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ULTRA TOP SECRET

Memorandum

A: Presidente

Data: 18 aprile

DA: R.A. McDermott, Direttore del PROGETTO JUPITER

Rife: R/JUPITER 84-011

VIA: S. Ellington, STP

SOGGETTO: Primo Contatto


1. La presente comunicazione per confermare il mio precedente messaggio telefonico: abbiamo stabilito contatto radar con l’oggetto in discussione.

2. In risposta alle proposte sollevate da una minoranza dei partecipanti al PROGETTO JUPITER, chiedo rispettosamente uno studio da parte della NASA e/o altri Enti federali circa la possibilità e la desiderabilità di lanciare verso l’oggetto stesso una missione spaziale di rendez-vous con equipaggio umano, presumibilmente nel momento in cui esso si troverà più vicino alla Terra.

3. È, comunque, mia meditata opinione che la facilità di stabilire un contatto elettromagnetico e le difficoltà implicite in una missione di rendez-vous debbano giocare a favore della prima ipotesi e a sfavore della seconda.

4. Una missione di rendez-vous con equipaggio umano avrebbe un costo altissimo in fondi e personale, soprattutto qualora dovesse fallire.

ULTRA TOP SECRET


La Lincoln correva nella notte buia del Nevada, sfrecciava sull’Interstatale 15 attraverso il grande deserto salato. A ogni lato dell’orizzonte, montagne scoscese, pallide e mute, immerse nel chiarore della luna crescente.

«Si sgonfierà tutto» stava dicendo Charles Grodon. «Non possiamo continuare a tenere la gente sul filo.»

Willie Wilson era riverso sul sedile posteriore della Lincoln, gli occhi chiusi, il mento sul petto. Al suo fianco sedeva Bobby, suo fratello e manager. Grodon era seduto di fronte a loro due, sul seggiolino estraibile.

«Piantala, Charlie» sussurrò Bobby. «È distrutto.»

Bobby aveva tre anni in meno del fratello, era parecchio più piccolo, e più grasso di otto chili. Willie era biondo, con uno sguardo intenso, mentre il viso lentigginoso e i capelli rossi davano a Bobby un’aria sbarazzina. Spesso raccontavano, per scherzo, di essere gemelli.

«Siamo tutti stanchi» ribatté Grodon. «Non facciamo altro che viaggiare e lavorare come pazzi. Però io non voglio che finisca tutto nel nulla.»

Grodon era magro come un fuscello; i tratti del suo viso erano affilati, le mani nervose, mai ferme. Tamburellava con le dita sulle pieghe perfette dei calzoni. Giocherellava con i bottoni del panciotto. Si grattava il naso.

«Abbiamo avuto il pubblico più numeroso che si sia mai visto a Vegas» disse Bobby sottovoce, per non disturbare suo fratello. «Tre reti televisive nazionali hanno fatto un servizio nei loro notiziari. Quelli del “Time” sono venuti a curiosare. Cosa vuoi di più?»

«Dobbiamo dargli qualcosa di più del solito “Scrutate il cielo”» disse Grodon. «Willie deve fare un altro passo, raccontare qualcosa che non abbiano ancora sentito. Se no si stancheranno e ci pianteranno.»

«Abbiamo il tutto esaurito a Washington e ad Anaheim» fece notare Bobby.

«Adesso ti dico una cosa.» Grodon puntò un dito su Bobby. «La prima grossa campagna promozionale a livello nazionale a cui ho lavorato è stata quella per Mark Spitz…»

«Il nuotatore?»

«Già. Abbiamo reso familiare il nome di Mark Spitz. Tutti sapevano chi era, che aveva vinto sette medaglie d’oro alle Olimpiadi. È apparso in tutti gli show televisivi. Era sui poster. Sulle scatole di popcorn. Sui cartoni di latte. Da per tutto. E sei mesi dopo, nessuno sapeva più chi cavolo fosse.»

Il viso tondo di Bobby si piegò in una smorfia.

«Perché» spiegò Grodon «quel fesso non aveva niente da offrire. Okay, era un nuotatore eccezionale, e con ciò? Non sapeva cantare. Non sapeva recitare. Non riusciva nemmeno a dire in modo decente una battuta col testo sotto il naso. Era solo capace di togliersi i vestiti, tuffarsi in una fottuta piscina e nuotare come un delfino.»

