certo.»

«Perché? Perché proprio tu?»

«Perché voglio “sapere”» disse Stoner, con gelida ferocia. «È questo che ogni scienziato desidera. Sapere, scoprire, essere il primo a raggiungere una nuova conoscenza, un nuovo territorio del pensiero.»

«Però potresti sapere anche se qualcun altro andasse in missione.»

«Non sarebbe la stessa cosa! Voglio toccare quella nave con le mie mani, vederla con i miei occhi. Come un cavernicolo, Jo. Come il San Tommaso della Bibbia. Devo vederla io. È questo il succo di tutto. La spinta irresistibile.»

Jo lo scrutò in viso, mentre procedevano sulla spiaggia. Dal cielo, la danza dell’aurora boreale lanciava richiami.

«Pensa a tutte le persone che conosci» le disse Stoner. «Quante di loro sanno che gli atomi che compongono i loro corpi sono stati creati su stelle lontane? Siamo tutti polvere di stelle, tutti quanti. Ogni atomo del tuo corpo, Jo, è stato fabbricato all’interno di una stella, milioni di anni fa. Siamo parte dell’universo, piccola. È una verità indiscutibile.»

Lei rise piano. «In te c’è un poeta, nascosto chissà dove.»

«Forse» ammise lui. «Ma questa faccenda ha anche i suoi lati pratici. Qui, io sono uno dei tanti astrofisici. Uno specialista in un campo pieno di uomini e donne con conoscenze migliori delle mie, più giovani e intelligenti. Sono solo uno scienziato mediocre, al massimo.»

«Adesso stai facendo il modesto.»

«Conosco i miei limiti. Non avrò mai il Nobel o grandi onori accademici. Continuerò così e finirò con l’insegnare in un’università di serie B, nell’oscurità più totale.»

«A meno che…»

«A meno che il programma spaziale non riparta,» Stoner puntò il pollice verso il cielo. «Lassù sono bravo. Posso guidare un gruppo di tecnici e scienziati. Conosco tutt’e due le facce del lavoro, e non mi spaventa vivere in una tuta a pressione a gravità zero.»

«Non credo che mi spaventerei nemmeno io.»

«No, non credo proprio, Jo. È il nostro ambiente, il nostro angolino ecologico. È lì che la mia carriera può sopravvivere, e forse anche la tua. È lì che possiamo dare il miglior contributo al magazzino di conoscenze della razza umana.»

«Ed è lì che c’è l’alieno.»

«Sì. Come un dono mandato da Dio. Non possiamo permetterci di vederlo scomparire senza entrare in contatto con lui.»

«O lei» scherzò Jo.

«Esso» disse Stoner.

Jo rise, lanciò via i sandali. «Forza, togliti quelle scarpe, Keith Stoner. Rilassati, divertiti per una volta tanto.»

Lui aggrottò la fronte. «Ma io mi diverto…»

«E per te rompere sassi con la mano sarebbe un “divertimento”?» La ragazza corse via, sguazzando nell’acqua a piedi nudi.

Stoner restò a guardarla per qualche attimo, poi si chinò, si tolse scarpe e calze, saltellando su un piede. Poi la rincorse, sotto il cielo luminosissimo.

Ridendo, corse nell’acqua della laguna, la raggiunse, l’afferrò per il polso e se la trascinò dietro; poi Jo, scossa dalle risate, precipitò sulla sabbia assieme a Stoner.

«Keith, non sei onesto» boccheggiò lei, «Le tue gambe… sono molto più lunghe…»

«Cristo, mi fai sentire un ragazzino, Jo. Mi fai dimenticare tutto il resto, mi dai la voglia di giocare.»

Stoner si sollevò su un gomito, alzò la testa della ragazza. Jo intrecciò le braccia dietro il collo di lui e sentì le sue mani carezzarla, mani calde, forti sulla pelle nuda. Per un po’ udì il rumore dell’acqua che s’infrangeva sulla scogliera, ma presto ogni suono venne soffocato dal battito del suo cuore. Si spogliarono, e Jo allacciò il corpo nudo a quello di lui: lo desiderava, lo voleva dentro. Gli afferrò i capelli e soffocò il grido d’estasi che le saliva alla bocca incollando le labbra su quelle di lui.

Poi, esausti, restarono sdraiati fianco a fianco, a guardare la cortina di luci multicolori che sfilavano in cielo.

Jo girò la testa, vide Keith con lo sguardo perso in alto, a milioni di chilometri di distanza.

“Ha dimenticato tutto il resto per così poco tempo” pensò, depressa. “Per così poco tempo.”

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