Ufficio del Senatore William Proxmire
Wisconsin
Per la pubblicazione dopo le 6,30 di giovedì 16 febbraio 1978.
Il senatore William Proxmire (Wisconsin) ha detto giovedì: «Ho intenzione di attribuire il mio premio “Vello d’oro del mese” alla NASA, che, sfruttando l’ondata di entusiasmo popolare per Guerre stellari e Incontri ravvicinati del terzo tipo, si propone di spendere nei prossimi sette anni dai 14 ai 15 milioni di dollari per trovare vita intelligente nello spazio. A mio giudizio, questo progetto dovrebbe essere rimandato per qualche milione di anni luce.
«Il premio ‘Vello d’oro’ viene attribuito ogni mese al preventivo di spesa maggiore e che sia, al tempo stesso, anche il più assurdo o il più ridicolo. Proxmire è presidente del Comitato Bancario, Fondiario e di Affari Urbani del Senato e del Sottocomitato Stanziamenti del Senato, che ha giurisdizione sui fondi della NASA.
«La NASA si propone di pagare quest’anno 2 milioni di dollari, e dai 14 ai 15 milioni nei prossimi sette anni, al Jet Propulsion Lab di Pasadena, California, per condurre ‘una ricerca intensiva, su ogni frequenza, di segnali radio provenienti da un’intelligenza extraterrestre’. Però questo è solo il primissimo passo. Sotto la denominazione ’obiettivi ulteriori’, le proposte del Jet Propulsion Lab indicano che lo scopo dello studio è costruire centri d’osservazione e infrastrutture tecnologiche che consentano in futuro programmi più ampi e più organici nel campo della RIET (Ricerca Intelligenze Extraterrestri).
«La verità, a mio giudizio, è che mentre il pubblico si appassiona così tanto ai fenomeni spaziali, la NASA si è talmente suggestionata da tentare di trasformare questo interesse popolare in un progetto a lunga scadenza, che costerà milioni di dollari, nella dubbia ricerca di un’intelligenza al di fuori del nostro Sistema Solare.
«Cos’ha di sbagliato il programma? Come tanti altri progetti estremamente costosi, è un programma a basso livello di priorità che, al momento, rappresenta un lusso che il paese non può permettersi.
«In primo luogo, per quanto la cosa sia teoricamente possibile, non abbiamo la minima prova dell’esistenza di vita intelligente al di fuori del nostro Sistema Solare. Eppure, i dirigenti della NASA specificano che il programma parte dal presupposto che esistano creature intelligenti che cercano di comunicare con gli scienziati terrestri. Se vincerà la NASA, questi fondi verranno spesi in un momento in cui tanti popoli del nostro pianeta (arabi e israeliani, greci e turchi, americani e russi, per citarne solo pochi) incontrano difficoltà enormi nel comunicare fra loro.
«In secondo luogo: e se anche da qualche punto dello spazio fosse stato lanciato un messaggio radio? Il nostro pianeta ha quattro miliardi e mezzo di anni, Alcuni sistemi solari hanno dai 10 ai 15 miliardi di anni. Se intercettassimo messaggi provenienti da questi sistemi, potrebbero essere stati inviati non solo prima che Colombo scoprisse l’America, o prima di Cristo, ma addirittura prima che esistesse la Terra. Il calcolo delle probabilità dice che se anche queste civiltà sono un tempo esistite, ormai saranno scomparse.
«In terzo luogo, la NASA non ha nemmeno scelto il progetto più economico. Un programma meno costoso e più specifico presentato dall’Ames Research Center (con un costo di 6,5 milioni di dollari in 7 anni) è stato scartato a favore del progetto del Jet Propulsion Lab, che prevede investimenti dai 14 ai 15 milioni di dollari. Comunque, per aggiungere la beffa al danno, la NASA ha detto al mio ufficio che potremmo preventivare il progetto Ames per l’anno fiscale 1980, in modo che entrambi i progetti diventino operativi contemporaneamente.
