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Ma se anche incontrassimo vita sugli altri pianeti di questo Sole, appare estremamente improbabile che possa essere vita intelligente. Le probabilità sono incredibilmente a sfavore; dato che il Sistema Solare ha come minimo cinquemila milioni d’anni, è del tutto irragionevole ritenere che altre creature razionali lo dividano con noi in questo momento.

Per trovare i nostri simili, o, più probabilmente, esseri che ci sono superiori, dobbiamo guardare alle stelle. Abbiamo ancora scienziati conservatori… pronti a negare la speranza che ci sarà mai possibile superare l’abisso che la luce stessa impiega anni a percorrere.

È un’assurdità. Nel futuro prevedibile… riusciremo a costruire esploratori robot diretti alle stelle, così come quelli che abbiamo oggi sono in grado di raggiungere Marte e Venere. Impiegheranno anni per i loro viaggi, ma prima o poi ci porteranno la notizia che non siamo soli.

Questa notizia potrebbe anche giungerci, più in fretta e più dettagliata, sotto forma di onde radio o altri messaggi… Anche oggi, se si pensasse che ne valga la pena, potremmo costruire un trasmettitore capace di inviare segnali alle stelle più vicine.

Arthur C. Clarke

Voices from the Sky — 1965


Stoner sfiorò la tastiera del computer. Il terminale, che sembrava una macchina per scrivere, era in precario equilibrio sul tavolo della sala da pranzo. Accanto si trovava il terminale video, e sullo schermo danzavano lettere in verde pallido e simboli. La stanza era ingombra di fogli di stampati e fotografie. Un’intera parete della sala da pranzo era adesso coperta da scaffali che Stoner, con l’aiuto delle sue guardie, aveva ricavato usando assi e mattoni. Ogni scaffale rigurgitava di libri.

La casa, però, non era più soltanto sua.

Oltre alle muscolose guardie della marina che tenevano sotto controllo l’esterno e che a intervalli fissi frugavano la casa, mettendo in disordine la cucina e controllando tutte le porte e le finestre, arrivava sempre più gente da Washington e da altri posti e si installavano nel grande soggiorno affacciato sulla piscina. Quasi tutti erano militari, e le loro valigie erano piene di piani logistici. Stoner li sentiva discutere, a volte urlare, perché la porta scorrevole della sala da pranzo era sottilissima. Discutevano di approvvigionamenti e posti letto, di premi d’assicurazione e parti di ricambio elettroniche.

Stoner cercava, per quanto gli era possibile, di evitarli. Restassero pure in soggiorno, purché non interferissero col suo lavoro. Escludeva dalla mente le loro voci rimbombanti e si concentrava sul compito di identificare l’orbita della nave spaziale, usando le fotografie di Big Eye e il computer per analizzarne il percorso.

“Dev’essere una nave spaziale” continuava a ripetersi. “Non può essere un oggetto naturale.”

McDermott si presentava lì con regolarità, e nemmeno le più spesse porte di quercia riuscivano a smorzare la sua voce profonda, echeggiante. Veniva spesso anche Tuttle, ma il piccolo vicecomandante era troppo preso dalla programmazione delle loro mosse per raccontare qualcosa a un semplice astrofisico.

Nonostante tutto, Stoner udì qualche frammento di quelle conversazioni. Il progetto aveva ormai un suo nome in codice; PROGETTO JUPITER. E le discussioni, in genere, vertevano sulla base da dare al PROGETTO JUPITER. McDermott continuava a urlare che era meglio Arecibo. Però, sempre più spesso, le altre voci gli contrapponevano un altro nome: Kwajalein.


«Cosa stai facendo?» chiese Jo.

Si mise a sedere sul letto e, per modestia, si tirò la coperta sul petto. Era una domenica di metà novembre, di primo mattino. La luce dell’alba entrava dalle finestre.

Jo era arrivata, come sempre, il venerdì sera, con una cartella piena di foto di Big Eye sotto il braccio. Recavano tutte la stampigliatura “Confidenziale” ed erano indirizzate a Stoner. Le foto erano state trasmesse, via laser, dal telescopio orbitale al Goddard Space Center della NASA, nel Maryland. Da lì erano passate, via cavo fotografico, al quartier generale della marina, sulla baia praticamente deserta di Boston. Ogni venerdì pomeriggio Jo andava a prenderle al palazzo grigio della marina e le portava a Stoner nel New Hampshire. E si fermava per il week-end.

