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Jo andò direttamente all’osservatorio. S’avviò in auto fra le vie strette e congestionate di traffico di Cambridge, superò il Lexington’s Battle Green, il ponte di Concord e, tra le valli coltivate a meli e le colline ricche delle variopinte foglie autunnali, continuava a ripetersi: “Quel vecchio porco farà del male al dottor Stoner. Devo avvertirlo. Devo avvertirlo subito”.

Ma Stoner non era in ufficio quando Jo arrivò all’osservatorio. Il minuscolo cubicolo al secondo piano dell’edificio era in perfetto ordine, come un’equazione ben impostata, ma lui non c’era.

Jo vide un mazzo di fotografie disposte con cura al centro della scrivania di Stoner, per il resto vuota. Erano girate all’ingiù, e sul retro della fotografia più in alto era stampigliato, in azzurro: PROPRIETÀ DELLA NATIONAL AERONAUTICAL AND SPACE AGENCY — VIETATA LA DIFFUSIONE SENZA IL CONSENSO SCRITTO UFFICIALE.

Guardò le foto a una a una. La carta su cui erano stampate era spessa, pesante, molto costosa. Le fotografie mostravano una sfera grossa, schiacciata, solcata da strisce dai colori accesi: rosso, giallo, ocra, bianco. Nel quadrante inferiore della sfera spiccava un ovale oblungo color rosso mattone.

Il pianeta Giove.

Jo passò in rassegna tutt’e ventiquattro le foto: tutte di Giove. In alcune, si vedevano due o tre delle lune del gigantesco pianeta; puntini minuscoli, a paragone della massa immensa di Giove.

Guardò l’orologio: non ce l’avrebbe fatta a tornare in tempo per la prima lezione del pomeriggio. Con una smorfia di rassegnazione, andò alla finestra e scostò le tendine quel tanto da vedere fuori.

Stoner era nel parcheggio sul retro; stava facendo gli esercizi di karate. Diritto, rigido, un’espressione concentrata sul viso scuro, le labbra serrate, teneva le mani strette a pugno appena sotto la cintura nera di cui era tanto orgoglioso. Per un attimo non fece nulla; restò con lo sguardo puntato nel vuoto, un uomo alto, forte, dai capelli neri e lucidi, gli occhi grigi, il ventre piatto e lunghe gambe snelle, da atleta.

Poi diventò una furia scatenata, fendendo l’aria con braccia e gambe in una gestualità complicata e micidiale. Era quasi come una danza, ma violenta, potente, veloce.

Dalla sua bocca non uscì un solo suono, mentre divorava in tutta la sua lunghezza il parcheggio coperto. Poi si fermò, all’improvviso come aveva cominciato, le braccia levate e le ginocchia piegate in una scattante posizione di difesa. Si rialzò lentamente, lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi.

Per un momento, Jo ebbe paura che lui alzasse gli occhi e la vedesse alla finestra dell’ufficio, intenta a guardarlo. Ma lui girò la schiena all’edificio, si rimise in posizione d’attacco e si lanciò in un’altra serie di violente mosse di karate, tirando calci, fendendo l’aria con mani e braccia, fino all’estremità opposta del parcheggio.

Jo si allontanò dalla finestra. Se si fosse spicciata, sarebbe arrivata in tempo per l’ultima lezione del pomeriggio. Ma doveva parlargli, dirgli dello strano interesse del professor McDermott per il suo viaggio a Washington. Era più importante quello della lezione.

Pensò di lasciargli un messaggio sopra il mucchio di fotografie, ma decise di no. L’avrebbe aspettato, avrebbe aspettato che facesse la doccia e si cambiasse e tornasse in ufficio. Avrebbe perso l’ultima lezione, ma non importava. Vederlo era più importante.

Non che a lui interessasse Jo. Era solo una fra tanti studenti anonimi che lavoravano per il famoso dottor Stoner, l’ex astronauta che adesso lavorava all’osservatorio, solo, isolato, affascinante e misterioso.

“Ma finirò con l’interessargli” si promise Jo. “Si accorgerà di me. Lo costringerò ad accorgersi di me.”


Keith Stoner abbassò le spalle, lasciò ricadere stancamente le braccia lungo i fianchi. Era coperto da una sottile patina di sudore che gli scendeva dalle sopracciglia e gli entrava negli occhi, bruciante. Però sapeva che in poco tempo il vento freddo del pomeriggio l’avrebbe congelato, se non si affrettava a rientrare.