«In un momento in cui il paese ha di fronte un deficit di 61 miliardi di dollari, il tentativo di captare onde radio da altri Sistemi Solari dovrebbe essere rimandato al giorno in cui il bilancio nazionale sarà in pareggio e le imposte sul reddito e le ritenute pensionistiche si ridurranno a zero.»
Edouard Reynaud sorseggiò il quarto brandy e spinse il più possibile all’indietro la poltrona. Gli sembrava di essere chiuso da sempre sull’aereo: Roma, Amsterdam, New York, San Francisco, Honolulu, e adesso… Si sarebbe mai fermato? Era quello il purgatorio, forse? Un millennio o due trascorsi in una scatola di metallo dove non si poteva fare nient’altro che mangiare, dormire, orinare, defecare?
“È come essere tornato bambino” pensò, assopito dal brandy. “In una nursery volante, ecco dove ci hanno messi. E gli steward sono le bambinaie.”
Stava lottando contro il sonno.
Sapeva che, se si fosse rilassato, si sarebbe addormentato; e col sonno sarebbero giunti i sogni paurosi, gli incubi delle sue colpe, a meno di non avere nel sangue il tasso indispensabile di alcol. Così, beveva un brandy dopo l’altro, facendosi riempire di continuo il bicchiere.
Il giovane angelo biondo sul sedile accanto dormiva con aria innocente, la bocca leggermente aperta, il respiro calmo e regolare come le onde del mare.
Reynaud soffocò il desiderio di toccargli il viso dolce, di carezzare il mento imberbe.
Si girò verso il finestrino, a guardare il cielo scuro, stellato. Riconobbe Orione, il Toro, i due Cani. Sì, tutto era al solito posto, come sempre. Nelle profondità di quel cielo infinito, nuove stelle nascevano e vecchie stelle venivano distrutte da esplosioni titaniche. Le galassie ruotavano nel buio e le quasar ardevano con una forza che nessuna mente umana era in grado di comprendere.
«Per quanto tempo» sussurrò Reynaud fra sé «custodirete i vostri segreti? Se è stato Dio a crearvi, quando l’ha fatto? E come?»
Non gli venne in mente di chiedere perché. Quello era un interrogativo da teologi. Reynaud era un cosmologo.
Vide la propria immagine riflessa nel finestrino dell’aereo, e s’incupì. Un viso grosso, tondo, su un corpo grosso, tondo. Guance cadenti e occhi gonfi, iniettati di sangue. Un uomo che aveva cercato rifugio nella vita monastica quando il mondo gli era diventato insopportabile, e che era riuscito a restare grasso, e alcolizzato, che di tanto in tanto riusciva a ricadere nell’omosessualità, nonostante tutti i controlli e le punizioni che l’Abate aveva in serbo per lui.
Reynaud sorrise amaramente al ricordo del viso dell’Abate, quando l’inflessibile priore del monastero era stato informato che il papa in persona voleva vedere Reynaud.
«Cosa voglia Sua Santità da te è al di là della mia comprensione» aveva detto l’Abate, il viso arcigno distorto da una smorfia, lo sguardo in fiamme. «Se il Vaticano avesse ritenuto opportuno chiedere la mia opinione su questa faccenda, tu passeresti il resto dei tuoi giorni a pulire stalle, perché è quello che ti meriti.»
Reynaud aveva annuito; era d’accordo.
Ma il Vaticano aveva chiesto di lui, di Reynaud, del famoso cosmologo insignito del Nobel. “Quello che avranno” disse al riflesso nello specchio “è Reynaud l’ubriacone, il pervertito, solo le macerie dell’uomo che pensano di avere.”
Il ragazzo al suo fianco si mosse, sospirò dolcemente, aprì gli occhi azzurro cielo.
«Hai dormito bene?» gli chiese Reynaud in francese.
Il ragazzo rispose in una lingua germanica, e Reynaud ricordò che era salito ad Amsterdam.
