18

Se la luce di mille soli apparisse improvvisamente in cielo, quello splendore sarebbe paragonabile al fulgore dello Spirito Supremo.

Bhagavad-Gita, 11:12


Il segretario generale, con aria triste, guardò dal finestrino della sua limousine il mattino grigio, nevoso.

«Tu sai» disse con voce bassa, cupa «che io sto morendo.»

Georgi Borodinski boccheggiò. «Compagno segretario! Non dovete dire cose simili.»

Il segretario generale si girò a fissare il suo assistente. Tutt’e due portavano pesanti cappotti scuri e cappelli di pelo, nonostante la limousine fosse riscaldata.

Con un sorriso stanco, il segretario generale chiese: «Perché no? È la verità.»

«Comunque…»

«Hai paura che ci siano microfoni sulla macchina? I miei potenziali eredi potrebbero diventare un po’ troppo ansiosi e tentare di risparmiarmi ogni dolore, eh?» Il segretario generale rise con un suono secco, rauco.

Borodinski non rispose, In base agli standard dell’élite del Cremlino, era ancora un uomo giovane: era poco oltre la cinquantina, i capelli che gli restavano erano ancora castani, e la sua carne ancora soda. Aveva acquisito una posizione di rilievo tra i funzionari di partito grazie a un lavoro continuo e caparbio, tutt’altro che spettacolare, privo di fantasia e, apparentemente, d’ambizioni. Però, vent’anni prima, aveva riconosciuto la possibilità di fare carriera che gli si presentava, e si era attaccato con tutta la fedeltà di un servo leale all’uomo che adesso era segretario generale del partito e presidente dell’Unione Sovietica.

Ora, Borodinski aveva l’opportunità di diventare a sua volta segretario generale, se fosse riuscito a sopravvivere all’inevitabile lotta che sarebbe seguita alla morte del suo padrone.

«Lo sai perché stiamo viaggiando nel freddo e nella neve, anziché restarcene al caldo nel mio ufficio?» chiese il segretario generale.

«Credo di sì» rispose Borodinski.

Indicando l’autista dall’altra parte del vetro divisorio a prova di proiettile, il segretario spiegò: «Un tartaro, originario della zona oltre il lago Baykal. Controlla la macchina tutti i giorni, prima che io salga. Siamo al sicuro da orecchie indiscrete.»

«Sì.»

«Debbo vivere come un antico imperatore romano, circondato dalle mie guardie di palazzo… Tutti stranieri, barbari, fedeli personalmente a me e a nessun altro, o nient’altro. Una sistemazione stupenda per il capo di uno stato marxista, no?»

«Ogni grande leader ha i suoi nemici, compagno segretario. All’interno e all’esterno del paese.»

Le sopracciglia folte del segretario si inarcarono. «Ma se al Cremlino sono tutti buoni marxisti, perché dovrei avere bisogno di protezioni simili?»

Borodinski capì dove voleva arrivare il segretario. «Non sono tutti buoni marxisti. Anche alcuni membri del Presidium e del Consiglio Interno hanno i loro… difetti.»

Il segretario annuì, truce. «Ora» disse «per questa ultima offerta del presidente americano…»

Stupito dal cambiamento improvviso di discorso, Borodinski ribatté senza riflettere: «Questo cosa c’entra con…?»

Il segretario generale batté la mano sul ginocchio dell’altro e rise di cuore.

«Non capisci, eh? Tu devi ancora imparare alcune cose sull’arte di governare.»

La risata si trasformò in una tosse insistente. Borodinski si irrigidì, sommerso da ondate di tristezza e paura. E d’impazienza. Ma aspettò, immobile, che il suo padrone vincesse la battaglia e riprendesse a respirare normalmente.

«Stavo dicendo» riprese il segretario generale, dopo essersi asciugato labbra e mento con un fazzoletto di lino «che il presidente americano ha fatto quella che sembra un’altra offerta generosa.»

Borodinski annuì. «Ci ha invitati a mandare un gruppo di nostri scienziati alla loro base nel Pacifico. L’atollo di Kwajalein, giusto?»

«Sì» disse il segretario. «Stando a tutte le informazioni disponibili, l’offerta americana sembra sincera. Il loro presidente vuole usare questa… questa astronave aliena come simbolo per creare legami di collaborazione più forti tra i nostri due paesi.»

«Nonostante tutto quello che hanno fatto negli ultimi anni?»

«Forse proprio “per” quello che hanno fatto negli ultimi anni. Forse sono arrivati a capire l’inutilità della loro cosiddetta “politica dura”.»

Borodinski meditò sull’ipotesi per un attimo, poi chiese: «Accetterà l’offerta?»