Non aveva funzionato. “Non c’è più nulla che funzioni” rifletté amaramente. Il tae kwon do è una disciplina più mentale che fisica. Avrebbe dovuto aiutarlo a ottenere la calma interiore e l’autocontrollo. Però Stoner avvertiva solo una furia cocente, una rabbia incandescente che gli divorava le viscere.

“È tutto finito” si disse per la millesima volta. “È tutto morto.”

Si ricompose, si mise in posizione di “pronti”, udì il vecchio istruttore coreano che gli sibilava all’orecchio: “Concentrati, Concentrati! Hai velocità. Hai forza. Ma devi imparare a servirti della concentrazione. Concentrati!”.

Cercò di mettere a tacere la mente, ma nel buio dietro gli occhi chiusi vide il telescopio orbitale, lucido e scintillante nella luce fortissima dello spazio, una fantastica, raffinatissima macchina di metallo e di specchi che fluttuava sullo sfondo delle tenebre dell’infinito. E tutt’attorno, come fedeli al servizio di un gigantesco idolo argenteo, uomini minuscoli in tute spaziali.

Stoner era stato uno di quegli uomini.

Ex astronauta. Ex astrofisico. Con un ex matrimonio e una ex famiglia. Ex membro del gruppo che aveva progettato e costruito Big Eye, il telescopio orbitale. Finito a marcire in un osservatorio radio insignificante, solo, con uno stipendio che era più una carità che un salario vero e proprio.

“Ma gliela farò vedere. La farò vedere a tutti!” Sapeva di avere scoperto qualcosa di grosso. Di talmente grosso che si sarebbe spaventato lui stesso, non fosse stato così deciso a stupire il mondo intero.

Comunque, rimase stupito anche lui quando la grande antenna cominciò a muoversi. Scricchiolii e cigolii gli fecero alzare gli occhi sul riflettore parabolico da diciotto metri del radiotelescopio. Stava ruotando lentamente, a fatica, come un vecchio artritico che tentasse di girare la testa, in direzione delle colline lontane, coperte d’alberi.

“Avrebbero dovuto demolire da un pezzo questa anticaglia” pensò Stoner osservando l’antenna che si muoveva a fatica. “Come hanno demolito me.”

L’antenna era una grande ragnatela composta da un’intelaiatura d’acciaio e da un reticolato metallico, un catino leggermente incurvato, il piatto per la tavola d’un gigante.

Puntata verso il cielo, continuava a ricevere le onde radio emesse da sciami stellari inconcepibilmente lontani.

Stoner fissò, accigliato, il riflettore parabolico, In qualche modo, lo turbava pensare che il radiotelescopio funzionasse sia di giorno sia di notte. Con la pioggia o con la neve. L’unica cosa capace di bloccare il radiotelescopio era un accumulo di neve sul grande riflettore concavo. I telescopi più grossi e più moderni erano protetti da cupole geodetiche che tenevano lontana la neve. Quel pezzo da museo non valeva la spesa di una cupola protettiva. Gli addetti alla manutenzione andavano a rimuovere la neve con le scope.

Ma quel vecchio apparecchio aveva captato qualcosa che nessuna delle attrezzature più moderne aveva scoperto, come sapeva Stoner. “Quando lo scopriranno anche gli altri” pensò “saranno pronti a tagliarsi il testicolo sinistro per entrare in gioco.”

Fissò il cielo d’ottobre, chiaro, sgombro di nubi. L’autunno era mite, nel Massachusetts. Ancora nessun uragano. Gli alberi avevano colori splendidi: rossi accesi, arancioni vivaci, marrone e gialli dorati, con macchie di pini verde scuro e abeti rossi disseminati sulle colline dai dolci declivi.

Ma sopra la cima degli alberi, invisibile all’occhio umano nel cielo terso del pomeriggio, stava sorgendo il pianeta Giove.

E il radiotelescopio era puntato su quel pianeta.

Stoner rabbrividì, rientrò nell’osservatorio. Non notò la Plymouth nera, anonima, ferma nel parcheggio riservato ai visitatori sul davanti dell’edificio. E nemmeno i due uomini dal viso deciso, vestiti di grigio, che sedevano nella macchina.