«Non vedo…»

Grodon si protese in avanti verso Bobby, finché i loro nasi non si sfiorarono. «Il punto è che è facile attirare l’attenzione. Questo l’abbiamo fatto. Willie ha puntati addosso gli occhi di tutti, perché tutti aspettano il Grande Evento. “Scrutate il cielo” dice alla gente, E la gente scruta. Però non vede niente. “Non sta succedendo niente.”»

«Succederà.»

«Sì?»

«Se Willie dice che succederà, succederà.»

Grodon si rabbuiò. «E dai, Bobby. Guarda che stai parlando con Charlie l’ebreo. Chiaro? Willie potrà anche credere in tutte le fesserie che racconta, ma noi non dobbiamo lasciarci prendere la mano, Cristo. Qualcuno deve tenergli i piedi per terra.»

«Succederà» ripeté testardamente Bobby. «Se Willie dice che succederà, succederà.»

«Quando?»

«Quando succederà.»

«Sarà meglio che succeda presto. Maledettamente presto. Perché se tra un po’ non succede qualcosa di spettacolare, le grandi folle e gli inviati dei media scompariranno… Così.» Schioccò le dita.

«Succederà» disse Willie.

Tutti e due si girarono verso di lui.

«Succederà» ripeté Willie. «Lo so, come so che il mio cuore batte. Non so cosa sarà, o quando giungerà…»

«Speriamo che arrivi presto» mugugnò Grodon.

«Non preoccuparti tanto, Charlie. Succederà presto. Il Signore deciderà quando farlo succedere, ma sarà presto.»

«Il Signore non deve preoccuparsi degli incassi.»

Willie rise e gridò all’autista: «Ehi, Nick, fermati un attimo. Devo sbrigare un bisogno.»

La Lincoln rallentò dolcemente, accostò a lato della grande autostrada deserta.

Willie scese, rabbrividì al gelo improvviso del deserto. Il cespuglio più vicino era a una dozzina di metri dalla macchina, ma a quell’ora tutta la zona era deserta sotto il chiaro di luna. C’erano solo il gemito del vento tagliente, e lo scintillio lontano delle stelle.

Willie slacciò la patta dei calzoni e orinò sul deserto. Immaginò che l’orina venisse assorbita talmente in fretta dalla sabbia porosa da non lasciare nemmeno una traccia d’umidità.

Mentre chiudeva la patta e si abbottonava la casacca, alzò gli occhi al cielo.

«Gesù Cristo Santissimo» sussurrò. Poi si mise a urlare. «Gesù Cristo Santissimo! Guardate! “Guardate!”»

Bobby saltò giù dalla macchina in un attimo. Suo fratello ballava e gridava e puntava l’indice verso l’alto. Scesero anche Grodon, e poi l’autista. Guardarono tutti in alto.

Scintille verdi e rosa avevano invaso il cielo, dita luminose che danzavano e tremavano fra le stelle.

«Co… Cos’è?» chiese l’autista, con voce malferma.

«Sta arrivando!» ululò Willie. «Ve l’avevo detto che sarebbe arrivato, e adesso sta arrivando!»

Bobby fissava le luci a bocca spalancata.

«È solo l’aurora boreale» disse Grodon. «A volte si verifica anche da queste parti. Sarà per via delle macchie solari, o di qualche altra cosa del genere.»

«È un segno!» insistette Willie. «Un segno!»

Grodon scosse la testa. «Peccato che tu non possa far apparire quelle luci anche al raduno di Washington.»

Willie rise. «Chi lo sa? Il Signore segue vie misteriose.»

Bobby era immobile accanto alla macchina, boccheggiante, stupito da ciò che vedeva e dalla capacità di suo fratello di prevedere che sarebbe accaduto.


Jo si svegliò presto. Il sole di Kwajalein entrava nella stanza, anche se lei aveva appeso una coperta sopra la finestra. La luce forte del sole si addensava lungo gli orli della finestra, incendiava la coperta sottile.

Aveva insistito per avere una stanza sua all’hotel, come tutte le altre donne non sposate. All’inizio McDermott aveva borbottato, ma ormai sembrava soddisfatto di trascorrere con lei solo una parte della notte. Jo aveva capito in fretta che al vecchio non interessava tanto il sesso quanto l’idea di possederla.