Chinandosi verso il suo assistente, il segretario disse: «Tu cosa faresti?»

Era un test, capì Borodinski, un test per decidere se luì fosse in grado di assumere la carica del suo padrone. Ricacciò la paura che gli salì in gola, respinse in fondo al cuore l’ambizione che da sempre ardeva in lui.

«Ci sono forti opposizioni all’interno del Presidium» rispose lentamente. «L’idea di collaborare coi capitalisti potrebbe provocare amari risentimenti tra i nostri compagni più conservatori.»

«Gli stessi compagni che hanno insistito perché entrassimo in Afghanistan» borbottò il segretario «senza pensare a quanto sia difficile uscirne.»

«Ci hanno procurato molte difficoltà, è vero» disse Borodinski.

«E» fece notare il segretario «esistono forti pressioni all’interno del Presidium perché accettiamo l’offerta degli americani.»

Borodinski annuì, si lisciò la barbetta a punta alla Lenin, «Ho saputo che anche le Nazioni Unite sono interessate al programma americano. E, senza dubbio, porteranno con sé anche i cinesi.»

«Quindi, se rifiutassimo di collaborare ci troveremmo completamente isolati, giusto?»

«Ma se collaboriamo, alcuni dei membri più influenti del Presidium s’infurieranno. Per non parlare dell’esercito.»

Il segretario generale gli rivolse un sorriso affettato. «Un bel problemino, vero? Tu come lo risolveresti?»

Borodinski s’immerse in riflessione. La limousine correva nel silenzio grigio e nevoso del mattino, oltre gli edifici e le case della grande Mosca, molto oltre la portata dei microfoni direzionali sistemati sui tetti e dei rilevatori laser capaci di registrare conversazioni dalle vibrazioni che i suoni producono sui finestrini di un’auto in movimento.

Alla fine, Borodinski disse: «Penso che l’unica alternativa sia accettare l’offerta degli americani. Diversamente, resteremmo indietro rispetto a loro e agli altri. Potrebbero ottenere quantità enormi di informazioni da questa astronave…» Aveva altre cose da aggiungere, ma l’espressione compiaciuta sul viso del segretario generale gli disse che era il momento di fermarsi.

«Decisione saggia, onesta, lungimirante.» Il vecchio gli batté la mano sul ginocchio. «Adesso permettimi di offrirti una lezione di politica.»

Borodinski raddrizzò la schiena.

«Io sto per morire, compagno. I dottori l’hanno confermato. Al Politburo e al Presidium lo sanno tutti. È un frangente pericoloso per me… E per te.»

Borodinski annuì: temeva che, se avesse parlato, la sua voce potesse vacillare.

Il segretario chiuse gli occhi per un attimo. Poi: «Tu hai fatto notare, molto giustamente, che se accettiamo l’offerta di collaborazione degli americani qualcuno dei nostri compagni più conservatori s’infurierà. La loro rabbia potrebbe arrivare al punto di spingerli a… insomma, cercare di affrettare la mia scomparsa.»

«Non oserebbero mai!»

«Oh, sì che oserebbero» lo assicurò il segretario, con un sorriso acido. «Non sarebbe la prima volta che un capo del Cremlino arriva prima del tempo alla tomba. Non è che questo sia successo solo agli zar. Però, compagno» proseguì il segretario «supponiamo di preparare una piccola rete per queste teste calde, una piccola trappola che ci permetta di accusarli di tradimento, eh? In questo caso, ripuliremmo il Cremlino degli elementi sbagliati e io potrei vivere in pace i giorni che mi restano, perfettamente al sicuro da traditori e assassini.»

Borodinski si lisciò di nuovo la barba. «Quindi, la decisione se unirci o meno agli americani negli studi sull’astronave aliena…»

«È l’esca della nostra trappola, ovviamente.»

«È… assolutamente brillante! Per forza siete rimasto a capo della nazione per tanti anni.»

Il segretario si concesse un sorriso veloce. «C’è anche qualcosa d’altro.»

«Sì?»

«Se entreremo in contatto con un’altra razza di creature intelligenti, voglio che accada finché io sarò in vita. Anzi, sarebbe il coronamento ideale per la mia carriera se l’Unione Sovietica riuscisse a effettuare questo contatto “da sola”, senza l’aiuto dell’Occidente.»

«Ma come…?»

«Ecco cosa faremo.» Il segretario generale si protese verso il suo assistente. Gli era talmente vicino che Borodinski sentiva l’odore di medicinali nel fiato del vecchio.

«Manderemo un piccolo gruppo di scienziati su quell’isola. Lavoreranno con gli americani. Tra loro, naturalmente, ci sarà qualche nostro agente. Legato a noi. A me.»