Scuotendo la testa, gli chiese: «Parli inglese?»
«Sì.» Il ragazzo sorrise. Sentendosi molto vecchio e molto, molto stanco, Reynaud gli restituì il sorriso.
«Mi chiamo Hans Schmidt. Vengo dall’università di Leida.»
Annuendo piano, Reynaud disse: «Edouard Reynaud. Non lavoro per nessuna università, però ero…»
«Edouard Reynaud!» Il ragazzo spalancò gli occhi. «Ho letto i suoi libri!»
Reynaud scrollò le spalle. Si sentiva un relitto del passato, ridicolo nel completo nero informe, ed era imbarazzato per non essersi fatto la barba. «Li ho scritti tanto tempo fa. Oggi sono tutti superati.»
«Sì, certo» rispose Schmidt, con la crudeltà incosciente della gioventù «però sono classici nel loro campo. Abbiamo dovuto leggerli tutti, all’università.»
«Sei astronomo?»
L’entusiasmo di Schmidt si trasformò in cupezza, «Lo ero» disse, imbronciandosi. «Adesso sono un prigioniero.»
«Lo siamo tutti» disse Reynaud. «Ma non preoccuparti, tra poco l’aereo atterrerà a Kwajalein e potremo camminare sotto la luce del sole.»
«Non capite» disse il ragazzo, «Gli altri che stanno sull’aereo, astronomi e astrofisici di tutta Europa, si sono offerti volontari per il progetto. Sono contenti di andare a Kwajalein a studiare i segnali alieni.»
«E tu no?»
Schmidt scosse lentamente la testa, «Io “ho scoperto” i segnali radio. Ma è un merito che non mi verrà mai riconosciuto.»
Reynaud accennò un gesto di comprensione.
«Lavoravo per il professor Voorne al grande osservatorio di Dwingeloo, l’estate scorsa. Ho captato i segnali prima degli americani e di tutti gli altri» spiegò Schmidt, in tono quasi scontroso. «Abbiamo controllato i dati; i segnali li ho captati io per primo.»
«Allora il riconoscimento spetta a te» disse Reynaud.
«Sì, facile! Voorne a talmente lento è arretrato d’idee che si lascerebbe fregare da chiunque. Mi ha rifiutato il permesso di inviare una comunicazione alla rivista d’astrofisica finché non abbiamo ricontrollato tutto tre volte. Dopo di che sono arrivati i burocrati della NATO e hanno dichiarato top secret tutte le mie carte. Non mi hanno permesso di pubblicare niente.»
«Un vero peccato» disse Reynaud.
«E adesso mi mandano in esilio su questa maledetta isola. Io non voglio andarci! Mi hanno costretto! A Leida ho la ragazza; dovevamo fidanzarci tra qualche settimana. Ma il governo mi ha detto: o vai a Kwajalein, oppure ti arruoliamo nell’esercito e ti spediamo a Kwajalein lo stesso.»
Reynaud scosse la testa.
«Sono gli americani» borbottò Schmidt. «Ci sono dietro loro. Vogliono tenersi tutto il merito ed essere sicuri che a me non venga nessun riconoscimento.»
Reynaud strinse le labbra, poi ribatté: «Non credi che il fatto di scoprire una razza extraterrestre intelligente sia la cosa più importante?»
«Certo! È per questo che gli americani vogliono tutto il merito della scoperta.»
«Be’… Anche a me hanno ordinato di andare a Kwajalein. Non avevo nessun desiderio di partire, ma i miei superiori mi hanno mandato lo stesso. Ecco perché sono su questo aereo. Siamo tutt’e due nella stessa situazione. Però io non credo che sia stato un complotto degli americani.»
Schmidt non disse nulla.
«È stato il Santo Padre in persona ad affidarmi questa missione» aggiunse Reynaud.
«Il papa?»
«Sì.»
«Perché gli interessa l’astronomia?»
Reynaud fece una risata amara.
