La Ricerca di un’Intelligenza ExtraTerrestre (RTET) è un concetto di cui è giunto il momento. Un decennio fa all’incirca, solo pochi scienziati lavoravano in questo campo; le ricerche erano quasi inesistenti, e poche persone avevano sentito parlare della RIET. Oggi, però, centinaia di scienziati vi sono coinvolti, una dozzina di radio osservatori in tutto il mondo conducono vere e proprie ricerche, è sulla RIET si riflette in modo molto serio.
La Terra è la culla dell’umanità, e se anche noi siamo una civiltà giovanissima, emergente, ancora in fasce, siamo giunti al livello dell’adolescenza, per cui possiamo guardare oltre la nostra culla e raggiungere una prospettiva cosmica. Solo se riusciremo a comprendere appieno i rapporti che ci legano ai pianeti e alle stelle della nostra galassia, e all’universo tutto, potremo arrivare alla maturità. La RIET è un primo passo nella crescita dell’umanità…
Jo stava scendendo le scale che dal suo ufficio portavano a pianterreno, quando vide il dottor Cavendish fermo ai piedi degli scalini.
Stupefatta, si accorse che appariva più vecchio di quando erano arrivati sull’isola, poche settimane prima. Il suo corpo era magrissimo, gli abiti gli ballavano addosso, il viso era segnato dalla mancanza di sonno, gli occhi infossati erano cerchiati da borse nere.
«Dottor Cavendish, si sente bene?» gli chiese.
Lui socchiuse gli occhi, la guardò. «Ah, sì… Signorina…» La sua voce si spense.
«Camerata. Jo Camerata. Lavoro qui al centro computer.»
«Oh, sì, certo» disse Cavendish. «Che stupido a non riconoscerla.»
«Posso fare qualcosa per lei?»
Lui scosse piano la testa. «Sono reduce dalla riunione settimanale col professor McDermott. Stavo raccogliendo le forze prima di avventurarmi sotto il sole.»
«Sì, qui dentro si sta meglio» convenne Jo.
«Gli inglesi non sono poi così pazzi, sa. Io odio il caldo. Anzi, penso che influisca sulla mia salute.»
«Non ha l’aria condizionata, in ufficio?»
«Oh, sì. Mi hanno sistemato in uno splendido ripostiglio del centro elettronico. Ho un condizionatore nuovissimo alla finestra. Mi si ghiaccia il tè, se lo metto al massimo. Il difficile è arrivare qui. Dovrò farmi più di mezzo chilometro sotto il sole…»
«Perché non si mette a lavorare nel mio ufficio per mezz’ora o giù di lì? Nel frattempo il sole scenderà, e il vento rinfrescherà un po’ il clima.»
«Nel suo ufficio? Oh, non potrei. Tutte le mie carte, e le mie cose…»
Jo lo prese per il braccio, ricominciò lentamente a salire con Cavendish. «I dati a cui sta lavorando sono inseriti nel computer centrale, giusto? Può usare il mio terminale, e non avrà problemi. Sarà come essere nel suo ufficio.»
«Non ci avevo mai pensato.»
Lei gli sorrise. «Lei è abituato a lavorare con la carta. La mia generazione è abituata a lavorare con l’elettronica. Tutto ciò che le serve può essere richiamato sullo schermo del terminale.»
«Sì, però le ruberò l’ufficio.»
«Io posso lavorare ovunque» ribatté Jo. «Non si preoccupi. Lì starà molto meglio.»
«Lei è di una gentilezza estrema» disse Cavendish.
Raggiunsero l’ufficio. Jo fece accomodare l’altro alla scrivania e gli mostrò come richiamare il suo lavoro sul terminale del computer.
«Meraviglioso» disse Cavendish, con un sorriso.
«Ho anche un bollitore, se le va l’idea di bere tè americano.»
Il sorriso dell’inglese s’increspò. «In bustina? Jo annuì.» Se le serve qualcosa, io sono giù a pianterreno, nel Pozzo.
«Il Pozzo?»
«È il nome che i programmatori hanno dato al vano centrale dell’edificio.»
Cavendish aggrottò la fronte. «C’è anche il pendolo?»
«Il pendolo? Come negli orologi?»
«È un racconto di Edgar Allan Poe. Il pozzo e il pendolo.»
Scuotendo la testa, Jo ammise: «Non credo… Oh, aspetti, non era un film con Vincent Price?»
“Cultura americana” rifletté amaramente Cavendish.
Scambiarono qualche altra parola, poi Jo, soddisfatta di sé come una brava figlia, ridiscese le scale. Cavendish, contentissimo, giocò col computer per qualche minuto, finché il mal di testa non tornò con tutta la sua forza, e lui per poco non si abbatté sulla scrivania.
