Top Secret
Memorandum
A: Tenente R.J. Dooley, Servizio Segreto Marina
Usa
DA: Capitano G,V. Yates, NATO/QG SOGGETTO: Visto di sicurezza Prof. Roger H.T. Cavendish, MRS, FIAC, UIB, PhD.
1. Il professor Cavendish è in possesso di visto di sicurezza fino a livello TOP SECRET dell’Esercito Inglese, Società Scientifica Inglese, e NATO. Vedere la documentazione allegata.
2. L’ultimo accertamento di sicurezza si è concluso il 24 agosto ’80.
3. Il visto di sicurezza è stato inizialmente concesso a Cavendish il 15 dicembre ’59, dopo il suo rimpatrio dall’URSS nel 1957. È stato prigioniero di guerra in Birmania, in seguito in Manciuria, e quindi affidato all’esercito sovietico al termine della Seconda guerra mondiale. È rimasto in URSS “volontariamente” fino al 1957, data del rimpatrio nel Regno Unito.
4. Il servizio segreto inglese sospettò che Cavendish fosse un agente sovietico, ma ripetuti accertamenti sulle sue attività non hanno indicato niente attività di sospetto. Di conseguenza, gli è stato concesso il visto di sicurezza fino al livello TOP SECRET.
5. Conclusioni: se Cavendish e un agente sovietico, è un “agente dormiente”, destinato a non fare nulla per molti anni, fino a ottenere una posizione della massima fiducia e responsabilità. Il PROGETTO JUPITER potrebbe essere quella posizione.
Top Secret
Percorrendo il sentiero di ghiaia che costeggiava le lunghe file di argentee antenne radiotelescopiche, Kirill Markov si tirò il cappello di lana sulle orecchie arrossate e rifletté che buona parte dello spirito russo viene forgiata dal clima russo.
Un popolo malinconico in una terra brulla con un clima orribile.
Si fermò a studiare il paesaggio. All’infinito, pianure coperte di neve, con pochissimi rilievi montuosi a spezzare la monotonia. Nubi grigie, pesanti, brutte, protese verso il terreno come la mano di un dio astioso. Un vento freddo che ululava di continuo, senza nemmeno un albero che lo fermasse, che rimandasse un suono più dolce, meno cupo.
Perché avevano dovuto costruire il centro di ricerca proprio lì nella steppa? Perché non sul Ma Nero, dove i commissari hanno le dacie per l’estate e ogni tanto spunta il sole?
Scosse la testa. “Ammettiamolo, vecchio mio. Se tu avessi concluso qualcosa con il puzzle che ti hanno affidato, non t’importerebbe troppo del clima o del paesaggio.”
Era la verità, Gli impulsi radio lo avevano sconfitto. Se erano un linguaggio o un codice, lui non era riuscito nemmeno a scalfirne la superficie nei mesi trascorsi a lavorare al problema.
Depresso, fece dietrofront e s’incamminò fiaccamente verso i suoi alloggi. Il vento gli sollevava il lungo cappotto. E gli si stavano congelando i piedi.
E gli impulsi radio erano ancora un mistero, esattamente come il primo giorno che aveva affrontato il problema.
Stava oltrepassando l’isolato grigio e massiccio degli uffici amministrativi, quando gli giunse la voce forte e chiara di Sonya Vlasov.
«Finalmente, Kir! Mi stavo chiedendo dove fossi finito.»
Markov gemette fra sé. Sonya era stata una conquista facile, se “conquista” era la parola adatta per una donna così disponibile. Disponibile? Era esigente. Markov pensava che le loro lunghe notti a letto avessero qualcosa a che fare con la sua incapacità di risolvere l’enigma di Giove. La ragazza era giovane, spaventosamente energica, atletica, e dotata di più fantasia di un gruppo di acrobati cinesi.
Sonya corse ad afferrarlo per il braccio. «Ti sei dimenticato che il direttore del laboratorio ti ha invitato a un tè, oggi pomeriggio?»
Si stava già facendo buio. Le luci sopra gli edifici e lungo i sentieri erano accese. Markov avvertiva una sensazione di gelo, di svuotamento completo dell’anima. Incredibilmente, Sonya sorrideva, perfettamente a suo agio senza cappotto. Indossava solo un maglione, pantaloni larghi e stivali.
Il maglione, però, non era troppo largo, e nonostante tutto Thompson avvertì una vampata di desiderio. Sorrise al volto rotondo e allegro di Sonya.
«Sì, mi ero proprio scordato dell’invito. Dove andrei a finire senza di te?»
Lei rise. «A letto con un’altra ragazza. Sono tutte invidiose di me, sai.»
