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L’ultimo Congresso Ufologico ha offerto i soliti vecchi luoghi comuni a un pubblico che da tempo conosce i pro e i contro dell’ufologia.

Tutte le relazioni presentate sembravano tese allo scopo di far accettare gli UFO alla comunità scientifica. Eppure, nonostante gli sforzi di persone come Alan Holt, astrofisico della NASA, non sembra che la comunità scientifica sia disposta ad accettare nulla.

Harry Lebelson

“Omni”, aprile 1980


Erano già bagnati fradici dalla prima volta che la canoa si era capovolta. Markov remava furiosamente, percuotendo l’acqua con colpi frenetici e irregolari. Jo, seduta a prua, cercava di non ridere.

«Attento» disse «stiamo infilando un altro canale tra le isole…»

Prima che lei avesse finito la frase, la canoa fu afferrata dalla corrente e cominciò a inclinarsi. Markov, disperato, vide il buttafuori rovesciarsi sopra le loro teste, e tutti e due finirono di nuovo nell’acqua tiepida.

L’acqua gli arrivava alla vita. Il russo cominciò a frugarsi nelle tasche. Perdere qualcosa lì significava perderlo per sempre. Poi gli venne in mente l’orologio. Gocciolava e il vetro era appannato, ma la lancetta dei secondi camminava.

«Forza, aiutami a raddrizzarla» disse Jo.

Con un sospiro teatrale, Markov afferrò il buttafuori e rovesciò la canoa su se stessa. Era piena d’acqua. Ridendo di cuore, Jo gli fece segno di inclinarla quel tanto da far uscire l’acqua.

«Credevo» disse Markov, grugnendo per lo sforzo «che queste imbarcazioni non potessero rovesciarsi. Se no a cosa serve il buttafuori?»

Jo continuò a ridere. Il russo l’aiutò a risalire sulla canoa, senza perdere l’occasione di palparle il sedere. Un sedere notevole: sodo, ma morbido.

Jo gli tese una mano. «Dai, torna su.»

Markov valutò la distanza che li separava dalla spiaggia più vicina. «No, grazie. Io cammino. È più sicuro.»

«Cammini?»

«Insomma, sguazzo nell’acqua. Ti spingerò a un porto tranquillo.»

«Credevo che avessi paura degli squali.»

Lui scrutò l’acqua limpidissima. «Se arrivasse uno squalo, sono sicuro che correrei talmente forte da lasciarmelo indietro.»

Si portò dietro la canoa e cominciò a spingerla. L’imbarcazione gli sembrava un giocattolo troppo grosso.

Jo si aggrappò alle frisate e gli regalò un’occhiata radiosa. «Mio eroe! Proprio come Humphrey Bogart nella Regina d’Africa.»

«Chi?» chiese Markov, avanzando nell’acqua alta fino alle cosce.

«Non sai chi è Humphrey Bogart?» ribatté lei, incredula.

«Non era il vicepresidente degli Stati Uniti?»

Quando raggiunsero la spiaggia, il cielo si oscurò, scese un altro acquazzone. Jo balzò a terra e lo aiutò a mettere in salvo la canoa sulla sabbia. Poi corsero sotto gli alberi e crollarono a terra: bagnati, divertiti, senza fiato.

«Non credo di essere fatto per la vita all’aperto» commentò Markov.

«E perché?»

«Sono un uomo civile. Il che significa che il mio habitat è in città, non la natura selvaggia.»

«Mosca?»

Lui annuì. «Sì. In questo momento, Mosca mi apparirebbe meravigliosa. Ovviamente, se anche tu fossi lì con me, mia dolcissima.»

«Com’è Mosca?» chiese Jo. «Non ci sono mai stata.»

«È una città.» Markov scrollò le spalle. «Non bella come Parigi, non grande come New York. Non affollata come Tokyo. Il sole la illumina per ben due minuti ogni anno. Tutti corrono fuori a osservare il fenomeno. Poi tornano le nubi, e nevica per il resto dell’anno.»