Fatta la doccia, indossati i soliti abiti (camiciola aperta al collo, calzoni sportivi e maglione), Stoner diede un’occhiata nella sala centrale dell’osservatorio, leggermente disgustato.

Un osservatorio astronomico dovrebbe essere una sorta di cattedrale a cupola con un grande telescopio ottico puntato verso il paradiso. Le persone dovrebbero parlare a sussurri riverenti. Dovrebbero esserci echi e passi timorosi che risuonassero sul solido pavimento di cemento.

L’osservatorio sembrava il reparto vendite di un negozio per appassionati d’elettronica, ed era rumoroso come la redazione di un vecchio giornale di provincia. Al centro della stanza, le scrivanie erano unite l’una all’altra. Fogli di carta da per tutto, persino a terra. Consolle elettroniche alte come frigoriferi erano allineate lungo tutte le pareti, dove ronzavano piano. Uomini e donne, tutti più giovani di Stoner, urlavano in continuazione. La sala vibrava a sessanta cicli al secondo, e nell’aria c’era l’odore debole di lega per saldature e olio da motori.

Erano quasi tutti studenti. Laureati, alcuni già col diploma di specializzazione. Ma l’età media del personale regolare era di poco superiore ai trent’anni. Il vecchio McDermott era il direttore nominale dell’osservatorio, preside della facoltà eccetera. In pratica, a guidare il lavoro quotidiano era in effetti Jeff Thompson, che stava salutando Stoner dal lato opposto dell’isola di scrivanie perse nel mare di carte.

«Vuoi sentire?» urlò Thompson.

Stoner annuì, cominciò ad aggirare le scrivanie.

«Dottor Stoner» gli disse una studentessa, cercando di afferrargli il braccio. «Posso parlarle un minuto? Professore…»

«Adesso no» rispose Stoner senza degnarla d’un’occhiata.

Thompson era un tipo dai capelli biondo-rossi, di corporatura media, col viso piacevole e anonimo del ragazzo della porta accanto. Assistente universitario, aveva all’incirca l’età di Stoner; era il “vecchio saggio” del personale dell’osservatorio.

«Riceviamo forte e chiaro» disse, quando Stoner gli arrivò vicino. Con un sorriso rilassato, si piegò sulla scrivania più vicina e scavò fuori da un mucchio di carta un vecchio paio di auricolari.

«Queste cuffie non le usiamo quasi mai» disse. «Ma ho pensato che ti avrebbe fatto piacere sentire quello che riceviamo.»

Stoner accettò le cuffie da Thompson e s’incamminò con lui verso le consolle che ronzavano alle pareti. Thompson reggeva in una mano i fili degli auricolari. “Sembriamo qualcuno che porta a spasso il cane” pensò Stoner.

Thompson infilò la spina delle cuffie in una presa della consolle e fece un cenno a Stoner, che sistemò gli auricolari sulle orecchie. L’imbottitura era spessa.

Tutti i rumori della stanza svanirono. La bocca di Thompson si mosse, ma Stoner non riuscì a capire cosa stesse dicendo l’altro.

«Niente» disse Stoner, e la sua stessa voce gli risuonò nella testa, come se avesse la sinusite. «Non si sente niente.»

Thompson annuì, abbassò qualche comando sulla consolle. Stoner udì uno stridio acuto che salì vertiginosamente di tono, sino ad arrivare oltre la portata dell’udito umano. Poi il sibilo basso, le scariche elettroniche dei rumori di fondo dello spazio: il suono di infiniti miliardi di stelle e di nubi di gas interstellari, fusi assieme.

Stava cominciando a scuotere la testa, quando finalmente lo sentì: una nota bassa, profonda, rombante, solo un sussurro, ma indiscutibilmente diverso dal rumore di fondo. Stoner annuì, e Thompson spostò di poco una manopola sulla consolle.

Il suono divenne leggermente più forte, poi scomparve. Un secondo dopo tornò, e svanì di nuovo. Stoner, immobile al centro della stanza ridotta al silenzio, restò ad ascoltare gli impulsi d’energia che riecheggiavano nelle sue orecchie come il respiro profondo di un gigante addormentato.

Chiuse gli occhi e vide il gigante: il pianeta Giove.