«Non gli interessa. E nemmeno ai cardinali che gli stanno attorno. A loro interessa solo conservare il potere, e nascondere la verità alla gente.»
Schmidt lo fissò incredulo. «Siete prete e dite queste cose?»
«Prete? Io? Oh, no! Non sono prete. Non sono nemmeno monaco, in effetti. Non ho preso i voti.»
Confuso, Schmidt disse: «Credevo… Ci avevano detto che vi siete ritirato in un monastero…»
«Sì. Sì, è vero. Ma Sua Santità mi ha strappato al mio ritiro. Sono di nuovo nel mondo… Ed è un mondo molto diverso da quello che ho lasciato anni fa.»
I due continuarono a parlare mentre la notte moriva in cielo e il sole si alzava sulle acque grigie e sterminate del Pacifico. Gli altri passeggeri si svegliarono poco per volta, si stiracchiarono i muscoli indolenziti, sbadigliarono, mugugnarono, si affollarono nelle toilette dell’aereo.
Gli steward entrarono in azione, sbarazzando i passeggeri di coperte e cuscini. Alla fine, portarono vassoi di plastica con la colazione. Reynaud non ebbe nemmeno il coraggio di guardare la roba che gli misero davanti: era grigia e morta, di plastica come i vassoi su cui era servita.
Il pilota s’inserì sull’intercom e annunciò allegramente che nel giro di poche ore sarebbero arrivati a Kwajalein.
«Se riesco a trovare l’isola» aggiunse, con un sogghigno.
Reynaud rabbrividì un poco. Guardò Schmidt, che aveva mangiato la colazione fino all’ultima briciola e aveva chiuso di nuovo gli occhi. Depresso, Reynaud scosse la testa e si girò a guardare la distesa grigia e informe dell’oceano sotto di loro. Gli sarebbe piaciuto riuscire a dormire senza sognare.
Si svegliò di colpo, boccheggiando, ai sobbalzi che scuotevano l’aereo.
«È il carrello d’atterraggio» gli disse Schmidt. «Stavo per svegliarla…»
Reynaud lo ringraziò e guardò dal finestrino. Un anello di isolette spiccava, verde e bianco, sul mare.
L’aereo sorvolò l’isola più grande e alla fine atterrò con un impatto notevole: sembrava più un atterraggio di fortuna ben condotto che altro. Ma Reynaud era sempre riconoscente anche per i miracoli minimi: il purgatorio era finito, adesso poteva entrare in paradiso.
Gli scienziati vennero fatti scendere, si trovarono sotto il sole caldo e accecante dell’isola equatoriale. L’aeroporto rigurgitava di americani, molti in divisa militare cachi, gli altri in maglietta e calzoncini.
Giovanotti dalle spalle larghe, sorridenti ed efficienti, guidarono gli scienziati lungo una rampa che un tempo era una barriera corallina, sino a un edificio in cemento. Il condizionamento d’aria era tanto forte da dare i brividi. “Americani” pensò Reynaud. “Sempre così stravaganti.” Vennero controllati i documenti, raccolti i bagagli. Reynaud si lasciò trascinare su una jeep con Schmidt e un altro. «I bagagli arrivano col camioncino» disse l’autista, un marinaio dall’aria energica. Poi sistemò Reynaud sul sedile accanto al suo; gli altri due salirono dietro.
Accendendo il rumorosissimo motore, il marinaio chiese: «Siete un prete cattolico, signore?»
«No» rispose Reynaud, in inglese. «Sono un fratello laico dell’Ordine di san Domenico.» “L’ordine di San Tommaso d’Aquino” aggiunse fra sé. “E di Torquemada.”
La jeep s’avviò. «Oh, sa, me lo sono chiesto per via del vestito nero» urlò l’autista, fra i rombi del motore. «Sull’isola abbiamo un cappellano, ma non è cattolico. Il padre cattolico viene qui in aereo da Jaluit tutte le domeniche, per confessare e dire la messa.»