Lei rise. «Tu ami la tua città, vero?»

Markov aveva gli occhi fissi sulla pioggia che batteva la laguna. «Suppongo di sì. Ci sono nato. Immagino che ci morirò. Mio padre è morto a cinquanta chilometri a ovest di Mosca, nel quarantadue, per respingere i nazisti. Suo padre era morto nella guerra civile seguita alla rivoluzione.»

Jo si chinò su di lui, gli sfiorò la guancia con la mano. «Però tu vivrai una vita lunga e pacifica, eh?»

Markov arrossì. «Ho tutte le intenzioni di farlo» disse, cercando di ricomporsi.

Aspettarono che il temporale lasciasse l’isola, spostandosi a ovest. Il sole uscì da dietro le nubi, caldo e abbagliante. Nel giro di pochi minuti, la spiaggia era asciutta.

Markov scrutò a occhi socchiusi il cielo. «Se stendessimo i vestiti sulla sabbia, asciugherebbero prima.»

«E noi potremmo fare un altro bagno a fior di pelle» scherzò Jo.

«Per un pomeriggio, penso di essere stato in acqua abbastanza» disse Markov.

Jo rifletté qualche momento. «Forse è meglio che ci lasciamo asciugare dal sole, senza spogliarci.»

«Una grande prova di coraggio» annuì Markov.

Jo gli sorrise. «Spero solo che riusciamo a tornare a Kwaj prima del buio.»


A Washington era mezzanotte.

Nonostante la tensione, Willie Wilson sorrise, si appoggiò all’indietro sul divano. L’appartamento dell’hotel era ben arredato. La direzione gli aveva dato il migliore: piano più alto, prezzi più alti.

«Lei non è dell’assicurazione?» chiese Willie, incrociando le braccia dietro lo schienale.

Il giovane seduto sulla poltrona davanti a lui sorrise. «No, signore, no. Sono del Dipartimento di Giustizia.»

«Giustizia?» Willie lanciò un’occhiata a suo fratello, in piedi davanti al mobile bar, irrequieto, quasi spaventato.

«Sì, signore» disse il giovanotto. Portava un abito grigio di taglio classico e cravatta marrone rossiccio. “Ha l’aria di un avvocato” pensò Willie.

«Perché vuole proprio me?» chiese Willie.

«Vogliamo impedire che succeda una tragedia.»

«Vogliamo? Perché il plurale?»

«Il Dipartimento. Il segretario alla giustizia. La Casa Bianca.»

Willie fischiò piano. «Hai detto niente.»

Il giovanotto annuì.

«E quale sarebbe la tragedia che la preoccupa?» chiese Willie.

«Il panico che lei ha diffuso.»

«Panico? Non so nulla di panico. Io sono un semplice ministro che diffonde la Parola del Signore.»

«Signore, lei sta spaventando la gente. Ciò che è accaduto allo stadio RFK poteva concludersi in una tragedia terribile. È stata evitata solo per un soffio.»

«Perché “lui” ha saputo reagire in fretta!» scattò Bobby, puntando l’indice sul fratello.

«È stata opera del Signore, non mia» ribatté Willie, continuando a sorridere.

«Reverendo Wilson, lei spaventa la gente. Già le cose andavano abbastanza male quando si limitava a predicare di scrutare il cielo. Ma adesso… Con quelle luci in cielo ogni sera…»

«È il messaggio che aspettavamo» disse Willie.

«La gente ha paura! Credono che sia vicina la fine del mondo.»

«Questo non l’ho mai detto.»

«Però la gente è convinta che lo stia dicendo» ribatté il giovanotto. «In tutto il paese.»

«Io sono un semplice ministro del Signore…»

«Lei è diventato una figura nazionale di primo piano, reverendo Wilson. E deve dimostrare una maggiore responsabilità per il potere che ha acquisito.»