A Washington era quasi mezzanotte. Negli uffici dell’Ala Ovest della Casa Bianca, le finestre erano ancora illuminate. I monumenti nazionali erano uno sfavillio di luci, anche se le vie del centro erano deserte. Ai turisti veniva consigliato di non uscire di notte, e loro restavano negli hotel, finché l’alba non scacciava dalle strade delinquenti e prostitute.
Il palazzo modernissimo che ospitava il quartier generale della NASA era quasi completamente al buio. Solo in pochi uffici erano accese le luci. Uno di questi era l’ufficio del vicedirettore delle missioni spaziali con equipaggio umano, il dottor Kenneth Burghar.
Jerry White aprì la porta senza bussare e sorrise al suo superiore che, sommerso dalle carte, sedeva alla scrivania.
«Cristo, credevo di essere l’unico fesso dell’azienda a restare qui fin dopo mezzanotte» disse allegramente White.
«Tagli di bilancio» borbottò Burghar. «Vogliono toglierci altri venti milioni dal budget.»
Il sorriso di White si trasformò in una smorfia. «Okay, prenditi il mio braccio sinistro. Quello destro mi serve per firmare la ricevuta dei sussidi di disoccupazione.»
«C’è poco da scherzare, Jer.»
«Giuro su Cristo che mi piacerebbe poterla prendere sul ridere» ribatté White, serio.
Burghar scostò la poltroncina dalla scrivania, si appoggiò all’indietro, si sfregò gli occhi. La cravatta era scomparsa, le maniche della camicia erano arrotolate. Gli avanzi di un taglio di pizza decoravano un angolo della scrivania, assieme a una tazza di caffè bevuta a metà.
«Cosa ci fai qui a quest’ora?» chiese a White.
«Quello che ci fai tu.» White si accomodò sul divano in plastica. «Cerco di smaltire il lavoro di quelli che sono già stati licenziati.»
«A volte mi chiedo se ne valga la pena. Se non gliene frega niente al Congresso e a quelli dell’amministrazione, perché stiamo a rovinarci il fegato?»
«Perché siamo onesti, idealisti.»
«Già. Dovrebbero chiuderci tutti in manicomio.»
White scrollò le spalle. «Forse.»
«Non sarai venuto qui per discutere di misure fiscali, eh?»
«No.» White tolse dalla tasca della giacca un foglio di carta e lo passò al suo superiore.
«Cos’è?»
«È dell’Ufficio Ricerche Scientifiche e Tecnologiche. Sally Ellington e quei geni dell’Ala Ovest devono aver ricominciato a fumare erba.»
Burghar lesse la comunicazione. «Una missione con equipaggio umano a una distanza quattro volte superiore all’orbita della Luna? Che cavolo c’è sotto?»
«Lo chiedi a me? La Casa Bianca vuole che esaminiamo il problema e inviamo un rapporto, subito.»
Burghar sbuffò. «Grazie a Dio non ci chiedono i mezzi per la missione. Ci occorrerebbero dieci anni.»
«Ken, io non ho nemmeno il personale per fare questo studio! Dove trovo gli uomini disponibili per…»
«Il personale disponibile» lo corresse stancamente Burghar. «Sempre pronti agli ordini, ricordi? E quando la richiesta arriva dalla Casa Bianca, le persone “si trovano”.»
«Ma che senso ha? Parlano solo di una missione con equipaggio umano e bersaglio non specificato.»
Burghar scrollò le spalle. «Vogliono tenere il segreto. Probabilmente sarà per qualche operazione militare.»
«No, sarà solo un altro studio idiota che infileranno nei loro archivi a prendere polvere. Perché diavolo dovremmo farlo?»
«Cosa vuoi che ti dica?»
White si avvicinò al suo superiore. «Ken… C’è qualcosa. Sono corse voci. Si parla di una nave aliena nel nostro Sistema Solare. Potrebbe essere questo?»
Burghar si passò una mano nei radi capelli. «Vallo a chiedere a quelli del Comitato di Controllo. Con me non si sbottonano, però forse a te diranno tutto perché giochi meglio a tennis.»
«Sicuro. E Sally Ellington stravede per me.» White non rise. «Sul serio, Ken, che porcheria di studio posso preparare senza uomini disponibili? E a cosa servirebbe? Non abbiamo i mezzi per lanciare una missione con equipaggio umano a quella distanza!»
«Poco ma sicuro. Quindi, fai il solito studio del cavolo e invia il rapporto che vogliono, quando lo vogliono. Non crearti problemi.»
«Non è un’astronave aliena, eh?»