«Ah, angelo della mia salvezza» disse lui, passandole il braccio sulle spalle. «Sei troppo buona con me. Dopo tutto, sono un vecchio tremante…»
«Non è vero!»
«Un uomo di mezza età, allora.» Assieme, s’avviarono verso l’edificio in legno che conteneva la stanza di Markov. «Ci sono tanti uomini più giovani che sospirano e gemono all’idea di strapparti un sorriso. Eppure tu concentri su di me tutte le tue energie.»
“E a pensarci” aggiunse fra sé “ci sono altre donne che questa ipermaniaca sessuale ha tenuto lontano da me.”
Ma Sonya non voleva nemmeno sentirne parlare. La sua devozione per Markov era assoluta. E, sì, lui finì col fare di nuovo l’amore, prima di uscire per il tè. Il che non costituì una sorpresa per Markov. Semi-appisolato sui seni grandi e morbidi di lei, si scoprì a tentare di contare quante volte l’avessero fatto negli ultimi due mesi.
“Devo essere più o meno a livello di record mondiale per un uomo che ha quasi cinquant’anni” si stupì.
Il tè del direttore fu molto privato, molto tranquillo, e, per fortuna, breve. Markov parlò amabilmente dei suoi studi sulle lingue orientali, mentre tutti gli altri, uomini e donne, discutevano di astronomia ed elettronica. Lui non capiva loro, e loro non capivano lui. Nessuno parlò degli impulsi radio provenienti da Giove, perché in teoria costituivano un segreto di cui solo una mezza dozzina di persone del centro erano al corrente. E nessuno sapeva chi, fra gli altri ventiquattro invitati al tè, potesse riferire a Mosca le loro conversazioni.
Markov non aveva fame quando gli invitati salutarono l’ospite e tornarono alle loro stanze. Superò la mensa e si diresse alla propria stanza. Senz’altro Sonya lo avrebbe aspettato a letto.
Forse dorme, sperò Markov. Poi fece una smorfia. “Bella situazione! Hai paura di lei. È ora che tu le dica che sei un uomo sposato e non puoi più continuare con questa relazione.”
Pensò alla specialista in elettronica, bionda, snella e languida, che aveva visto al tè del direttore. Grandi occhi assonnati. Se non altro, sarebbe stata meno faticosa.
Fu una sorpresa notevole aprire la porta della stanza e trovare sua moglie seduta davanti al termoconduttore.
«Maria!»
Lei alzò la testa a guardarlo, con la solita espressione accigliata.
Markov lanciò un’occhiata al letto. Era disfatto, ma vuoto.
«Cosa ci fai qui?» Chiudendo la porta, si chiese che fine avesse fatto Sonya.
«Sono venuta a sentire il resoconto dei tuoi progressi» disse lei. «I miei superiori hanno pensato che mi avrebbe fatto piacere rivedere mio marito, dopo due mesi di lontananza.»
Imbastendo un sorriso, Markov disse: «Che pensiero gentile.»
Si tolse il cappotto, lo appese al gancio dietro la porta. La valigia nera di Maria era sul pavimento, vicino all’armadio.
L’armadio! Possibile che Sonya fosse nascosta nell’armadio?
«Sarai stanca, dopo un viaggio del genere» disse Markov alla moglie. «Ti va un po’ di tè? Vuoi cenare?»
«Mi sembri stanco anche tu. Hai cerchi neri sotto gli occhi.»
«Ho lavorato sodo.»
«Sì, lo so.»
“Dev’essere così che si sente un topo quando è fra le zampe del gatto” pensò Markov. “O un delinquente quando la polizia lo cattura.”
«Temo di non avere fatto molti progressi…»
«Dipende dai punti di vista» disse Maria, in tono freddo, distaccato. «La ragazza che stava nel tuo letto sembrava piuttosto contenta dei tuoi progressi.»
«Ragazza?» La voce di Markov era quasi stridula. «Oh, quella. Lei… Be’…» Scrollò le spalle, ebbe un sorriso goffo.
«Spero che tu abbia scoperto qualcosa sui segnali radio» disse Maria, mortalmente calma «tra una seduta a letto e l’altra.»
Il sorriso di Markov si sgretolò. Lui prese una sedia, sedette di fronte a lei, e disse: «Maria… Non credo che si possa scoprire qualcosa su quegli impulsi. Ci siamo serviti delle analisi del computer e io le ho studiate attentamente per mesi…»
«Attentamente.» La donna sbuffò.
«Attentamente» ripeté lui. «Non c’è la minima traccia di periodicità, o di ritmicità, o di una qualsiasi delle caratteristiche che è lecito attendersi da un linguaggio.»