«Come sarebbe a dire, responsabilità?» chiese Bobby.

«Deve calmarsi.»

«Cosa?»

«Deve smetterla di spaventare la gente. Deve dire che le luci in cielo non c’entrano niente con Dio o con la fine del mondo.»

«Non posso» ribatté, secco, Willie.

«Dovrà farlo.»

«Se no?» chiese Willie.

Il giovanotto si girò a guardare Bobby. «Se no, il governo federale diventerà molto duro con lei.»

Il sorriso di Willie non si era smorzato. «Mi sono visto col presidente, lo sapete?»

«Sì, signore, lo so. È stato lui a mandarmi qui, reverendo. Mi ha chiesto di rammentarle la tremenda responsabilità che ha tra le mani.»

«Il presidente?»

«Esatto, signore. Ha scelto me, ma poteva scegliere anche qualcun altro.»

Il sorriso di Willie divenne un po’ più teso, un po’ più forzato.

«In altre parole» grugnì Bobby «o stiamo al suo gioco, oppure il governo ci esclude dalla televisione e fa controllare la nostra contabilità da un centinaio di revisori.»

«Cosa significa che dobbiamo stare al gioco?»

«Dov’è il suo prossimo raduno, reverendo Wilson?»

«Ad Anaheim.»

Il giovanotto annuì. «Sì. Ci siamo già messi in contatto con la direzione dello stadio.»

«Che diritto avete…?»

«È molto semplice, reverendo. Un’esplosione di panico a uno dei suoi raduni potrebbe uccidere centinaia di persone. Forse migliaia. Nessuno di noi vuole che questo accada. Giusto?»

Willie annuì lentamente.

Il giovanotto trasse un profondo respiro. «Quindi, ai suoi seguaci deve dire che le luci in cielo sono perfettamente naturali, che a provocarle è l’astronave che si sta avvicinando al nostro pianeta, e che dietro non c’è nessun significato soprannaturale. Deve dissociare le luci in cielo dalla voce di Dio.»

«Ma non è possibile» disse Willie.

«Sì, certo che è possibile. Deve dirlo.»

Willie guardò suo fratello, poi tornò a posare lo sguardo sull’uomo del Dipartimento di Giustizia. «Lei sta interferendo con l’opera di Dio.»

«Lei lavora per Dio, signore. Io lavoro per il segretario alla Giustizia.» Esitò, poi aggiunse: «E tutti noi lavoriamo per il fisco.»


Era già il tramonto prima che Stoner uscisse dall’ufficio. Si fermò all’entrata, scrutò per un attimo, tra le fronde delle palme, il cielo in fiamme. Poi s’incamminò verso lo spaccio.

Un’ora dopo, vestito a nuovo, si trasferì dall’AUS all’hotel, solo per scoprire che Jo non c’era. Imperterrito, passò dal centro computer al Circolo Ufficiali, ma non trovò Jo.

“Dove diavolo può essere?” si chiese. L’orologio dietro il banco del Circolo segnava le sette passate. Gli aveva detto che andava a nuotare; se le fosse successo qualcosa, la voce si sarebbe sparsa per tutta l’isola.

Superò i clienti fissi al banco e andò a sedere allo stesso separé che aveva diviso con Markov. Era depresso.

Non può essersene dimenticata. Ha semplicemente deciso di non venire. Una rabbia fredda lo invase. Probabilmente sarà con McDermott.


Per quanto Cavendish camminasse, per quanto decidesse di allontanarsi, di prendere altre direzioni, i piedi lo riportavano sempre all’ospedale.

Adesso era il tramonto. Appoggiato al tronco di una palma davanti ai campi da tennis prospicienti l’ospedale, vide man mano le finestre illuminarsi.

“Non ho più una mia volontà” gemette fra sé, nel profondo. “Mi controllano, mi costringono a camminare e a parlare come un burattino vivente.”