Si alzò, si lavò, si vestì, cercò di decidere se era meglio fare colazione gratis alla mensa oppure mangiare qualcosa di più decente in uno dei tre ristoranti. Con una scrollata di spalle, decise di saltare la colazione.

“Posso prepararmi il tè in ufficio” si disse mentre finiva di pettinarsi. Si passò il rossetto sulle labbra, annuì alla propria immagine riflessa dal vecchio specchio e raggiunse la finestra, per togliere la coperta.

Vide Stoner che camminava verso la mensa, la solita smorfia fredda in viso. “È sempre nel suo mondo, pensò, non ha mai tempo per qualcun altro.”

Scuotendo la testa, si allontanò dalla finestra, prese la borsa e s’avviò verso il centro computer.

L’edificio replicava, nella struttura, il gigantesco impianto IBM. Le grandi consolle dei computer, ognuna più grande di un frigorifero familiare, erano disposte a file lungo un vano centrale che si alzava per tre piani. Attorno al vano, che tutti chiamavano il Pozzo, si aprivano gli uffici, uniti da balconate a ogni piano.

Jo aveva ottenuto un ufficio tutto suo al secondo piano, da dove vedeva la balconata e il Pozzo. Era solo un cubicolo minuscolo; le pareti erano nude, di un verde asettico. La scrivania era un oggetto informe di metallo, esclusivamente funzionale, ammaccato e scrostato dal lungo uso. La sedia a rotelle cigolava e si rovesciava se ci si appoggiava troppo all’indietro, stando agli avvertimenti del marinaio che le aveva portato i mobili. Gli armadietti dell’archivio traballavano. Però il terminale di computer sulla scrivania era nuovissimo e funzionava perfettamente, il che a Jo bastava.

Il bollitore elettrico stava cominciando a fischiare quando Markov apparve sulla porta aperta e bussò discretamente.

Jo si girò, il bollitore in mano. «Ehi! Ciao!»

Lui strizzò gli occhi, «La mia istruttrice di nuoto. Allora è qui che ti nascondi di giorno.»

«Non mi nascondo. Lavoro» disse Jo. Facendogli cenno d’entrare con la mano libera, chiese: «Un goccio di tè?»

Markov sorrise, annuì, sedette su una delle sedie in metallo e plastica disposte lungo la parete dell’ufficio.

Jo prese una tazza di plastica e una seconda bustina di tè dall’ultimo cassetto dell’armadietto, versò il tè a Markov, appoggiò la tazza tra gli stampati di computer e la carta che ingombravano la scrivania.

«Non ho latte, e nemmeno zucchero» si scusò.

«Va benissimo così» disse Markov.

Jo si accomodò sull’altra sedia. Era tanto vicina a Markov che lui sentiva la fragranza della sua pelle, il profumo dello shampoo che la ragazza aveva usato.

Markov si schiarì la gola e annunciò: «Sono qui in missione ufficiale.»

«Non per un’altra lezione di nuoto?» scherzò Jo.

Lui sorrise. «Magari più tardi.»

«Okay.»

Markov sembrava impacciato, come un ragazzino al primo appuntamento. «Sì. I, ah… I radioastronomi cominceranno stamattina a trasmettere messaggi all’astronave, non appena si alzerà sull’orizzonte.»

«Lo so» disse Jo.

«Verranno inviati diversi tipi di messaggi, su parecchie frequenze.»

«Tenteranno anche coi raggi laser?»

«Stoner» disse Markov «ha chiesto a un osservatorio delle Hawaii un impianto laser molto potente. Arriverà qui tra una settimana o due.»

“Così ha vinto la battaglia per il laser” pensò Jo. “Come immaginavo.”

«Hanno anche deciso» continuò Markov «di seguire il mio suggerimento. Ritrasmetteranno alla nave i segnali provenienti da Giove che abbiamo registrato.»

«È un’ottima idea» disse Jo.

«Sul serio?» Markov gongolava.

«Certo. Un’idea eccezionale.» Lui prese la tazza di tè, bevve un sorso. «Però temo che dovremo usare il computer per parecchio tempo per tradurre i nastri che abbiamo in segnali che i radiotelescopi possano trasmettere. Mi hanno mandato a cercare qualcuno del centro computer che sia in grado di aiutarci col problema.»

«Sono nastri audio?» chiese Jo. «Il dottor Thompson non ha portato le analisi dei nastri eseguite dal computer quando ci siamo trasferiti qui?»