Stoner sedeva al piccolo scrittoio d’acero che le guardie della marina gli avevano procurato, chino su un mucchio di fogli.

«Sto scrivendo una lettera» disse «a un mio vecchio amico. È stato mio insegnante. Un astrofisico, Claude Appert. Vive a Parigi.»

«È francese?» chiese Jo.

«Francese quanto la torre Eiffel.» Stoner terminò l’indirizzo sulla busta e si girò verso Jo. «Voglio che me la imbuchi quando torni a Cambridge.»

Lei inarcò le sopracciglia.

«Non mi permettono di spedire lettere da qui» spiegò Stoner. «Specialmente per l’estero.»

«Cosa gli hai scritto?»

Lui piegò due fogli sottili di carta e li infilò nella busta. «Gli chiedo se qualcuno degli astronomi europei ha captato segnali radio insoliti da Giove.»

«È una violazione dell’impegno alla segretezza, no?» domandò Jo.

Scuotendo la testa, Stoner rispose: «Non gli ho detto che abbiamo scoperto qualcosa. Gli chiedo solo se ha notizie.»

Jo disse: «La marina non permetterebbe…»

«Stammi a sentire» scattò lui. «Ci stanno usando, Jo. Non capisci? Usando. Abbiamo fatto una scoperta incredibile, e loro cosa fanno? Pensano solo a tenerla segreta e a cercare di sfruttarla a fini militari.»

«Ma…»

«Ma niente! Noi passiamo la vita a tentare di strappare tutti i segreti possibili all’universo, e loro ci trattano come se fossimo al loro servizio. Rubano le nostre scoperte e le trasformano in armi. Ci mettono da parte appena ne hanno voglia, appena decidono di dare un taglio ai finanziamenti per la ricerca. Persino il bestiame viene trattato meglio! Il governo spende più denaro per sovvenzionare la fottuta industria del tabacco, che provoca il cancro, di quanto non ne spenda per le ricerche sul cancro.»

«E questo cosa c’entra con i segnali radio?» chiese dolcemente Jo.

Stoner si era alzato per continuare la predica, scordandosi di essere nudo. «Appena scopriamo qualcosa che possa servire al loro potere, una nuova idea che li aiuti a tenere sotto controllo o a uccidere la gente, ci legano alla catena e non ci lasciano più lavorare a nient’altro.»

«Non viviamo in un mondo pacifico, Keith.»

«Questo lo so. Ma qual è la prima reazione di Tuttle alla possibilità che abbiamo scoperto vita intelligente? Nessun senso di meraviglia. E nemmeno curiosità. Nemmeno paura! Vogliono solo mettere le mani sulla tecnologia che gli alieni potrebbero possedere, per migliorare le loro armi.»

Jo non parlò.

«È per questo che vogliono nascondere la notizia a uomini come Sagan e Phil Morrison. Perché sono famosi a livello internazionale. Potrebbero convincere le Nazioni Unite o qualche altra organizzazione internazionale a creare un programma unico a livello mondiale. I militari non vogliono! Ecco perché mi hanno chiuso qui come un prigioniero. Ecco perché vogliono trasferire tutta quanta la loro maledetta operazione a una base militare segreta. Vogliono che questa faccenda resti un segreto.»

«Lo so.»

«Be’, io invece voglio svelare la verità» disse Stoner, agitando la busta. «Ecco a cosa serve questa lettera.»

«Keith, non farai altro che metterti in grossi guai.»

«Siamo già nei guai» ribatté lui «e finché riusciranno a tenere segreta questa faccenda, il mondo intero è nei guai.»

«Non so se devo imbucarla, Keith» disse Jo.

Stoner andò a sedersi sull’orlo del letto, accanto alla ragazza. «Imbucala. Non possono mettermi nei guai più di quanto non ci sia già. Ed è importante che l’intera comunità scientifica sappia cosa sta succedendo qui.»

Riluttante, Jo prese la lettera. Guardò l’indirizzo, poi si girò ad appoggiare la busta sul comodino, vicino alla borsetta.

