45

Kwajalein

Il sole di mezzogiorno batteva sulla strada silenziosa, deserta. Negli uffici, nei bungalow, nelle case su ruote, tutti gli uomini e tutte le donne dell’isola sedevano, rapiti, davanti agli schermi televisivi. Sintonizzati su un’unica immagine: la nave aliena immobile nel vuoto. E dalla nave uscì, come sempre, la voce di Stoner.

«No. Io non torno con te, Nikolai.»

L’attività frenetica del centro comunicazioni si fermò di colpo. Uomini e donne s’immobilizzarono a metà d’un gesto, fissando gli schermi.

Solo Reynaud reagì.

«No! No, non può farlo! Non deve, non è necessario!» Il cosmologo, rosso in viso, sbuffante, corse verso Tuttle.

«Lasciatemi parlare con lui!» urlò. «Mettetemi in collegamento! In nome di Cristo, lasciatemi parlare con lui!»

Gli occhi di tutti si staccarono dagli schermi per posarsi sullo scienziato impazzito. Tuttle alzò le mani, come a proteggersi dalla furia folle di Reynaud.

«Vuole parlare con Stoner?»

«Sì! Subito! Prima che sia troppo tardi! Posso salvarlo! Lo so!»


Stoner si sentiva stranamente calmo. Ormai, tutte le decisioni importanti erano alle sue spalle. Non c’era più bisogno di lottare. Di preoccuparsi. E capì, tutta la sua vita era corsa in direzione di quell’epilogo. Avrebbe terminato i suoi giorni solo, senza nessuno vicino, lontano da tutti, perso nell’immensità stellata con quella creatura di una razza aliena.

Un altro spirito solitario, pensò, scrutando il viso strano e immobile dell’alieno. “Eri come me, da vivo? È per questo che hai deciso di trascorrere così l’eternità?”


A New York, un monitor stava urlando: «Interrompete la diretta!»

Il vicepresidente della ABC, distrutto, dovette fare uno sforzo tremendo per tenere lontano le mani dal quadro dei comandi. A Mosca, il censore sovietico, livido di rabbia e paura, sbatté il pugno sul pulsante che escludeva dal circuito mondiale la trasmissione della Soyuz. In tutto il mondo, gli schermi televisivi continuarono a mostrare l’immagine della nave aliena ripresa dalle telecamere della Soyuz, ma all’improvviso il commento audio in diretta dallo spazio si era interrotto.


Stoner aveva assunto una posizione quasi fetale, sospeso in aria a una trentina di centimetri dal pavimento. Attraverso le pareti trasparenti della nave vedeva la Terra lontana e la Soyuz, ancora immobile a cento metri di distanza. La nave russa sembrava fissarlo in un muto atto d’accusa.

Riaccese la radio della tuta.

«Devi rientrare» stava dicendo Federenko, con frenetica determinazione. «È un ordine. Restano solo sette minuti…»

«Nikolai, ho appena compreso qualcosa» disse Stoner. Il cosmonauta si zittì. «Questa nave, questa tomba, dev’essere stata costruita in modo da dirigersi verso stelle di tipo G. Ci scommetterei. Il nostro amico deve provenire da una stella simile al Sole.»

«Non c’è tempo per le tue meditazioni filosofiche, Shtoner.»

«E quando raggiunge una stella di tipo G, si dirige verso i pianeti con un forte campo magnetico. Dev’essere così! È per questo che all’inizio ha puntato su Giove: la magnetosfera più forte del sistema solare. E poi verso la Terra, il campo magnetico più potente fra i pianeti interni.»

«Sei minuti e trenta secondi» mugugnò Federenko.

«I campi magnetici forti costituiscono un bersaglio per due motivi» proseguì Stoner, ignorandolo. «Uno, la nave si serve dell’energia elettromagnetica per ricaricare i suoi accumulatori, o qualunque altra cosa usi per immagazzinare energia. Però, molto più importante, è probabile che solo pianeti con un forte campo magnetico possano dare origine alla vita. La vita “ha bisogno” di un forte campo magnetico che faccia da ombrello, per proteggere la superficie del pianeta dalle radiazioni cosmiche!»

«Shtoner, basta con questa follia, Rientra a bordo.»