«Vedo. Certo.»

«Mentre gli scienziati studiano l’astronave, noi prepareremo uno dei nostri missili più potenti, in modo che possa partire per incontrarsi con la nave aliena in avvicinamento.»

«Ahhh, ora vedo…»

«I nostri scienziati a Kwajalein avranno la responsabilità di tenerci informati di continuo. Se e quando arriverà il momento propizio, invieremo cosmonauti incontro all’astronave aliena.» Il segretario s’interruppe, trasse un respiro faticoso. «Oppure…»

«Oppure?» chiese Borodinski.

«Oppure faremo esplodere la nave aliena con una bomba all’idrogeno, se sarà necessario.»

Borodinski fu colpito da un’ondata di shock.

Il viso del segretario generale era terribilmente serio. «È questa l’unica cosa che gli scienziati non capiscono. Quegli alieni potrebbero essere ostili. Dobbiamo tenerci pronti a difenderci.»

«Ma… È solo una nave.»

«No, compagno.» Il segretario generale scosse la testa. «È solo “la prima” nave.»


«Dove?» chiese Markov.

«Kwajalein» rispose Maria, «È un’isola in mezzo all’Oceano Pacifico, mi dicono.»

«E ci mandano lì? Perché?» Markov percorse con lo sguardo l’ambiente familiare del loro soggiorno: le librerie, le comode poltrone, la vecchia lampada in ottone che aveva recuperato a casa di sua madre, l’albero davanti alla finestra.

«Prima mi mandano in quel centro di ricerca sperduto, e adesso… Dove hai detto che è?»

«Kwajalein» ripeté Maria, secca. Era ancora in uniforme, ma reggeva tra le braccia due sacchetti di carta gonfi di cibarie. Non li aveva nemmeno appoggiati sul tavolo, prima di informare il marito della novità.

«No» protestò Markov, con la testa che gli ronzava. Afferrò una sedia e piombò a sedere. Sua moglie restò in piedi coi sacchetti. «Non posso andarci. A me non piace viaggiare, Maria Kirtchatovska, glielo devi far capire. Io voglio restarmene qui, a casa…»

«Ah» disse lei.

Lui alzò gli occhi sulla donna.

Maria s’avviò in cucina, pestando forte con gli stivali per scrollare via la neve.

«Vuoi restartene a casa» lo canzonò lei, con voce stridula, cantilenante. «Però stanotte non eri a casa. Non c’eri nemmeno stamattina quando sono uscita per andare al lavoro.»

«Non ero su un’isola tropicale, però» urlò Markov.

«E dov’eri?»

«Nel mio ufficio. Ho dovuto lavorare fino a tardi. Ho dormito su un divano. Sempre meglio che tornare qui con tutta quella neve. Gli autobus dopo mezzanotte si fermano, lo sai.»

«Hai dormito sul divano» borbottò Maria dalla cucina. «Con chi?»

«Con un volume di fiabe armene che devo tradurre prima della fine del semestre!» sbottò lui. «I tuoi superiori mi hanno tenuto occupato per settimane, però non hanno assunto nessuno per fare il mio lavoro.»

Maria apparve sulla porta della cucina, con un sacchettino di cipolle in mano. «Sei rimasto per tutta la notte con qualche vacchetta. Quando sono tornata, ti ho chiamato in ufficio.»

Markov si costrinse a sorriderle. «Maria, credimi, non puoi fregarmi così facilmente. Sono rimasto in ufficio tutta notte. Tu non hai telefonato.»

Lei lo fissò per un lungo momento.

«C’ero davvero, Maria» disse Markov. «Solo.»

«Ti aspetti che io ti creda?»

«Certo. Ti ho mai mentito, cara?»

Il viso di lei si contorse in una frustrazione inesprimibile a parole. Maria scomparve in cucina. Markov la sentì aprire armadietti, sistemare scatole di cibo.

Romperà qualcosa, pensò. Con un sospiro, si alzò e andò in cucina.

«Kwajalein?» chiese.

Sua moglie, in punta di piedi, stava sistemando vasi di rape in salamoia nell’armadietto sopra il fornello. Senza girarsi, gli rispose: «Kwajalein. Sì.»

«Ti do una mano.» Markov s’infilò nel poco spazio tra frigorifero e fornello, prese un paio di scatole da sistemare sui ripiani più alti.

«Quelle no!» Maria gli strappò le scatole di mano. «Vanno qui.»

Lui restò a guardarla mentre sistemava le riserve di cibo come preferiva; poi accettò da lei altre due scatole, le mise sul ripiano più alto e chiese: «Perché devo andare a Kwajalein? Perché non posso restare qui a casa?»