Stoner non le disse che il secondo foglio era indirizzato all’autore del libro che aveva letto poche sere prima. Un linguista russo che aveva scritto un’interessante monografia sui possibili linguaggi extraterrestri: il professor Kirill Markov, di Mosca.


Trascorsero altre settimane, e Stoner continuò pazientemente a lavorare da solo, mentre nell’altra stanza proseguivano le discussioni.

“McDermott ci aveva promesso un inverno caldo” sorrise fra sé Stoner. “Sarà il primo d’aprile prima che ce ne andremo dal New England.”


Thompson portò l’inglese alla casa in un gelido mattino, uno di quei giorni del New England quando il sole splende in un cielo assolutamente azzurro, ma l’aria è una massa freddissima di correnti polari che arrivano dal Canada e fanno scendere sotto zero i termometri per giorni e giorni.

Da dentro, lo spettacolo era bellissimo: la luce abbagliante del sole che si rifrangeva sulla neve immobile, gli alberi che alzavano nel cielo di cristallo i rami nudi, Stoner, alzandosi, trascorse due minuti ad ammirare il panorama.

Poi scese subito in sala da pranzo e si mise a battere sulla tastiera del computer, esasperato perché i dati sulla nave spaziale erano tutti troppo recenti e non permettevano di individuarne con sicurezza il punto d’origine. Una zaffata d’aria fredda gli disse che qualcuno era entrato dalla porta sul retro della cucina.

Stoner non si prese il disturbo di alzare gli occhi. Il terminale cominciava a trasmettere le risposte alle sue ultime equazioni, stampando automaticamente, scrivendo sul foglio a una velocità follemente inumana, mentre numeri e simboli si concretizzavano più in fretta di quanto lui riuscisse a seguirli.

Jeff Thompson disse: «Ciao, Keith. Hai da fare?»

Stoner girò la poltroncina, con una risposta acida già pronta, ma vide che con Thompson c’era un uomo anziano.

«Keith, il professor Roger Cavendish.»

Stoner aveva davanti un uomo sulla sessantina, alto e inagrissimo, con pochi capelli bianchi, un viso ossuto, occhi infossati, sopracciglia folte. In cappotto e sciarpa, i guanti in una mano, l’uomo rivolse a Stoner un mezzo sorriso enigmatico.

«Il professor Cavendish?» chiese Stoner. «Di Jodrell Bank?»

«Sì» rispose dolcemente Cavendish. «In persona. Non mi dica che la mia fama mi ha preceduto.»

«Le sue ricerche sulle molecole organiche nelle nubi interstellari non sono esattamente sconosciute» disse Stoner. Poi si alzò e porse la mano all’inglese.

La mano di Cavendish era fredda, la sua stretta senza entusiasmo.

«E lei è il signor Keith Stoner, l’astronauta, eh?»

«Ex astronauta.»

«Sì. Infatti.»

Thompson portò via i cappotti e urlò dalla cucina che avrebbe preparato il tè.

«C’è il caffè istantaneo, se preferisce» propose Stoner.

Cavendish rabbrividì, letteralmente.

Stoner si spostò in soggiorno. Quando vide la piscina, Cavendish aggrottò le sopracciglia foltissime.

«Mio Dio, che splendore. È riscaldata?»

«Sì.»

«Naturalmente. Che domanda stupida. Se no, con questo clima sarebbe una pista da pattinaggio, no?»

Stoner sorrise. «Questa stanza viene tenuta molto riscaldata. I militari e quelli dei servizi logistici si riuniscono qui.»

«Ah. Vedo. Com’è logico, si prendono tutte le comodità possibili.»

Indicandogli una poltrona, Stoner chiese: «Cosa la porta qui?»

Cavendish si accomodò, allungò le gambe magrissime. Era il ritratto perfetto dell’accademico inglese: vestito informe di tweed, golf sotto la giacca, cravattino a farfalla storto.

«La NATO, in effetti» rispose. «Quelli dei suoi servizi segreti hanno fatto domande interessanti sui segnali radio, e così quelli dei nostri servizi segreti hanno sommato due più due, e alla fine è intervenuta la NATO. Una cosa ha portato all’altra, ed eccomi qui.»

«Rappresenta la NATO?»

«Certamente.»

«E verrà con noi quando ci trasferiremo ad Arecibo, o Kwajalein, o dove ci manderanno?»