Si afflosciò sull’albero. Al momento, il dolore non era tremendo, ma nulla poteva farlo scomparire. Solo l’obbedienza ai loro ordini alleggeriva l’agonia.

«Sono proprio in gamba» mormorò sottovoce. «Se dedicassero gli stessi sforzi che dedicano al controllo del cervello al risanamento della loro agricoltura, non avrebbero più bisogno del KGB.»

Il dolore non era tanto forte. “Forse posso mangiare qualcosa. O dormire!” Reclinò la testa e chiuse gli occhi. Sonno. Che lusso incredibile.

Cavendish non vide Schmidt aprire la finestra, sporgersi sul davanzale e saltare a terra, due piani più in basso. Il giovane astronomo era perfettamente vestito. I suoi occhi avevano uno scintillio folle, e nel taschino della camicia c’erano solo due delle capsule che Cavendish gli aveva dato poche ore prima.


Markov si sentiva un po’ come il marinaio che torna da un naufragio. Era distrutto dallo sforzo, coperto di sale e sabbia, bruciato dal sole in viso, fino alla fronte.

Aveva tutti i muscoli indolenziti. Aveva spinto quella maledetta canoa per ore, mentre Jo, seduta a prua, gli sorrideva. Non fosse stato per l’aurora boreale e per le luci degli edifici di Kwajalein, senza dubbio sarebbero finiti al largo nelle tenebre, per poi morire sull’oceano.

Risalì gli scalini del suo piccolo bungalow, traversò il portico in cemento ed entrò. Non erano ancora le nove, ma Markov aveva l’impressione che fossero le quattro del mattino. “Maria sarà sorpresa di vedermi rientrare così presto” pensò.

Sua moglie non era in soggiorno. Lui scrollò le spalle, e si accorse di colpo di essersi scottato anche collo e spalle.

Quando aprì la porta della camera da letto, il suo unico desiderio era buttarsi sul letto.

Maria lo fissò stupefatta, incredula. La valigetta che aveva accanto era piena di strane apparecchiature elettroniche. Su uno schermo minuscolo apparivano sottili linee luminose, simili a quelle di un elettrocardiogramma.

Ma fu l’espressione sul viso di lei a colpire Markov: senso di colpa, rabbia, paura. La bocca della donna era aperta, ma non ne uscivano parole. Gli occhi di lei lo fissavano, e lui riuscì a scrutarle sino in fondo all’anima. Sembrava Lucifero nel momento in cui aveva capito che Dio gli aveva spalancato sotto gli abissi dell’inferno.

«Cosa stai facendo?» ruggì Markov. «Cos’è?»

Dimenticato il dolore, avanzò su sua moglie. Lei si alzò dal letto, indietreggiò, il viso segnato da confusione e vergogna.

Markov passò lo sguardo da sua moglie alla valigetta. Afferrò la valigetta, l’alzò sopra la testa.

«No!» urlò Maria, balzandogli addosso.

Markov scaraventò la valigetta contro la parete. All’impatto col cemento, si fracassò in due.

«Non sai cosa stai facendo!» strillò Maria, e tentò di graffiarlo.

Lui la ributtò sul letto, corse all’apparecchio elettronico. Una luce rossa era ancora accesa. Con furia gelida, Markov abbassò il piede, ruppe il vetro, incrinò la plastica. Colpì e colpì, finché della valigetta restarono solo schegge di vetro e frammenti di circuiti stampati.

Maria era stravolta. «Hai… Hai distrutto un’importantissima proprietà dello stato.»

«Zitta, donna» ruggì lui «e ringrazia il cielo se non ti riservo lo stesso trattamento. Non so a cosa servisse quell’apparecchio, ma certo a niente di buono, questo è evidente.»

Maria fissò i resti della valigetta e scoppiò in singhiozzi. «Ci uccideranno tutte due, Kirill. Ci uccideranno tutt’e due.»

«Che ci uccidano!» urlò Markov, «Forse è meglio morire.»

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