«Bulacheff ti ha chiesto esplicitamente. L’Accademia invierà un gruppo ristretto di scienziati per studiare con gli americani l’astronave aliena.»

«Viene anche Bulacheff?»

«No.»

«Come pensavo.»

«Ma tu partirai.»

Markov appoggiò il corpo magro agli sportelli della dispensa. «Ma io non ho nulla da offrire ai loro studi! Non ne abbiamo già discusso un’altra volta?»

«Ci sarà l’astronauta americano, Stoner.»

«Ah. Il mio corrispondente.»

«Esatto. Ti conosce di fama. È per questo che Bulacheff ha scelto anche te.»

«Non avrei mai dovuto scrivere quel libro» mormorò Markov.

«Sei un esperto a livello internazionale di linguaggi extraterrestri.»

«Cioè di nulla, in parole povere.»

«E farai parte del gruppo di scienziati sovietici che andranno a Kwajalein per lavorare con gli americani allo studio di questo visitatore alieno.»

Markov, depresso, scosse la testa. «Maria, io voglio solo restare qui a Mosca. A casa. Con te.»

Lei gli scoccò un’occhiata sospettosa. «Su questo puoi stare tranquillo. Verrò anch’io a Kwajalein con te.»

«Vieni anche tu!» Markov era stupefatto.

«Certo. Tu sei troppo importante per poter uscire dall’Unione Sovietica senza scorta.»

«Oh, andiamo, Maria, i tuoi superiori hanno tutta questa paura che io possa chiedere asilo in Occidente? Non sono mica un ballerino.»

«È per la tua sicurezza.»

«Naturalmente.»

«Naturalmente!» sbottò lei. «Non credi che mi importi la tua sicurezza?»

Markov si passò le mani sulla camicia, in cerca di un pacchetto di sigarette. «Credo che tu pensi ai guai che vi darei se decidessi di chiedere asilo politico.»

«E a te interessa solo trovare qualche vacchetta da sedurre!»

Lui alzò la testa. «Maria Kirtchatovska, ti ho detto che stanotte ero solo in ufficio.»

«Sì, me l’hai detto.»

Markov tornò in soggiorno. Le sigarette erano sul tavolino accanto alla sua poltrona preferita.

«Però non mi hai detto» disse Maria, tenendogli dietro come un bulldog implacabile «che quella studentessa con gli occhi bovini del centro di ricerca ti ha seguito a Mosca.»

«Cosa? Di cosa stai parlando?»

«Di quella puttana della Vlasov… Quella che ti portavi a letto al centro di ricerca.»

«Sonya?» Markov si sentì dilaniato tra gioia e timori. «È a Mosca?»

«Ma guardati!» urlò Maria. «Hai già un’erezione!»

Lui scosse la testa. «Maria, non capisci. Quella ragazza non significa niente per me. È solo una bambina molto vivace.»

«Pronta a toglierti i pantaloni ogni volta che glielo chiedi» disse Maria.

Con un sospiro, Markov ribatté: «Maria Kirtchatovska, tu mi conosci troppo bene. Non so resistere. Sonya mi si butta addosso. È dotata di una grossa carica vitale, è piuttosto graziosa.»

“E giovane” aggiunse fra sé Maria. Posò lo sguardo sullo specchio al lato opposto della stanza. Si guardò: era piccola e tozza, pallida, quasi cerea, con un viso a patata. L’immaginazione la spinse a “vedere” il marito con la florida ragazza che aveva trovato nel suo letto.

«Non sarai più costretto a resisterle» disse Maria, con voce bassa, velenosa. «Non tornerà all’università. È in viaggio verso una fabbrica dell’Ucraina, dove imparerà l’arte di riparare le trattrici agricole.»

Markov restò a bocca spalancata. «Cos’hai…?»

«E tu verrai a Kwajalein, con me» disse Maria.

Il viso di lui s’imporporò. «Donna, hai esagerato!» ruggì; e le si scagliò addosso, la mano alzata, pronta a colpire.

Maria, però, non si spostò. «È troppo tardi perché tu possa intervenire» disse. «È già tutto fatto. E adesso, d’ora in poi, non sfuggirai ai miei occhi nemmeno per un minuto.»

Markov s’immobilizzò, rosso in viso, col sudore che gli scendeva lungo il colletto della camicia.

«L’hai… fatta allontanare? Hai rovinato le sue possibilità di carriera nel campo dell’astronomia? Così, come niente?»

Maria non rispose. Girò le spalle e s’incamminò lentamente in cucina, piantò suo marito in mezzo al soggiorno; e Markov, per la prima volta, capì quanto potere avesse sua moglie.

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