«Signore, spero di no. Ho già trascorso abbastanza anni nei paradisi tropicali.»

Stoner si appoggiò all’indietro sulla poltrona, riflettendo. “Così hanno messo di mezzo la nato. Forse la mia lettera a Claude è stata utile. Chissà se ha trasmesso il mio messaggio a quel linguista russo.”

Thompson arrivò con un vassoio e tre tazze. Stoner prese la sua: caffè. Un sorso lo convinse a non permettere mai più a Thompson di preparargli il caffè.

«Il professor Cavendish è stato prigioniero di guerra per quasi cinque anni» disse Thompson. «Nel Pacifico.»

«In Birmania, per la precisione» disse Cavendish. «Il ponte sul fiume Kwai, e cose del genere. Molto spiacevole. Meglio scordarsene se ci si riesce.»

Nel giro di pochi minuti, lasciarono da parte le rispettive origini e vite, per mettersi a parlare di lavoro.

«Non possediamo dati sufficienti» ammise Stoner «per permetterci di rintracciare il punto d’origine dell’oggetto. Non credo che riusciremo mai a sapere da dove venga.»

«Però le informazioni che avete dimostrano che non può essere stato lanciato da Giove» disse Cavendish.

«Credo di sì» disse Stoner. «Abbiamo preso in considerazione ogni possibile punto di lancio. Se la nave spaziale è apparsa nelle vicinanze di Giove nello stesso momento in cui sono iniziati i segnali radio, è assolutamente impossibile che sia stata lanciata da Giove. Assolutamente impossibile.»

«È una prova negativa» disse Thompson.

«E per questo tanto più decisiva» disse Cavendish. «Se possiamo escludere con certezza che Giove sia il punto di partenza di questo visitatore, abbiamo già concluso parecchio.»

«Immagino che la prossima mossa sia eliminare gli altri pianeti.»

«Semplicissimo. Direi che il vostro computer possa masticare quei numeri piuttosto in fretta.»

Stoner allungò le gambe, si sdraiò in poltrona. Appoggiò la tazza di caffè sulla fibbia della cintura e disse: «Ormai è stabilito. Quella cosa proviene dall’esterno del Sistema Solare. Abbiamo le cifre che lo dimostrano.»

«Le avremo» disse Thompson «tra pochi giorni.»

«Però così la faccenda diventa ancora più curiosa, no?» chiese Cavendish.

«Perché?»

«Be’, se proviene dall’esterno del Sistema Solare, da un’altra stella, quel benedetto oggetto deve aver impiegato migliaia d’anni per arrivare. Anzi, più probabilmente milioni d’anni.»

«Se è una sonda senza equipaggio…»

«Anche senza equipaggio…» Cavendish agitò la tazza di tè, ormai vuota. «…Una macchina capace di restare intatta e operare alla perfezione per millenni? Per un’eternità? Difficile da credere.»

«Per le macchine “umane”.»

«E se avesse un equipaggio?» rifletté Thompson. «Anche le nostre navi spaziali hanno funzionato meglio quando a bordo c’erano astronauti in grado di riparare i guasti.»

«Ma è il benedetto fattore “tempo” a rendere così difficili tutti questi ragionamenti» insistette Cavendish. «Se ammettiamo che un’astronave viaggi da una stella all’altra, occorrerebbero tanti secoli che l’equipaggio dovrebbe essere pronto a trascorrere sulla nave l’intera esistenza… Più le esistenze di figli, e nipoti, e pronipoti. Dozzine di generazioni, non capite?»

«Non se la nave fosse in grado di viaggiare alla velocità della luce, o quasi» disse Stoner.

«Gli effetti relativistici» mormorò Thompson. «La dilatazione del tempo.»

«Maledettamente improbabile» ribatté Cavendish. «E, a dire il vero, le sue osservazioni dimostrano che sta viaggiando a un velocità piuttosto bassa, un po’ come le sonde Voyager e Mariner.»

Thompson finì di bere e si alzò. «Comunque, una cosa è certa. Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, quel maledetto oggetto è impossibile.»

«Però esiste» disse Stoner.

«Ahh» disse Cavendish, con un sorriso sempre più accentuato. «È questo che rende interessante la scienza, no?»

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