«Sì. Ne ho parlato col dottor Thompson. Ha tutte due le cose.»

Con un lieve cenno del capo, Jo disse: «Allora non c’è problema. Ci occorre solo un po’ di tempo per controllare i nastri del computer e accertarci che siano compatibili col linguaggio cibernetico che usiamo qui. Impiegheremo di più a compilare i moduli di richiesta che a fare il lavoro.»

Markov sospirò di sollievo. «E per quando…?»

«Ne ha bisogno molto in fretta? Al momento sto eseguendo solo lavori di routine. Potrei mettermi all’opera oggi e avere tutto pronto per domani.»

«Meraviglioso!»

Lei gli sorrise. «Dopo tutto, siamo vecchi compagni di nuotate, no?»

Lui s’imporporò in viso. «Io… Devi accettare le mie scuse per quella sera. Sai, non è che noi russi siamo famosi per essere grandi nuotatori.»

«Non c’è bisogno di scusarsi» disse Jo.

Markov era certo di sentire il proprio cuore battergli follemente in petto. «Jo… Dolcissima signora, per te combatterei coi draghi.»

«Sulla terraferma.»

«Uh, sì… Preferibilmente sulla terraferma.»

«Sei molto dolce, dottor Markov» disse lei.

«Kirill.»

«Kirill. Se dovessi imbattermi in un drago, te lo farò sapere.»

Lui le prese una mano fra le sue e la baciò. «Ti amo alla follia, mia adorata signora.»

«Oh, no» disse Jo, assumendo un’espressione grave. «Non devi nemmeno pensare una cosa del genere.»

Luì ebbe un gesto d’impotenza. «Il consiglio arriva troppo tardi. Ormai ti amo. Totalmente.»

Con estrema serietà, Jo gli disse: «Ci fossimo conosciuti un anno fa… O anche solo sei mesi fa…»

«Lo so, lo so» disse Markov, scrutando in fondo agli occhi della ragazza. «Il professor McDermott ti ha rubata. Ma è impossibile che tu prenda sul serio la storia con lui.»

«Non la prendo sul serio.» La voce di Jo era talmente bassa che lui riusciva appena a udirla.

«Allora puoi prendere sul serio me!» disse Markov, cercando di farla sorridere.

Lei non rispose, ma il suo corpo parve afflosciarsi.

Prendendole il mento in una mano, Markov le sollevò il viso, per poter guardare ancora una volta in quegli occhi meravigliosi.

«C’è qualcun altro» comprese lui.

Jo restò ancora in silenzio.

«Qualcuno che non contraccambia il tuo amore» continuò il russo. «O… Forse non sa nemmeno che tu lo ami?»

Per una ragione arcana, Jo capì di potersi fidare di quell’uomo dolce, quell’uomo che sembrava un ragazzo. Annuì lentamente.

Markov sospirò. «Chiunque sia, è un uomo fortunato» disse piano. «E uno sciocco.»


Reynaud camminava sulla spiaggia, a piedi nudi, lambito dalle onde calme. Si era arrotolato i calzoni fin sopra le ginocchia paffute, e aveva la camicia, madida di sudore, incollata alla schiena.

Strizzò gli occhi al sole del pomeriggio. Davanti a lui, sdraiato a metà sulla spiaggia e a metà nell’acqua, c’era qualcuno.

Reynaud raggiunse di corsa, sbuffando, il corpo riverso. Era Hans Schmidt.

«Salve» disse il giovane astronomo olandese, alzando lo sguardo su Reynaud. «Perché corre?»

Con un ultimo sbuffo di stanchezza, Reynaud s’inginocchiò a fianco del ragazzo. «Ti ho visto sdraiato qui… Pensavo che fossi svenuto, o morto.»

«Non sono morto» disse Schmidt, con un sorriso ambiguo. «Non sono nemmeno svenuto.»

«Allora perché…?» Reynaud spalancò le braccia.

«Perché no? Cos’altro dovrei fare?» Schmidt alzò la mano che teneva lungo il fianco. Tra le dita stringeva una sigaretta marrone.

«Non hai proprio niente da fare? Sei un astronomo, dopo tutto.»

Schmidt tirò una lunga boccata dalla sigaretta. «Non mi hanno mandato qui per lavorare, Sono in esilio. Questa è una prigione. Mi hanno spedito qui perché sapevo troppo.»

