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Territorio dello Yukon

George Umaniak nascose il fucile sotto le coperte sul retro della slitta a motore. Non aveva nemmeno visto un caribù, ma i poliziotti bianchi gliel’avrebbero fatta passare brutta se avessero scoperto che era uscito con un fucile da caccia.

Il vento stava acquistando forza, scendeva in un lungo sospiro gelido dalle montagne coperte di ghiacci. Il cielo era di nuovo scuro, e il vento parlava di spettri, della danza dei morti. George, con un brivido, tirò il cappuccio della giacca. La maledetta slitta non voleva partire. Lui girò la chiave di scatto, diverse volte, ma il motore rifiutava d’accendersi. George bestemmiò fra sé. Non poteva essere la batteria, l’aveva controllata il giorno prima.

Con la coda dell’occhio, intravide un lampo di luce nelle tenebre sempre più fitte. Alzò lo sguardo e vide l’aurora boreale risplendere sulle montagne. Verdi, rosa pallido, spettralmente gialle, le luci del Nord danzavano sulla cima delle montagne a tempo coi gemiti del vento.

George inghiottì saliva, e finalmente riuscì ad accendere il motore. Accelerò al massimo e corse a casa. Non era notte per trovarsi fuori al freddo e al buio.


La sala conferenze era piena quasi per metà. In origine era il cinematografo per il personale militare di Kwajalein, e Stoner si scoprì a desiderare che tornassero a proiettarvi film. Però quella sera era una sala conferenze, un luogo di riunione, un centro d’incontro per scienziati e tecnici del PROGETTO JUPTTER.

Circa centocinquanta tra uomini e donne sedevano sulle scomode sedie pieghevoli in metallo fornite dal governo. Jeff Thompson era accanto a Stoner, in una delle ultime file. Jo Camerata non si vedeva. Big Mac e Tuttle erano in prima fila, a un passo o poco di più dal podio degli oratori.

Il ronzio delle conversazioni si spense quando McDermott salì sulla piccola piattaforma sul fondo della sala. Cavendish lo seguì con aria serafica, portandosi la sedia. La aprì e sedette dietro McDermott, che si protese in tutto il suo volume sul minuscolo podio. Un russo anziano arrivò dopo Cavendish e sedette su una sedia già pronta per lui.

«Buonasera, signore e signori.» La voce rauca di Big Mac venne soffocata dallo stridio metallico di feedback del microfono.

McDermott lanciò un’occhiataccia al tecnico audio che stava seduto a un lato della stanza, dietro un tavolo invaso da scatole nere; tutti gli altri guardarono con un sobbalzo gli altoparlanti fissati alle travi del soffitto in legno.

«Big Mac non ha bisogno di microfoni» mormorò Stoner. Thompson sorrise e annuì.

McDermott usò lo stesso il microfono, che amplificò la sua voce, la trasformò in un tuono assordante che fece tremare le pareti della sala. Presentò l’accademico Zworkin, l’astronomo che guidava la delegazione russa. Il vecchio (pochi capelli grigi, un pallore ancora più grigio in volto, abito grigio spiegazzato nonostante il caldo) si alzò piano e raggiunse il podio. Abbassò il microfono.

«Grazie, caro professor McDermott» disse con voce stridula, esile, cantilenante. Il suo inglese era ottimo; l’accento, quello di Oxford.

Poi si rivolse al pubblico: «Anche se in anni recenti ho partecipato a due conferenze dedicate alla RIET, sono tutt’altro che un esperto in fatto di intelligenze extraterrestri. D’altronde, chi lo è?»

Una risatina cortese dai presenti.

«Il mio campo di specializzazione è l’astronomia planetaria. Non sono un astrofisico o un astrochimico. Sono, se un termine del genere è accettabile, un astrogeologo. Non sono sicuro di cosa stia a fare qui tra voi, a parte il fatto che sono troppo anziano e troppo lento, per cui non ho potuto evitare di essere preso per questo lavoro.»

Il pubblico rise ancora, ma Stoner capì: “Ci sta dicendo di non aspettarci grandi idee da lui. Qui è come un pesce fuor d’acqua e vuole tornare a casa appena possibile”.

Zworkin cominciò a presentare, uno a uno, i quindici scienziati russi. Tranne uno, erano tutti uomini, parecchi dei quali accompagnati dalle mogli. Che, meticolosamente, non vennero presentate.

Si alzò un russo alto e magro, lievemente agitato e con un’aria da ragazzino nonostante la barba grigia. Zworkin lo presentò: il professor Kirill Markov, dell’università di Mosca, linguista.

“È a lui che ho scritto!” sussultò Stoner. “Devo parlargli.”

Terminate le presentazioni, McDermott riprese il comando del podio.

«Lavoreremo assieme a questo progetto per qualche mese» disse, col tono dell’allenatore di una squadra scolastica di calcio. «Vorrei chiedere al dottor Cavendish di illustrarci qual è al momento la situazione.»

Cavendish raggiunse sorridendo il podio.

