Adamo ed Eva erano astronauti provenienti dallo spazio, e arrivarono sulla Terra seimila anni fa.
Giunsero su un’astronave che riempì di meraviglia le primitive popolazioni dell’epoca, e da qui, per spiegare lo straordinario evento, è sorta la leggenda del Giardino dell’Eden.
È questa la stupefacente conclusione raggiunta dal dottor Irwin Ginsburgh, noto fisico, che ha studiato la Bibbia e gli antichi testi religiosi per trent’anni.
«Le mie ricerche dimostrano che Genesi non è un mito, bensì una brillante documentazione scientifica che ci racconta l’inizio della creazione» dice il dottor Ginsburgh, che ha pubblicato il libro sulle sue sconcertanti scoperte.
Ed Erich Von Daniken, un ricercatore noto in tutto il mondo che ha offerto le prove della presenza di antichi astronauti nel suo libro Chariots of the Gods?, ha dichiarato all’“Enquirer”: «Sono convinto che le conclusioni del dottor Ginsburgh sono vere.»
Il locale era piccolo, anche rispetto alla media delle palestre di scuola superiore, ma pieno zeppo di gente.
Gli spettatori, seduti su panche di legno, osservavano con attenzione e curiosità la figura snella e bionda sulla linea media del campo di basket.
Stringendo il microfono in mano, tenendolo talmente vicino alle labbra che ogni suo respiro riecheggiava sulle pareti di mattoni della palestra, Willie Wilson intonava la sua litania: «E qual è la cosa che Gesù odia?»
«Il peccato!» urlarono le voci eccitate della folla. Il grido esplose nella palestra, rimbalzò sulle pareti nude, rombò nelle orecchie.
«Cos’è?»
«“Il peccato!”» urlarono gli spettatori, più forte.
«Fatemelo sentire!»
«IL PECCATO!» ruggirono.
Fred Tuttle, vicecomandante della marina degli Stati Uniti, si coprì con le mani le orecchie indolenzite e sorrise. Era seduto nell’ultima fila di panche, con la schiena alla parete. A differenza del resto della folla, che portava jeans e maglietta, Tuttle indossava calzoni stirati alla perfezione e camicia. La giacca del vestito era accuratamente ripiegata sulle sue ginocchia.
«Questo mondo è pieno di peccato!» stava urlando Willie Wilson nel microfono. «Sta morendo per il peccato! E chi può salvare un mondo tanto peccaminoso? Chi è “l’unico” che possa salvare questo mondo moribondo?»
«Gesù!» strepitarono. «GESÙ!»
«Gesù Cristo, nostro Signore e Salvatore, giustissimo.» La voce di Wilson si abbassò a un sussurro roco, e gli echi che rimbalzavano lungo le pareti si spensero. La folla si protese in avanti, ansiosa di udire ogni parola di Wilson. «Però Gesù non può farlo da solo. Se volesse, potrebbe, ma non è così che Dio agisce. Non è così. Dio non fa le cose da solo. Se Dio avesse seguito da solo la Propria strada, non avrebbe mai creato l’uomo. Non avrebbe mai creato questa carne peccaminosa e questo mondo peccaminoso. Non avrebbe mai inviato il Suo unico figlio, il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, fra noi, a mostrarci il cammino. Vero?»
Un mormorio di: «Sì» passò tra la folla.
«Gesù Dio vuole salvare questo mondo. Vuole salvare voi! Egli vi ama. Vi ha creato a Propria divina immagine, ricordate? Vuole che voi siate come Lui, e con Lui, in paradiso per l’eternità.»
«Amen» urlò qualcuno.
«Amen a te, fratello» rispose Wilson, asciugandosi con la mano libera il sudore dalla fronte. «Gesù vuole salvarvi. Salvare il mondo. Però Gli serve il vostro aiuto. Non ha creato questo mondo per Sé. L’ha creato per voi, per ognuno di voi. Ed Egli non lo salverà se non Gli mostreremo, non Gli proveremo, che vogliamo essere salvati!»
Un uomo elegante, coi capelli castani tagliati corti, si fece strada fra gli ascoltatori rapiti e sedette vicino a Tuttle.
«È in mano nostra» disse, chinandosi a parlare direttamente all’orecchio di Tuttle.
Il vicecomandante accennò uno «Zitto!» con le labbra e alzò una mano per far tacere l’altro.
Willie Wilson, col vestito blu ormai inzuppato di sudore, stava terminando il sermone. «Questo “è il nostro” mondo. Gesù Dio l’ha creato per noi e l’ha dato a noi. Ci ha creati per essere qui, per essere felici, per andare e moltiplicarci. Per adorare Lui e odiare il peccato. Ci ha creati nella Sua divina immagine, e quando noi pecchiamo, quando voltiamo la schiena a Gesù, trasformiamo quell’immagine divina in qualcosa di orribile e malvagio.»
Fece una pausa, scrutò a semicerchio la folla.
«C’è da rifletterci sopra, vero? C’è da meditare. Preghiamo, dunque. Meditiamo su quanto sia facile peccare e quanto sia difficile restare nel giusto. E mentre noi meditiamo, i Sacri Cantanti Rock inneggeranno al Signore a modo loro.»
La folla lanciò un ruggito d’approvazione, e un drappello di giovani donne e uomini in tunica, armati di chitarre elettriche e altri strumenti, apparve al centro della palestra.
Tuttle si girò verso l’uomo che aveva a fianco. «Vuoi ripetere?»
«È in mano nostra. L’abbiamo preso oggi pomeriggio. Lo stanno portando alla casa.»