«Oh, merda» gemette Burghar. «Tra un po’ ti metterai a vedere i dischi volanti.»
«Okay, okay… Affiderò la richiesta di Sally ai potenti mezzi a nostra disposizione, con tutta la velocità del caso.»
«Bene. Ottimo. E impara a dire personale, non uomini. Risparmiami una predica, ti spiace?»
Cavendish continuò per un po’ a giocherellare con cibo e posate, poi si arrese. Le emicranie arrivavano a ondate, imprevedibili, e nulla sembrava poterle smorzare. Lo scienziato si era trascinato, barcollante, dall’ufficio di Jo al centro medico, e per due ore un giovane medico della marina lo aveva visitato.
«Spesso le emicranie sono provocate da stress emotivi» aveva detto il giovanotto, con un’aria da direttore delle pompe funebri. «Forse sta lavorando troppo.»
Cavendish aveva accettato la ricetta, l’aveva appallottolata e gettata nel primo cestino dei rifiuti all’esterno dell’edificio.
Non sarebbe servita a niente, lo sapeva.
Restò un attimo indeciso sui gradini del miglior ristorante dell’isola (gli scienziati gli avevano attribuito solo meno una stella), poi decise di fare un giro sulla spiaggia. Il mal di testa era scomparso, per il momento, ma il ricordo dell’emicrania aveva scatenato in lui un’antica paura che ora gli percorreva ogni nervo del corpo.
Il sole sfiorava l’orizzonte, sfera gigantesca di oro incandescente. Il cielo era di un color rame acceso, con poche nuvole oro e porpora sospese a ovest.
Cavendish si sentiva stanchissimo. Il suo corpo era un nucleo di dolore. Gli occhi gli bruciavano per la mancanza di sonno. Eppure, qualcosa lo costringeva a camminare sulla spiaggia. Procedeva lentamente, come chi cerchi un determinato posto senza sapere quale sia. Il sole scomparve; le ombre della sera coprirono il mondo.
Cavendish oltrepassò il molo, col passo automatico di una sentinella, di un automa; raggiunse il lato dell’isola affacciato direttamente sull’oceano, dove le scogliere erano vicine e la spuma dei marosi emergeva candida dalle tenebre.
Qualcuno sedeva sotto gli alberi della spiaggia. Qualcuno che lo attendeva.
«Buonasera» disse Maria Markova.
«Sì» rispose Cavendish.
Maria aveva ai piedi, aperta, la valigetta con l’apparecchiatura elettronica. La luce rossa splendeva nell’ombra.
«Rapporto.»
Senza esitazioni, Cavendish iniziò: «Alla riunione hanno partecipato il professor McDermott, l’accademico Zworkin, il dottor Thompson…»
Circa un’ora dopo, sedevano tutti e due sulla sabbia. Maria teneva la schiena appoggiata a un albero; Cavendish era a gambe incrociate. Era troppo buio per vedere il dolore nei suoi occhi.
«…e mi ha consigliato di consultare uno psicologo» terminò l’inglese.
Maria restò in silenzio per un po’, a riflettere. «Nient’altro?» chiese.
«No… A parte Schmidt.»
«Schmidt? L’olandese?»
«Sì. Corre voce che stia diventando drogato. Di sicuro c’è che in fatto di lavoro fino a oggi non ha fatto niente.»
«Mi parli di Schmidt. Mi racconti tutto quello che sa di lui.»
Cavendish ubbidì.
«Questo giovanotto potrebbe esserci utile» disse Maria quando lui ebbe terminato. «Si guadagni la sua amicizia. Giochi sul suo astio per gli americani. Gli faccia credere che è Stoner che gli sta rubando la gloria.»
«Stoner?»
Maria annuì nel buio. «Stoner. È lui che dobbiamo fermare. E Schmidt potrebbe essere il mezzo per fermarlo.»
«Io… non capisco» disse Cavendish.
«Non è necessario che lei capisca. L’importante è ubbidire.»
«Sì.»
«Benissimo» disse Maria. «Lei si è comportato bene. Ora può andare.»
«Sì.» Cavendish si alzò lentamente. Quando si trovò sotto il chiarore della luna, non più nascosto dall’ombra degli alberi, Maria vide per la prima volta la disperazione che faceva del viso del vecchio una mostruosa maschera di morte.
Maria trattenne il respiro. Maledicendosi per la propria debolezza, congedò Cavendish con un gesto quasi rabbioso. Rigido, distrutto, l’inglese se ne andò senza aggiungere parola.
Quando lei spense la macchina e chiuse la valigetta, le tremavano le mani. E la valigetta le parve più pesante che mai, mentre tornava al suo bungalow.