«Lei è cattolico?» chiese Reynaud; poi, quando la jeep cominciò a sobbalzare sulla strada polverosa, si aggrappò all’orlo del sedile.
«Ah, be’, a volte sì» balbettò il marinaio. «Sa com’è.»
Reynaud non parlò, ma pensò: “So perfettamente com’è”.
Dopo qualche terrificante minuto di una corsa folle a lato di edifici in cemento, l’autista bloccò la jeep sul ciglio della strada con una frenata brusca, stridente.
«L’Hilton di Kwajalein» annunciò.
Reynaud vide un edificio grigio, a tre piani.
«Alloggi Ufficiali Scapoli» spiegò il marinaio, mentre una nuvola di polvere corallina volteggiava sulla jeep. «In genere qui li chiamano AUS. Non voi, padre…» Tirò Reynaud per la manica e disse a Schmidt e all’altro scienziato: «Voi due starete qui.»
I due scesero; Reynaud restò seduto.
«I bagagli vi arriveranno tra un paio di minuti.» Il marinaio fece ripartire la jeep, seppellendo i due di polvere. «Per lei trattamento speciale, padre. C’è una casa su ruote tutta per lei.»
«Non sono un prete» disse Reynaud. «Dovrebbe chiamarmi fratello.»
L’autista fece una risata imbarazzata. «È buffo. Ma se proprio preferisce così… Okay. Fratello, eccoci arrivati.»
Fermò la jeep e indicò con aria soddisfatta una casa su ruote: ce n’erano una dozzina disposte in fila sul terreno sabbioso, grumi di metallo lucido sotto il sole caldo.
«Tutta per lei, pa… Ehm, fratello.»
Il marinaio entrò in casa con Reynaud, gli mostrò il lavandino e il frigorifero, i lettini piccoli come cuccette, gli armadietti incorporati, la toilette.
«Per la media di Kwaj, è il Ritz.»
Reynaud annuì, mormorò un ringraziamento. Il marinaio sorrise e accese il condizionatore.
«Le lenzuola sono qui.» Aprì un cassetto dell’armadio. «Se vuole, le preparo il letto.»
«Oh, no, grazie. Lo farò da solo.»
«Be’, ha la sua privacy e l’acqua corrente. Cosa potrebbe chiedere di più? Ci vediamo domenica, a messa.»
Reynaud annuì distrattamente quando il marinaio uscì, chiudendosi alle spalle la sottile porta di metallo. Gli parve che se ne fosse andato un cuccioletto simpatico. Reynaud restò immobile, sconvolto; ascoltò il condizionatore d’aria che ronzava, e riempiva il locale di un gelo simile a quello di un obitorio.
“Esiliato” pensò. “L’ha detto il giovane Schmidt, e ha ragione. Siamo stati tutti mandati in esilio in questo posto orribile. Io ho cercato la pace e la protezione del monastero e il papa in persona mi ha scacciato, mi ha esiliato su quest’isola infame. Qualunque cosa sarà di me, è colpa loro.”
Stoner uscì dal gelo dell’aria condizionata dell’amministrazione e si trovò nell’abbraccio caldo del sole al tramonto. Il clima era afoso, ma il caldo gli dava una sensazione piacevole dopo la secchezza dell’aria dell’ufficio, e dopo l’ostruzionismo di McDermott.
“Fatti una bella passeggiata” si impose Stoner, furibondo. “Trovati un angolo deserto sulla spiaggia e fai un’oretta di esercizi, prima di tirare un pugno alla faccia stupida di Big Mac.”
McDermott stava temporeggiando per la missione di rendezvous. Non aveva ancora raccomandato l’idea a Washington, e non voleva permettere a nessun altro di inviare la raccomandazione. Stoner aveva trascorso un’ora a discutere con lui, senza risultati.
“Perché il progetto non gli va?” si chiese Stoner per la ventesima volta. “Perché diavolo non può…?”
Poi vide Jo: uscita dal centro computer, stava percorrendo l’unica strada dell’isola, nella sua direzione.