«Bene» disse, il che per lui equivaleva allo schiarirsi la gola. «Non ho preparato diapositive o grafici… Ho pensato che ci saremmo tuffati nei particolari della situazione molto presto.» Esitò un attimo, come per raccogliere le idee. «Lo… ah… l’“oggetto” che è entrato nel Sistema Solare l’estate scorsa e che ha compiuto un volo di ricognizione piuttosto lento attorno a Giove si sta ora avvicinando alla Terra. Da quando ha cambiato rotta ha accelerato, e le proiezioni attuali ci dicono che raggiungerà la posizione più vicina alla Terra il cinque di luglio circa.»

«L’accelerazione» chiese uno dei russi «è normale? Voglio dire, è naturale?»

«Certo. In sostanza, l’oggetto si sta avvicinando al Sole in caduta libera, e l’attrazione gravitazionale del Sole lo fa accelerare. No, da quando si è spostato da Giove e ha cambiato rotta per dirigersi verso di noi non ha dato segni di vita o di seguire uno scopo preciso.»

«Allora al momento è inerte?»

«Morto come una roccia, per quanto ci risulta» disse Cavendish. «Sta solo andando alla deriva.»

«Che dimensioni possiede?»

«Abbiamo dati sulla forma?»

«E la luminosità di superficie?»

Cavendish alzò le mani affusolate per interrompere quel flusso troppo veloce di domande.

«È un po’ più grande di uno stomaco…»

Gli americani risero. I russi si scambiarono occhiate perplesse.

«In effetti» proseguì Cavendish «non sappiamo molto delle sue vere dimensioni, soprattutto perché non siamo riusciti a stabilirne la luminosità specifica. Se è fatto di un materiale ad alta riflessione, dev’essere piuttosto piccolo… Un centinaio di metri, o ancora meno.»

«Quali sono le dimensioni massime possibili?»

Cavendish aggrottò la fronte e cercò aiuto tra il pubblico. «Qualcuno vuole fare un’ipotesi?»

Stoner urlò: «Non può avere un diametro superiore a qualche centinaio di metri al massimo. Dai rilevamenti sulla massa che abbiamo eseguito quando orbitava attorno a Giove, dev’essere molto piccolo, con una massa insignificante… Più o meno come se mettessimo assieme tre o quattro Salyut o Skylab.»

Zworkin si girò. «Allora è grande, per essere un’astronave.»

«Però piccolo a paragone di un asteroide, o anche di un meteorite di modeste dimensioni» disse Stoner.

«Capisco.»

Cavendish batté sul microfono, e tutti gli occhi tornarono a puntarsi su di lui. «L’oggetto è ancora troppo lontano perché siano possibili rilevamenti radar accurati sulle sue dimensioni, però nel giro di poche settimane dovrebbe avvicinarsi tanto da permetterci di eseguire i rilevamenti.»

«Perché non usiamo i radar di Goldstone o Haystack?» urlò qualcuno.

«Perché non Arecibo?»

McDermott si alzò in piedi e rispose: «Questioni di sicurezza. I nostri governi hanno deciso di mantenere il massimo segreto sul progetto, per proteggere la popolazione da shock e panico ingiustificati.»

«Al centro Landau potremmo seguire l’oggetto» disse Zworkin, ma senza microfono la sua voce era quasi inaudibile.

«Però» intervenne Cavendish, nel tentativo di riprendere il controllo della situazione «dato che l’oggetto sta correndo verso di noi, dobbiamo solo aspettare qualche settimana. Dopo di che, dovremmo riuscire a fotografarlo con la Polaroid.»

«Una domanda che mi viene in mente» disse una donna, non una delle russe, dalla sua sedia «è questa: come entreremo in contatto?»

«Via radio, direi» rispose Cavendish.

«E il laser?»

«Che lunghezza d’onda dovremmo usare per il tentativo di contatto?»

Cavendish scrollò le spalle. «Il maggior numero possibile, immagino. Non abbiamo idea di quali lunghezze d’onda usi per comunicare.»

«Ammesso che le usi.»

Stoner si alzò in piedi e disse: «Dovremmo tentare di intercettarlo. Andargli incontro, effettuare un rendez-vous, salire a bordo.»

«Certo, immagino che sia un’ipotesi da prendere in considerazione.»

Però McDermott ruggì: «È fuori discussione! Occorrerebbero mesi per preparare un lancio con equipaggio umano, anni, e questa cosa avrebbe già oltrepassato il nostro pianeta. Per di più…»

«Se ce la mettessimo tutta» ribatté Stoner «potremmo preparare in tempo il lancio di uno Space Shuttle.»

«E per gli ultimi stadi cosa dovremmo usare?» mugugnò McDermott. «Una fionda?»

«Se sarà necessario.»

«Io ritengo» intervenne Cavendish «che come prima cosa dovremmo tentare il contatto radio, non credete?»

Si alzò Markov, con un sorriso malizioso sul viso leggermente arrossato. Guardò un attimo Stoner, quasi lo riconoscesse.