«Bene.»
«Lo spero. Non è più come ai vecchi tempi. Abbiamo agito solo sulla base del tuo ordine.»
«Ha opposto resistenza?» chiese Tuttle.
«No.»
«Quindi, strettamente parlando, vi ha seguito di sua spontanea volontà.»
«Spero che una storia del genere regga, in tribunale.»
«Non si andrà in tribunale.»
«Guarda che non si può più fregare il Servizio di Sicurezza e fare quello che ci pare.»
I Sacri Cantanti Rock si lanciarono in un gospel abbondantemente amplificato. La folla lo riconobbe subito e si mise a battere le mani a tempo.
«Vi coprirò le spalle io» urlò Tuttle. «Era della massima importanza prendere Stoner prima che spifferasse tutto.»
L’uomo al suo fianco rispose qualcosa, ma le parole si persero nella musica e nel battito delle mani.
«Cosa?» gridò Tuttle.
L’uomo, disgustato, scosse la testa, si alzò e uscì fendendo la folla.
Intontito, Keith Stoner sedeva sul letto della stanza dove l’avevano portato. Era un letto comodo, con una bella trapunta bianca sopra. La stanza era piccola ma accogliente. Un camino mai usato in un angolo, un’unica poltrona ricoperta da una stoffa a fiori. Il comodino, una lampada, una sveglia digitale, uno scrittoio, porte che davano su un armadio e in bagno.
E la porta che dava sul corridoio. Chiusa a chiave.
I due uomini che si erano presentati come agenti del servizio segreto della marina avevano trascinato Stoner nella loro Plymouth nera senza dargli la possibilità di dire una sola parola a qualcuno. Solo Jo Camerata sapeva cosa gli era successo.
Avevano viaggiato per ore, e dopo un po’ Stoner aveva capito che stavano deliberatamente cercando di confonderlo, per essere sicuri che lui non riuscisse a ricostruire in seguito il percorso. Col buio, viaggiavano ancora nella campagna nel New England, in genere lungo stradine secondarie.
«Dove diavolo stiamo andando?» aveva chiesto.
«Si calmi» aveva risposto l’agente al suo fianco, sul sedile posteriore. Si chiamava Dooley. L’altro, il più robusto, guidava, il corpo massiccio proteso sul volante.
Stoner aveva cercato di non perdere d’occhio i cartelli stradali, ma procedevano lungo strade secondarie, nell’oscurità totale. Ai loro lati, forse, sfilavano campi aperti, o grandi edifici, o addirittura l’oceano: il cielo si era rannuvolato, e non c’erano lampioni su quelle vie.
Alla fine, avevano imboccato un sentiero di ghiaia. Stoner aveva visto i tronchi enormi di alberi antichissimi, sferzati dalla luce dei fari. Una casa si era profilata davanti a loro: grande, vecchia e tozza, ricoperta da assi di cedro grezzo. La macchina aveva rallentato, e alla luce dei fari Stoner aveva visto aprirsi automaticamente la porta di un garage. Erano entrati in garage e si erano fermati.
«Aspetti un attimo» aveva detto Dooley.
Stoner, immobile, aveva sentito abbassarsi la saracinesca del garage. Poi si erano aperte le portiere dell’auto.
«Okay.»
L’autista era sceso prima di Stoner, e lo attendeva impassibile accanto alla portiera.
«Lei non corre proprio rischi, eh?» aveva detto Stoner.
Dooley si era concesso un sorriso minimo. «Con una cintura nera? L’abbiamo vista in azione.»
“Poveri porci terrorizzati” aveva pensato Stoner. “Hanno soltanto pistole e proiettili.”
L’avevano condotto in casa, una vecchia fattoria yankee palesemente ristrutturata da un miliardario. Le stanze rimaste intatte erano piccole, con soffitti talmente bassi che le travi quasi sfioravano la sua testa. Camini in ogni locale. E termoconduttori elettrici. Finestre termiche. Una cucina scintillante, ultramoderna, e dietro il soggiorno, un secondo cucinino che fungeva da angolo-bar. Il soggiorno era tutto nuovo, ampio, spazioso, con un grande soffitto a cattedrale. In fondo al soggiorno, porte scorrevoli a vetri che davano su una piscina. Non proprio olimpionica, ma piuttosto grande.
L’avevano guidato al primo piano, lungo una scala stretta.
«Questa sarà la sua stanza, dottor Stoner» aveva detto Dooley, aprendo la porta della camera da letto, «Nell’armadio ci sono vestiti che dovrebbero andarle bene. Lì c’è il bagno con la doccia. Calzini e biancheria intima li troverà nei cassetti dello scrittoio.»
«Per quanto fottuto tempo dovrò restare qui?» aveva chiesto. «Non ho diritto a una telefonata, o qualcosa del genere?»
Dooley aveva fatto un altro sorriso cupo, «Le porteremo noi la cena. Domattina verrà qualcuno a parlare con lei. Niente telefonate.»
E così, Stoner se ne stava seduto sul letto, a guardare le gocce di pioggia che cominciavano a cadere sui vetri bui della finestra, ad ascoltare la pioggia che tamburellava sulla vecchia casa.
“È così che devono essersi sentiti quando i nazisti li hanno portati a Dachau” pensò. “Stupiti… confusi… del tutto impreparati.”
E per tutto questo poteva esistere un’unica spiegazione, capì. Volevano tenerlo sotto controllo, impedirgli di rivelare al mondo quello che aveva scoperto.
Il che significava che era davvero prigioniero.