«Hai ricevuto tutto, Nikolai? Hai ritrasmesso a Terra? È importante!»

«Sì, sì. Ma adesso rientra.»


Alla CBS, Cronkite si stava esibendo in un pezzo di bravura: con l’immagine della nave aliena sullo schermo, continuava a parlare, raccontando fatti, congetture, precedenti storici, opinioni. Nel frattempo, i dirigenti della rete stavano telefonando freneticamente a Washington, per vedere se non fosse possibile ricevere ancora in diretta l’audio dalla Soyuz.

Alla Casa Bianca, il presidente era corso in sala trasmissioni, dove l’audio giungeva su una linea riservata con Mosca. Un assistente stupefatto disse al presidente che c’era Walter Cronkite al telefono. Il presidente rispose immediatamente, e restò molto deluso quando scoprì che a urlare in modo frenetico e incomprensibile al telefono era solo il produttore di Cronkite.

Dopo qualche parola di rassicurazione, Cronkite in persona venne all’apparecchio. Il presidente acconsentì a che i suoi tecnici trasmettessero alla CBS il commento audio che arrivava dalla Soyuz. Cronkite esitò un attimo, poi chiese che lo stesso favore venisse fatto anche alle altre reti. Il presidente annuì e sorrise.

«Barbara sarà fiera di te, Walter» disse.

Al presidente parve che Cronkite si mettesse a farfugliare. «Grazie, signor presidente» disse la famosa voce. «Se ora volete scusarmi, signore, devo tornare alle telecamere.»

«Certo, Walter» disse il presidente. «Dio ti benedica.»


Jo sedeva come paralizzata alla consolle. Nel grande centro di controllo, tutto parve fermarsi, come se le centinaia di uomini e donne che lavoravano lì avessero smesso all’unisono di respirare.

La ragazza guardò il viso stravolto di Markov.

«Si ucciderà.»

«Devi impedirglielo» disse Markov. «Devi!»

«E come posso…?»

«Nessun altro lo può» disse Markov, chinandosi su di lei, afferrandola per le spalle, concitato. «Ti ama. Sei l’unica cosa che lo tenga legato alla vita. Parlagli! Subito!»

Stordita, Jo rispose: «Ma da questa consolle non si può trasmettere…»

Markov si girò verso Zworkin, a sua volta nervosissimo. «Faccia qualcosa! La prego! La ragazza deve parlargli!»

Zworkin si inumidì le labbra, fissò incerto le guardie che avevano attorno. «Tenterò…»


«D’ora in poi dovrete lavorare tutti assieme» stava dicendo Stoner. «Tutte le nazioni del mondo. La situazione non potrà mai più essere la stessa di prima. Esistono altre creature nello spazio, altre razze, altre intelligenze, e sono curiose e coraggiose quanto noi.»

«Cinque minuti, Shtoner!»

«Cinque minuti, cinque ore… Non fa nessuna differenza, Nikolai. Nessuna.»

«Aspetta… Una comunicazione da Terra. Sulla frequenza due.»

«No» disse Stoner. «Non voglio parlare con loro.»

«È un messaggio personale. Una donna, miss Camerata. È molto sconvolta, Shtoner.»

Lui s’interrogò un attimo, poi premette il pulsante della frequenza due.

«Keith! Mi senti?» La voce di Jo tremava d’ansietà.

«Sì, Jo, ti sento.»

Silenzio. Stoner ricordò che occorrevano circa dodici secondi perché la risposta di lei gli giungesse. “Sono talmente lontano che mi è impossibile sostenere una conversazione normale con Jo.”

«Ti prego, non farlo! Non commettere questa follia, Keith! Torna, te ne prego!»

«Non posso, Jo. Non adesso. Se resto qui, posso trasmettervi altri particolari su questa arca, sul nostro visitatore. È una fonte meravigliosa di conoscenze. Non posso andarmene dopo pochi minuti e lasciare che si perda per sempre.»

Mentre le sue parole raggiungevano Jo e lei rispondeva, Stoner restò a fissare la piccola luna che era la Terra.

«Ma ti ucciderai!»