«Io non sono un fisico» disse girandosi verso il podio. «Comunque, posso dare un suggerimento per quanto riguarda il problema di comunicare con l’astronave?»

«Sì, senz’altro» rispose Cavendish.

«Se avete registrato i segnali trasmessi da Giove durante l’incontro della nave col pianeta, forse sarebbe utile ritrasmettere le registrazioni mentre l’astronave si sta avvicinando a noi.»

McDermott si accigliò. Cavendish aggrottò la fronte. «Ritrasmettere i segnali provenienti da Giove?»

«Sì» disse Markov. «L’alieno capirebbe immediatamente che abbiamo ricevuto gli impulsi radio da lui trasmessi. Gli apparirebbero immediatamente come un segnale artificiale dal nostro mondo.»

«Hmm. Sorprendente.»

«Cosa vi fa pensare che sia un “lui”?» urlò una voce di donna.

«Non dovremmo andarci più cauti?» disse Thompson, alzandosi a fianco di Stoner. «Voglio dire, forse dovremmo aspettare che “esso” ci invii segnali prima di cominciare a bombardarlo di onde radio o raggi laser. Potrebbe anche non andargli a genio essere sommerso di energia elettromagnetica.»

«Se aspettiamo troppo» ribatté Cavendish «potrebbe oltrepassare la Terra e uscire dal Sistema Solare, come ha detto il professor McDermott.»

«È per questo che penso che dovremmo tentare un contatto fisico» disse Stoner, ancora in piedi. «Se non c’è equipaggio a bordo, potremmo addirittura cercare di catturare la nave e metterla in orbita attorno alla Terra.»

«Assolutamente no!» sbottò McDermott.

«Perché?» chiese Cavendish.

«Troppo rischioso. Troppe incognite. Una cosa è entrare in contatto radio. Abbiamo gli esperti e le attrezzature necessari. Ma “non” giocheremo ai pirati spaziali, non ci impadroniremo di una nave extraterrestre. Se vogliono metterla in orbita attorno alla Terra, lo faranno da soli.»

«In pratica, quindi» disse Stoner, in tono sempre più alto «passeremo i prossimi mesi nel tentativo di ottenere una risposta, e quella nave sfiorerà il nostro pianeta e uscirà per sempre dal Sistema Solare. Diremo arrivederci agli alieni, mentre potremmo mettere le mani sull’oggetto?»

«Può darsi che “non voglia” lasciarsi catturare» disse qualcuno.

Cavendish, appoggiando i gomiti sul podio, chiese: «Presumendo che a bordo ci sia un equipaggio, giusto?»

«Oppure un computer intelligente.»

«Un computer maledettamente intelligente, se ha guidato l’oggetto su distanze interstellari.»

«Non siamo autorizzati» insistette McDermott, piegando le spalle come un giocatore di football sul punto di colpire l’avversario «a tentare di intercettare l’astronave.»

«Fateci avere l’autorizzazione, allora» disse Stoner «prima che sia troppo tardi, prima che l’oggetto ci superi.»

«Per prima cosa dovremmo cercare di stabilire il contatto radio» disse Zworkin. «Se “c’è” un equipaggio…»

«Certo» convenne Stoner. «Però cominciamo anche a fare i preparativi necessari per un rendez-vous.»

Il viso di McDermott si stava imporporando di rabbia. «Avete idea delle dimensioni di un’impresa simile?»

Stoner si concesse un sorriso. «Dato che sono l’unico astronauta di tutto il gruppo, sì, credo di averla.»

«Non abbiamo tempo per giocare ai cadetti dello spazio!»

«Non avete tempo per nient’altro. Se questa astronave sfiora la Terra e se ne va senza che noi scopriamo qualcosa…»

«Ci metteremo in contatto radio» disse McDermott.

«E cosa succede se non risponde? Se non troviamo la frequenza giusta e l’oggetto si limita a ignorarci?»

Zworkin si alzò e indirizzò un leggero inchino a McDermott, come per scusarsi. «Credo che il giovanotto abbia ragione» disse, e la sua voce cantilenante quasi non arrivò alla fila di Stoner.

McDermott fece per ribattere, ma il russo continuò: «Naturalmente, dobbiamo essere pronti a incontrare la nave aliena nello spazio, e, se sarà possibile, a portarla sulla Terra per uno studio accurato. Raccomanderò questa linea di condotta all’Accademia Sovietica. Forse l’Unione Sovietica potrà mettere a disposizione navi e uomini, se gli Stati Uniti non possono.»

McDermott sembrava sul punto di soffocare, ma riuscì a dire: «Capisco. E io raccomanderò alla Casa Bianca che la NASA sia, pronta all’eventualità di questa missione.»

Stoner si rimise a sedere, dopo aver ricevuto un’occhiata assassina da Big Mac.

“Hai vinto la prima battaglia” si disse Stoner. “Ma questa sarà una guerra lunga e sporca.”

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