«Ciao, Keith» gli disse allegramente. «Come…?» Vide l’espressione rannuvolata sul viso di lui. «Wow! Chi ti ha pestato i calli?»
«Il tuo amico McDermott» mugugnò Stoner.
In volto di Jo si contorse per la rabbia. «Il mio amico, eh? Cosa sta combinando?»
«Le solite puttanate. Tira in lungo finché non sarà troppo tardi per fare quello che va fatto.»
Lei gli lanciò un’occhiata ironica. «Dev’essere il caldo. Big Mac è spompato.»
Ignorando i sottintesi, lui borbottò: «Anche a me piacerebbe spomparlo. Completamente.»
«Non ha ancora accettato l’idea del rendez-vous?» chiese Jo.
«Non vuole nemmeno parlarne con Washington.»
«Be’, è un’impresa un po’ balorda.»
«Siamo qui per entrare in contatto con un visitatore extraterrestre intelligente, e mi parli di imprese balorde?»
«Tu prendi tutto troppo sul serio» disse Jo, alzandosi in punta di piedi a battergli un dito sul naso. «Rilassati. Calmati. Visto che siamo qui, potremmo anche godercela.»
Lui allontanò la mano della ragazza, quasi fosse un insetto noioso. «Siamo qui per entrare in contatto con quella nave.»
«Lo so.»
«Che figura ci facciamo se quella maledetta cosa sfiora il nostro pianeta e se ne va?»
«Non succederà» disse Jo.
«Tu hai già predisposto tutto, eh?»
«No.» Lei scosse la testa. «Però ti conosco. Riuscirai a farcela, in un modo o nell’altro. E farai fare una bella figura anche a Mac.»
«E la tua carriera non ne risentirà, eh?»
«Perché credi che sia qui?»
«Perché ti ha portata Mac» sbottò Stoner.
Per un attimo, lei parve triste, ferita.
«Se solo tu sapessi» disse dolcemente.
«Un giorno o l’altro dovrai parlarmene. Anzi, meglio ancora, mettilo nel tuo curriculum. Vedrai come s’impressioneranno alla NASA.»
«Keith, quando vuoi diventi un figlio di puttana perfetto, lo sapevi?»
«È il caldo. Mi ha spompato.»
«Vai all’inferno.»
«Non dirmi che non hai già riscritto il tuo curriculum. Lo so come funziona il tuo cervellino ambizioso.»
«Credi?»
«Ma sicuro. Me lo vedo già, in cima al foglio, dove si fa l’elenco dei fatti salienti: “Assistente ricercatrice al PROGETTO JUPITER. Ho lavorato con un gruppo di ricerca internazionale, coi migliori scienziati del mondo, a un programma a priorità assoluta per stabilire il primo contatto con una forma di vita intelligente extraterrestre”.»
Con un sorriso soddisfatto, Jo disse: «Splendido. Quante ragazze possono mettere una cosa del genere nel loro curriculum vitae?»
«Pensavo che voleste farvi chiamare donne, non ragazze.»
«“Io” posso dire ragazze» ribatté Jo. «Voi maschi dovete chiamarci donne.»
«Già» disse lui, secco. «Logico.»
Facendosi seria, Jo chiese: «Keith, non ce l’hai più con me, vero?»
«Vai ancora a letto con Big Mac?»
«Oh, Cristo! Non lo capirai proprio mai?»
«Io ti ho già capita, Jo.»
La ragazza strinse i pugni, frustrata.
«Non me ne importa un accidente di Mac! Questo non lo capisci?»
«Certo che lo capisco» rispose lui, gelido, invaso dalla rabbia. «E per questo che è una faccenda così sporca.»
Jo fece per ribattere, esitò, lasciò cadere le mani lungo i fianchi. Senza un’altra parola, si rimise in cammino verso gli uffici dell’amministrazione.
“Verso McDermott” si disse Stoner, mentre sulla strada polverosa, la guardava allontanarsi.