«Avrò più di un’ora per continuare a trasmettere, prima che Federenko sia troppo lontano. Potrò descrivervi nei particolari tutto quello che c’è qui dentro.»

Lui aspettò, contò i secondi, preparò le frasi che avrebbe detto poi.

«E morirai!» esclamò Jo. «Morirai lassù!»

«Non è una cosa tanto terribile. La mia vita non ha mai significato molto per nessuno.»

Era meglio così: aveva il tempo di pensare, il tempo di prepararsi alla voce di lei, di congelare le proprie emozioni, di mettersi sulla difensiva.

«La tua vita è importante, maledetto idiota! Non puoi buttarla!»

«Sono contento di morire qui, Jo. Non è il modo peggiore per andarmene.»

Notò che ai margini della visiera si stava di nuovo formando brina, nonostante l’impianto termico fosse al massimo. Il freddo gli stava penetrando nel corpo; ne avvertiva il sapore metallico.

«No, Keith, no!» C’erano lacrime nella voce di Jo. «Torna! Torna da me! Hai tante cose per cui vivere…»

«No, non è vero, Jo. Questo è l’apice della mia vita. Tutto il mio passato portava a questo momento. Che altro potrei fare di meglio?»

«Non puoi gettare la vita in questo modo! Abbiamo ancora davanti tutte le nostre vite!»

«Tu hai la tua, Jo. Sei giovane, hai il mondo intero a disposizione.»

Passarono i secondi d’intervallo, e poi: «Ma l’hai detto tu stesso che il mondo non potrà più essere quello di prima, adesso che ci siamo incontrati con l’alieno.» La voce di Jo era stridula, impaurita, «Non siamo più gli stessi! Non lo sono io e non lo sei tu. È un mondo nuovo, Keith. Abbiamo bisogno di te qui. Io ho bisogno di te, ho bisogno di averti vicino.»

«Tre minuti, Shtoner.»

Prima che lui potesse rispondere all’una o all’altro, una nuova voce gli disse: «Sintonizzatevi sulla frequenza tre. Messaggio prioritario di Kwajalein.»

Quasi lieto di staccarsi dalla voce di Jo, Stoner passò sulla frequenza tre; e fu come tagliare un cordone ombelicale.

«Parli, Kwaj.»

«Dottor Stoner?» La voce era eccitata, familiare, «Sono il dottor Reynaud, da Kwajalein.»

Per un attimo, Stoner si sentì come esilarato. Gli venne voglia di ridere. Reynaud, il nostro monaco. Cercherà di salvare la mia anima?

«Mi stia a sentire, la prego!» urlò Reynaud nella cuffia. «Ho studiato i dati che il computer ha ricavato dalla traiettoria della nave aliena. Se anche la lascerà, non andrà persa per sempre. È chiaro? Non andrà persa per sempre!»

«Vuole dire che riusciremo a seguirla col radar?» chiese Stoner. «E che importanza ha?»

«È importantissimo! Vitale!» La voce di Reynaud tremava d’eccitazione. «Potremo organizzare un’altra missione spaziale e portare la nave su un’orbita in prossimità della Terra!»

Stoner scosse la testa. «Occorrerebbero anni per costruire apparecchiature in grado di rimorchiare questa nave. Siamo arrivati qui a stento, e sono occorsi mesi di preparativi. E la missione è stata un mezzo fallimento.»

«Ma abbiamo a disposizione anni!» insistette Reynaud. «Allontanandosi dal Sole, la nave rallenterà. Passeranno forse cinque anni prima che raggiunga l’orbita di Plutone…»

«Cinque anni» fece eco Stoner.

«È possibile un altro contatto» disse Reynaud. «Non c’è nessun bisogno che lei resti lì.»

Li interruppe la voce possente di Federenko. «Due minuti, Shtoner. Devo mettere in funzione l’ordinatore automatico di sequenza.»

«Okay…»

«Riportami la macchina fotografica» ordinò Federenko. «Devo portare le foto sulla Terra. Sono troppo preziose.»

«Possiamo tornare in contatto con la nave aliena» ripeté Reynaud.

La voce di Jo si inserì sulla stessa frequenza. «Torna da me, Keith. Te ne prego, torna.»