Il radiotelescopio stava ricevendo impulsi di radioenergia provenienti da Giove. Impulsi più regolari delle oscillazioni di un metronomo, precisi quanto il ticchettio di un orologio al quarzo. Impulsi che non avevano una spiegazione naturale.

Lentamente, si tolse le pesanti cuffie.

«È il nostro segnale» disse a Thompson, nel brusio della stanza.

Thompson annuì. «È il nostro segnale.» Prese le cuffie, ne accostò una all’orecchio. «Sì, perfetto. Regolare come un orologio.»

«E nessuno l’ha mai sentito?»

«No, niente del genere. Non da Giove o da altri pianeti.» Thompson scollegò gli auricolari e li gettò sulla sua scrivania, sparpagliando carte in ogni direzione. «Non è sulla stessa frequenza dei pulsar e non ha la stessa periodicità. È una cosa completamente nuova.»

Stoner si grattò i capelli folti, scuri. «Secondo te, cosa lo produce?»

Con un sorriso, Thompson rispose: «È per questo che ti abbiamo chiamato qui. Sei tu che devi dirmelo.»

Annuendo lentamente, Stoner disse: «Sai già cosa ne penso, Jeff.»

«Vita intelligente.»

«Infatti.»

Thompson gonfiò le guance, lasciò andare il fiato. «Una cosa enorme.»

«Già.»

Lasciò Thompson immerso nei suoi pensieri, si avviò verso le scale che portavano al suo ufficio al secondo piano. La stessa studentessa gli si accostò.

«Dottor Stoner, posso parlarle un minuto?»

La guardò. «Certo, signorina…?»

«Camerata. Jo Camerata.»

Senza un’altra occhiata, lui cominciò a salire gli scalini. Jo gli tenne dietro.

«È per il professor McDermott» gli disse.

«Big Mac? Cosa vuole?»

«Credo sia meglio che ne parliamo nel vostro ufficio, a porte chiuse.»

«Benissimo. Sto proprio andando lì.»

«Lei era lassù, vero?» chiese Jo alla sua schiena, «Ha partecipato alla costruzione di Big Eye, su in orbita.»

Giunsero in cima alle scale, e lui si girò a guardarla per bene. La ragazza era giovane, alta, e aveva il viso classico che si può trovare su un vaso greco. Capelli castani tagliati corti le incorniciavano gli zigomi alti, la mascella decisa. I jeans aderivano alle sue cosce piene, il maglione metteva in risalto il seno.

“Una fan di astronauti?” si chiese Stoner «Sì, facevo parte del gruppo che ha progettato e costruito il telescopio orbitale. È per questo che Big Mac mi ha chiamato qui, perché posso convincere i miei amici a passarci sottobanco qualche foto di Giove.»

Il secondo piano era più tranquillo, anche se il pavimento era sempre percorso da vibrazioni. Stoner s’incamminò nello stretto corridoio, seguito a mezzo passo di distanza da Jo. Aprì la porta del suo ufficio.

Dentro c’erano due uomini: uno alla finestra, dove poco prima si era fermata Jo, l’altro vicino alla porta.

«Il dottor Keith Stoner?» chiese quello alla finestra, il più piccolo dei due. La scrivania di Stoner, con le foto di Giove sparpagliate sul ripiano, li divideva.

Stoner annuì. L’uomo alla finestra era più basso di lui di qualche centimetro, ma robustissimo. Quello che gli stava accanto, dietro la porta, sembrava un giocatore di football. Un giocatore professionista. Tutte due indossavano abiti grigi di taglio tradizionale. Tutt’e due avevano visi duri, perfettamente rasati.

«Servizio segreto della marina» disse l’uomo alla finestra. Dalla tasca interna della giacca tirò fuori il portafoglio e lo tese sulla scrivania. Apparve un tesserino d’identificazione.

«Vuole seguirci?»

«Come sarebbe a dire? Dove…?»

«Per favore, dottor Stoner. È molto importante.»

Il grosso agente alla porta afferrò Stoner per il braccio, all’altezza del bicipite. Gentilmente, ma con fermezza. L’uomo più piccolo fece il giro della scrivania, e tutte tre s’avviarono in fila in corridoio.

Jo Camerata s’immobilizzò davanti alla porta dell’ufficio di Stoner, fissandoli a bocca spalancata. L’espressione sul suo viso non era shock, e nemmeno rabbia: era senso di colpa.

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