«Sei sicuro che la tua mente non sia stata tanto ottenebrata da impedirti di lavorare come si deve?»
«Sono mai venuto meno alle tue aspettative?»
«Stai invecchiando, ma la tua saggezza non aumenta.»
Lui si batté il palmo della mano sul ginocchio. «Questo è ingiusto, Maria Kirtchatovska! Io sono…»
Lei gli puntò addosso l’indice, e Markov piombò nel silenzio. «Dobbiamo decifrare questo codice, Kirill. Capisci? I miei superiori non accetteranno uno scacco.»
«Ma io non credo che “sia” un codice.»
«Loro sì.»
Alzando le mani al cielo, Markov chiese: «E se loro credono che la luna sia di formaggino tenero, uccideranno i cosmonauti che ne riportano rocce?»
Maria non si spostava d’un millimetro. A Markov pareva un mulo testardo, recalcitrante. Le parole rimbalzavano sulla sua pelle coriacea.
«Se non è un codice, non è un codice!» disse lui, a voce più alta. «Se non è un linguaggio, come può essere un linguaggio?»
Lo sguardo di Maria lo trafisse. «Quindi, dovrei tornare a Mosca e riferire ai miei superiori che mio marito ha studiato i segnali radio per due mesi e ha concluso che la loro origine è assolutamente naturale. E quando mi chiederanno che tipo di studi ha condotto, potrò dire che ha trascorso quasi tutti e due i mesi a letto con una vacca ipersessuata che bisognerebbe mandare a pascolare in Siberia.»
«No!» ruggì Markov. «Non puoi farlo.»
«Il tuo fallimento è il mio fallimento» ribatté Maria. «E prima che questo succeda, manderò all’inferno la tua puttanella.»
«Maria, non capisci…»
«No, sei “tu” che non capisci. Non sono disposta ad accettare la tua parola in questa situazione. Non quando so che ti sei messo a giocare, anziché lavorare. E con la mia carriera che giochi! Con la mia vita! E con la tua.»
Disperato, lui si passò una mano tra i pochi capelli. «Senti… Ho fatto un lavoro serio su quei segnali. Onestamente. Lascia che mostri tutto all’accademico Bulacheff. Se lui è d’accordo con me, ti riterrai soddisfatta?»
Maria gli lanciò un’occhiata lunga, assassina; poi infilò una mano nella valigia ai suoi piedi e tirò fuori un foglio di carta, una lettera manoscritta.
«Leggi qui» ordinò.
Markov socchiuse gli occhi, si frugò in tasca, trovò gli occhiali, li infilò. Mentre leggeva, il suo viso perse ogni sicurezza. La mano cominciò a tremargli leggermente.
Alla fine, tornò a guardare sua moglie. «Chi… Chi è questo Stoner?»
«Uno scienziato americano, un astrofisico che ha partecipato alla costruzione del telescopio che gli americani hanno messo in orbita all’inizio di quest’anno.»
Vacillante, Markov raggiunse il letto, vi si lasciò cadere. «E, secondo lui, nelle vicinanze di Giove c’è una nave spaziale che è la causa dei segnali.»
Maria disse: «Perché ti ha scritto una lettera del genere?»
Scrutando il foglio sottile, Markov rispose: «Dice di aver letto il mio libro sui linguaggi extraterrestri…»
«Il tuo celebre libro.»
«Ma… Tu credi a quello che dice, Maria? Forse è un trucco degli americani.»
«Molti americani non comprendono la natura della lotta fra capitalismo e comunismo. Pensano che i due sistemi possano coesistere in pace.»
Markov annuì.
«Questo Stoner è un idealista. È anche uno scienziato che vuole ottenere certi riconoscimenti per aver scoperto una forma di vita aliena. Ecco perché ti ha scritto.»
«Ma perché proprio a me? Perché non alla Federazione Astronomica Internazionale? O all’Accademia Sovietica delle Scienze? Perché a me?»
«E chi lo sa?» rispose Maria. «I nostri agenti in America stanno indagando.»
Markov cercò di riprendere il controllo di sé. Stavano succedendo troppe cose, troppo in fretta.
«Credi ancora» chiese Maria «che quei segnali non siano un linguaggio?»
Lui trasse un profondo respiro; poi: «Non sono un linguaggio. Come minimo, non sono un tipo di linguaggio che io possa comprendere.»
Lei si protese, gli strappò la lettera di mano. Rimettendola in valigia con estrema cura, disse: «Pochi momenti fa hai espresso il desiderio di vedere l’accademico Bulacheff. Vuole vederti anche lui. Immediatamente. Stanotte rientriamo a Mosca.»