S’intromise anche Markov. «Keith, mio caro amico, non essere così testardo. Gli eroi morti non servono a nessuno. Hai sentito cosa dice Reynaud? Tra qualche anno potrai rimetterti in contatto col nostro visitatore.»

Stoner, scosso da brividi di freddo, si accorse di avere ancora in mano la macchina fotografica stereo.

«Le foto, Shtoner. Adesso.»

Tese le mani, toccò la paratia della nave, si spostò verso il portello. “Dov’è?” si chiese. L’intero scafo era così trasparente…

Poi incontrò il cerchio che si apriva sullo spazio. Agganciandosi alla cintura la macchina fotografica, cominciò a spingersi fuori dalla nave aliena.

Markov continuava a parlare.

«Potremo costruire nuovi missili e addestrare nuovi equipaggi. E tu, logicamente, sarai il direttore del progetto. Devi tornare a guidarci. Abbiamo bisogno di te.»

«Ti prego, Keith» implorò la voce di Jo.

Quando era già uscito a metà dal portello, Stoner si girò a guardare l’alieno, che da ere immemorabili riposava in quel sonno silenzioso. E la sua mente si riempì delle voci stridule, dei visi ripugnanti di tutti i burocrati che aveva incontrato. E di McDermott. E di Tuttle. Rivide Dooley, gli agenti e i poliziotti e i politici che non capivano, che avevano paura, che opponevano resistenza, che non avrebbero accettato la realtà nemmeno a sbattergliela in faccia.

E vide Cavendish, torturato e distrutto da quella gente. E Schmidt, massacrato dalle sue stesse mani.

«Shtoner, accensione dei retrorazzi tra un minuto. Procedura automatica. Non posso fermarmi più a lungo.»

«Tutto a posto, Nikolai» disse lui, rientrando nello scafo trasparente. I suoi piedi aderirono al pavimento, vicinissimi all’alieno.

«Torna sulla Terra, Nikolai. Io resto qui.»

«Keith!» Un urlo strozzato di Jo.

«Non suicidarti» implorò Markov.

«Non è un suicidio» rispose Stoner, a tutti, «Voi pensate che io mi stia uccidendo, ma non è vero. Vi do un incentivo, un motivo in più per tornare qui il più in fretta possibile, a questa arca delle meraviglie. Io sarò qui, congelato. Forse sarà morto, Ma forse… Forse sarò in animazione sospesa, in attesa di essere riportato in vita.»

«Cosa stai dicendo?»

«Qui dentro c’è il vuoto. Manca l’atmosfera. La temperatura è vicina allo zero assoluto. L’alieno si è conservato per Dio solo sa quanti millenni. Anch’io dovrei restare intatto, per un paio d’anni.»

Respirò a fondo, ricordò che la loro risposta non poteva giungergli che dopo molti secondi, e continuò: «Quando spegnerò l’impianto termico, il freddo mi congelerà. Volerò con l’alieno per qualche anno. Se davvero v’importa, di me, verrete a riprendermi prima che tutt’e due usciamo dal sistema solare.»

«Keith, non puoi…» La voce di Jo si perse tra i singhiozzi.

«Non sarò morto» le disse lui, dolcemente. «Ti aspetterò, sospeso tra la vita e la morte. Aspetterò che tu arrivi qui e mi riporti in vita. Come nella favola della Bella addormentata, con le parti invertite.»

La voce di Markov traboccava d’angoscia. «Non riesce più a parlare, Keith. Vorrebbe, ma non ci riesce.»

«Kirill… Jo, ascoltatemi. Costringeteli a lavorare assieme. Create una forza comune per le imprese spaziali. Obbligate gli uomini politici a fare quello che bisogna fare. Coinvolgete l’intera razza umana. Abbiamo la possibilità di arrivare alle stelle, tutti quanti, di uscire dal bozzolo in cui abbiamo vissuto. Costringeteli a capire, a guardare le stelle.»

L’intervallo di tempo sembrava diventare più lungo ogni volta.

«E come potremo?» gemette la voce di Markov. «Noi siamo solo persone normali. Abbiamo bisogno di te, Keith. Devi tornare a guidarci!»

«No, Kirill» ribatté lui. «Dovrete guidarli voi. Adesso siete voi ad avere questo compito. Tu, e Jo.»