«Però credo…»

Schmidt offrì la sigaretta a Reynaud. «Non è poi troppo brutta, per essere una prigione. Il panorama è bello. E hanno dell’erba ottima. Su, l’assaggi. I marinai la vendono per poco. Arriva dalle Filippine.»

Reynaud fissò la sigaretta. «È marijuana?»

Con una risata, Schmidt si rizzò su un gomito. Aveva i capelli pieni di sabbia. «Dimenticavo. La sua generazione è dedita all’alcol, giusto? L’idea di provare l’erba la spaventa.»

«Be’…» Reynaud osservò la propria mano che afferrava la sigaretta. Se la portò alle labbra e tirò una boccata. Tossì.

Schmidt ricadde sulla sabbia, scosso dalle risate.

«Sono… Sono passati troppi anni» disse Reynaud, roco, gli occhi pieni di lacrime. «Ormai non riesco più a fumare.»

Restituì lo spinello a Schmidt, che aspirò soddisfatto.

«Non mi guardi con quell’aria di disapprovazione» disse il giovane astronomo. «So che potrei aiutarli. Quegli americani, e i russi. Sono così indaffarati, così presi. Ma perché dovrei aiutarli? Io ho scoperto quei maledetti segnali. Non fosse per me, sarebbero tutti a casa con famiglia e amici. Io sarei a casa con la mia Katrina. Prepareremmo il matrimonio. Faremmo l’amore. Invece, io sono qui, e lei probabilmente andrà a letto con qualcun altro.»

Reynaud sedette sulla sabbia, distese le gambe. «Lo so come ti senti. Questa faccenda ha scombussolato tutti.»

«Col cavolo che lo sa» mugugnò Schmidt. «Ha idea di cosa significhi aver voglia di fare l’amore?»

Con una risata cupa, Reynaud prese lo spinello e aspirò. Questa volta non tossì.

«Quando uno di quegli americani mi guarda» mormorò Schmidt «sento l’ostilità, la rabbia. Ce l’hanno con me perché li ho costretti a venire qui, su quest’isola.»

«Assurdo. Sono quasi tutti contenti di essere qui. Per loro è un progetto eccitante.»

«Non per me» disse Schmidt.

«E nemmeno per me.» Schmidt scosse la testa, guardò la laguna. Non una vela, non un segno di vita fino all’orizzonte. Da quanto si vedeva, potevano benissimo essere naufraghi.

«Anche lei si annoia?»

Reynaud scrollò le spalle. «Qui non c’è niente da fare per un cosmologo in pensione.»

«Inventi nuove teorie!» disse Schmidt. «È a questo che servono i cosmologi, no?»

«Forse. Però i miei tempi sono passati… Mi sento un fossile, una mummia esumata dopo migliaia d’anni trascorsi nell’oscurità.»

«Cos’ha combinato per farsi sbattere qui? Ha violentato una suora?»

Reynaud fissò il viso del giovane angelo. «Questo sarebbe difficile.»

Fumarono assieme lo spinello, finché diventò impossibile tenerlo in mano senza bruciarsi le dita. Schmidt gettò il mozzicone in acqua.

«Ne ho ancora parecchi» disse, con voce pigra, rilassata.

A Reynaud girava la testa. Si alzò, barcollò. «Credo sia meglio che io torni, adesso…»

«Resti qui. Forse quella fottuta astronave cadrà diritta nella laguna, dopo di che torneremo tutti a casa.»

«È ancora lontana più di cinquanta milioni di chilometri.»

«Benissimo, allora!» Il giovane si rizzò a sedere di scatto. «Possiamo andarle incontro a metà strada.»

«Sarebbe a dire?»

Con un sorriso complice: «Nella mia stanza… Ho certe pastiglie che ti portano diritto fra le stelle, “zoom”! Come ridere. Me le ha vendute uno dei civili che lavorano allo spaccio.»

«No, non credo…»

Ma Schmidt si tirò in piedi e afferrò Reynaud per il braccio. «Venga, le faccio vedere io. Non è il caso di spaventarsi. Sono meglio dell’alcol. Forza, venga con me.»

Reynaud lasciò che il ragazzo lo trascinasse su per la spiaggia, verso gli Alloggi Ufficiali Scapoli.

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