Stoner aspettò una risposta.

«Dieci secondi all’accensione dei retrorazzi» intervenne la voce tetra di Federenko.

«Io non potrei riuscirci» rispose Markov. «Devi tornare. Devi!»

«Troppo tardi, Kirill. È tutto nelle vostre mani. Dovete trasformarli, dal primo all’ultimo. Cambia il mondo per me, Kirill.»

Federenko s’inserì nella comunicazione. «Addio, Stoner. Sei un uomo molto coraggioso e molto sventato. Buona fortuna.»

«Arrivederci, Nikolai. Tieniti in allenamento.»

«Keith!» implorò la voce di Markov.

Stoner spense la radio e fissò la Soyuz. Nel silenzio più perfetto, con una breve fiammata sullo sfondo buio dello spazio, i retrorazzi si accesero. La nave si allontanò, accelerò, divenne sempre più piccola, scomparve fra le stelle.

Stoner si girò di nuovo verso l’alieno e deglutì, per vincere la secchezza che aveva in gola. Cercò di sfregarsi gli occhi indolenziti, ma la sua mano urtò sulla visiera del casco. Allora ricominciò a descrivere tutto ciò che vedeva.

E, mentre parlava, si chiese: è possibile che anche lui sia solo ibernato? Che non sia morto? Riusciremo a riportarlo in vita, un giorno?

Sapeva che la scienza medica degli uomini non conosceva ancora il modo di far rivivere un corpo congelato, non senza danneggiare le cellule e uccidere il soggetto. La sua ipotesi era valida solo per il futuro. Con un sorriso amaro, Stoner pensò: forse li costringerò a fare progressi anche in questo campo.


Gli occhi di Jo erano ormai privi di lacrime. Le uniche tracce delle sue emozioni erano le guance rigate. Gli altri tecnici cercavano di non guardare nella sua direzione; e intanto dirigevano il volo di Federenko verso la zona di atterraggio di Karaganda, seicento chilometri a est di lì.

Markov sedeva al suo fianco, stravolto, gli occhi lontani un milione e mezzo di chilometri. La voce di Stoner continuava a uscire dagli altoparlanti, sempre più debole e coperta di scariche. Stava descrivendo l’interno della nave aliena con lo stesso distacco di un archeologo che descrivesse i reperti di una tomba antica.

Markov parve tornare in sé. Frugandosi in tasca in cerca delle sigarette, mormorò: «Ha preso la sua decisione. Non c’è nulla che noi possiamo fare.»

La ragazza guardò il russo, vide che i suoi occhi erano colmi di lacrime.

«Non è morto» disse dolcemente Jo. «Non morirà… Se non lo tradiremo. Possiamo tornare da lui, riportarlo qui, riportarlo in vita.»

Con un’occhiata alle guardie che li circondavano, Markov disse: «Allora ci aspetta un lavoro enorme.»

«Sì. Però possiamo farcela. Possiamo cambiare il mondo.»

Markov annuì, con espressione truce. «Non avrei mai pensato di dover diventare un predicatore… Un evangelista.»

«Ma lo farai, vero?»

«Per te» rispose lui, dolcemente. «Per lui.»

«No» lo corresse Jo. «Per te. Per tutti noi. Per la Russia e per il mondo intero.»

Un sorriso timido nacque sulle labbra di Markov. «Sei un tipo insopportabile, come lui.»

«Anche peggio» disse Jo. «Io resterò qui sulla Terra, e ti terrò d’occhio. Vedrò cosa combinerai.»

Markov si alzò in piedi. «Sarà una battaglia interessante. Non ho mai visto com’è fatto dentro il Cremlino, sai?»

Jo gli sorrise. «La vinceremo questa battaglia, Kirill. Ne sono sicura.»

Lui annuì, s’infilò la sigaretta tra le labbra.

Jo riportò l’attenzione sulla consolle. Stoner continuava a descrivere minutamente l’interno della nave-tomba.

«… Mi sembra non ci sia l’equivalente di una tavola periodica degli elementi, o qualcosa d’altro che io riesca a riconoscere. Se su questa arca si trova una stele di Rosetta, deve trattarsi di un’informazione scientifica che la civiltà aliena ha elaborato in maniera del tutto parallela alla nostra elaborazione…»

D’improvviso, Jo si sentì dire a Markov: «Devo parlargli. Un’ultima volta. Prima che… Prima che sia troppo tardi.»

Markov annuì.

«Da sola… Noi due soli, senza nessun altro che ci ascolti.»

Lui le sorrise. «Ti aspetti che i russi ti concedano un colloquio privato?» Poi si tirò la barba. «Be’, se proprio dobbiamo cambiare il sistema, tanto vale cominciare subito.»


Adesso i messaggi arrivavano da tutto il sistema. Stoner se ne stava raggomitolato nella cripta aliena, completamente esausto. Il freddo eterno dell’infinità si addensava attorno a lui, trasformava il suo corpo in piombo. Ma ascoltò le voci che gli parlavano.

Il presidente degli Stati Uniti gli trasmise i suoi ringraziamenti e le sue preghiere, e gli assicurò che l’America avrebbe compiuto ogni sforzo per rientrare in contatto con la nave aliena e riportarla sulla Terra.

Il presidente dell’Accademia Sovietica delle Scienze, parlando a nome di tutte le popolazioni dell’URSS, lodò Stoner per la dedizione alla scienza e per il suo coraggio, e promise che l’Unione Sovietica avrebbe partecipato a ogni programma spaziale che avesse come obiettivo la nave aliena.

Sua Santità il papa parlò personalmente a Stoner, promettendogli che avrebbe operato instancabilmente per salvare il suo corpo e che ogni giorno avrebbe pregato per la salvezza della sua anima.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, il vicepresidente della Repubblica Popolare Cinese, Jeff Thompson da Kwajalein, politici inglesi e giapponesi, scienziati di altre nazioni, gente completamente sconosciuta a Stoner: tutte le voci di Terra gli parlarono, a una a una, sempre più deboli, sempre più lontane, sussurri sullo sfondo delle scariche radio del cosmo.

Poi, una voce che riconobbe.

«Keith, Keith, sono Kirill. Mi senti?»

«Sì, Kirill. Il segnale è debole.»

«Jo, vuole parlare con te… In privato, sulla frequenza quattro. Nessuno vi starà a sentire, te lo prometto.»

Una scarica da una stella sconosciuta.

Stoner aspettò che terminasse, poi disse: «Passo sulla frequenza quattro.»

Per lunghi momenti, udì solo i sibili del cosmo. Poi: «Keith… Oh, Dio, Keith, cosa posso dire?»

“Dimmi che mi ami” pensò lui. Ma rispose semplicemente: «Sono qui, Jo. Ti sento.»

Il tempo che passò prima della risposta fu un’eternità. «Perché Keith? Perché l’hai fatto? Perché non sei tornato da me?»

Lui ebbe un sorriso triste. «Il mio è un ricatto, Jo. Ho qui un ostaggio. Li costringerò a venirselo a prendere. Se non vogliono sputtanarsi davanti a tutto il mondo.»

Silenzio, spezzato dai sussurri delle stelle. Poi: «E io, Keith? Non conto niente per te?»

«Addio, Rossana» recitò piano «poiché oggi io muoio… E il mio cuore, appesantito da un amore mai espresso, urla…» Ma non ricordava più i versi seguenti.

Aspettando la risposta di lei, piegò le dita. Muoversi stava diventando sempre più difficile. Il sangue si stava tramutando in ghiaccio.

«È vero?» chiese Jo. «Mi ami, Keith?»

Sì, adesso poteva dirglielo. «Ti amo, Jo. Ti ho amata per tanto tempo.»

Attese la risposta. I secondi erano sempre più lunghi.

«E io amo te, Keith.» La voce di lei era un sussurro vago tra le scariche che risuonavano alle sue orecchie. «Ti amo.»

Stoner non aveva nient’altro da dire. Gli si stavano congelando le labbra.

«Verremo a prenderti, Keith! Verremo!»

«Lo so che verrai, Jo. Non lasciarti fermare da loro. Non permettere che dimentichino. Io sarò qui, ad aspettarti.»

Stoner respirò per l’ultima volta, poi spense l’impianto termico della tuta.

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