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Cocoa Beach, Florida

«Ma perché devi andare proprio “tu”?» chiese lei.

Lui uscì in un altro sospiro d’esasperazione. «Per la ventesima volta, Marge: mi “hanno ordinato” di andare.»

«Ma tu non sei un astronauta! Non possono ordinarti di volare nello spazio.»

«Col cavolo che non possono.»

«Sei un medico, non un astronauta.»

«Sono un colonnello dell’esercito dello Zio Sam, e quando l’ordine arriva dalla Casa Bianca, io mi metto sull’attenti e rispondo: “Sissignore”.»

«Tu “vuoi” partire!»

«Ho una paura matta! Ma ho ricevuto ordini. Cosa posso fare?»

«Sei troppo vecchio per andare nello spazio.»

«Non sullo Shuttle. Sarò un semplice passeggero, come su un aereo… Senti, Marge, sono solo un paio di settimane. Dobbiamo mettere in quarantena quei due dopo il contatto con l’alieno…»

«Ti prenderai i germi alieni! Lo so!»

«Non fare la stupida. È solo tanto rumore per nulla. Gli organismi alieni sono “alieni”. Non possono infettarci. Quelli della Casa Bianca se la fanno sotto, ed è soltanto per questo che dobbiamo provvedere a una quarantena di due settimane. In orbita, Cristo Santo!»

«Ho paura, Sam.»

«Non devi preoccuparti di niente, sul serio.»

«I germi alieni…»

«Ma io non sarò nemmeno a contatto diretto con quei due che effettuano il rendez-vous con l’alieno. Li chiuderemo in un laboratorio sigillato tutto per loro. Tutti i test verranno eseguiti con apparecchiature comandate a distanza, e chiunque entrerà in laboratorio indosserà una tuta spaziale.»

«Ma perché te, Sam? Perché hanno scelto te?»

«Non preoccuparti, tesoro. Quando tornerò, sarò un uomo importante. Mi vorranno in televisione, e tutto il resto. Andremo in pensione alla grande, Marge. Molto alla grande.»


Markov, seduto alla finestra della camera da letto, fumava una sigaretta dopo l’altra, osservando il lungo tramonto estivo che gradualmente lasciava posto all’oscurità.

Il tempo era nuvoloso, e probabilmente tra poco avrebbe cominciato a piovere. Ma non faceva alcuna differenza. Anche nelle notti più limpide, la luce dei riflettori rendeva impossibile vedere le stelle. E, in ogni caso, le navi spaziali erano talmente lontane da essere invisibili da terra.

Le prime gocce colpirono il vetro, scivolarono sul riflesso del viso cupo di Markov. Prese un’altra sigaretta, l’accese col mozzicone di quella precedente. La brace brillò per un attimo, ricordandogli la macchina diabolica che Maria aveva usato a Kwajalein.

“Dove sarà”? si chiese. Sua moglie era uscita dopo pranzo e non era ancora tornata.

Irrequieto, Markov consultò l’orologio. Sei ore al rendez-vous con l’aerocisterna.

Jo aveva ragione. Stoner non avrebbe mai rinunciato al contatto diretto con la nave aliena. Non senza lottare.

Sospirò, aspirò il fumo della sigaretta. Adesso la pioggia cadeva a goccioloni. L’immagine riflessa dal vetro gli disse che si stava di nuovo tirando la barba. Irritato, si alzò, cominciò a passeggiare nella piccola stanza, le mani in tasca.

Sentì in corridoio il passo pesante di Maria, corse alla porta. Quando l’aprì, vide che sua moglie era stata sorpresa dalla pioggia: era fradicia, i capelli appiccicati al viso, l’uniforme incollata al corpo tozzo.

Poi vide i suoi occhi.

«Marushka, cosa c’è? C’è qualcosa che non va? Hai l’aria di chi ha appena visto un fantasma.»

Lei entrò nella stanza, chiuse la porta con un colpo secco, vi si appoggiò pesantemente.

«È proprio così» sussurrò, con voce stranamente roca, ansimante. «Due fantasmi.»

«Cosa vuoi dire?» chiese Markov, abbassando automaticamente la voce.

«Federenko e Stoner» mormorò lei. «Sono morti.»

«Cosa?»

«Non ancora» disse Maria, alzando le mani per calmarlo. «Ma lo saranno. Tra sei ore.»

A Markov parve che una tigre gli avesse artigliato lo stomaco. «Cosa significa? Cosa stai dicendo?»

«La cisterna» rispose lei, scrutando la stanza, quasi fosse in grado di individuare a occhio nudo i microfoni che potevano esservi nascosti. «La cisterna lanciata dagli americani. Esploderà.»

«Sono stati “gli americani”?»

«No.» Maria scosse la testa, impaziente. «I nostri. Una fazione molto in alto…»

«Uccideranno il nostro cosmonauta? E anche Stoner?»

Maria era spaventata. «Tu non capisci, Kir. È una lotta per il potere. All’interno del Cremlino stanno lottando per diventare padroni del campo. Per loro, noi siamo solo pedine, Kir. Meno che pedine.»

«E la cisterna esploderà?»

«Quando entrerà in contatto con la Soyuz. Uno dei nostri tecnici ha messo il timer appena prima che la cisterna venisse caricata sulla nave americana.»

Markov ricadde sul letto. «Maria… Ucciderli, ucciderli tutte due, per i loro giochi di potere… È mostruoso.»

«Non credevo che avrebbero ucciso anche Federenko» disse lei. «Non l’ho mai pensato.»

Markov seppellì il viso tra le mani. La sigaretta cadde sul pavimento di legno, brillò tra le ombre.

Maria andò a inginocchiarsi davanti a suo marito. «Mi spiace, Kir. Ho rischiato l’osso del collo per scoprire questa verità, per te, e adesso mi spiace di averlo fatto.»

«Non è colpa tua, Marushka.» La voce di Kirill era soffocata dalle lacrime.

«Non possiamo fare niente» disse lei. «Niente.»

Ma Markov abbassò le mani, si raddrizzò, fissò sua moglie negli occhi.

«Sì, qualcosa possiamo fare» disse, deciso.

«Kir…»

«C’è “qualcosa” che possiamo fare, Maria. Possiamo avvertirli.»

«Ma così scopriranno che io… Kir, ci uccideranno tutt’e due.»

«Allora moriremo assieme» disse lui. «Sarà sempre meglio che lasciar assassinare quei due uomini nello spazio.»


«Sei depresso» disse Federenko.

Stoner alzò gli occhi dallo schermo del computer, guardò il cosmonauta seduto al suo fianco.

«Non mi sembri troppo allegro nemmeno tu, Nikolai.»

«Come potrei esserlo? Arrivare fin qui e non poterci incontrare con l’alieno… Non è allegro.»

«Ho confrontato le cifre del computer con gli ultimi dati sulla traiettoria della cisterna. Possiamo ancora farcela, se tu riesci ad agganciare la cisterna al primo passaggio.»

Federenko chiuse gli occhi un attimo, come per studiare mentalmente il problema. «Non è facile, Shtoner.»

«Vuoi che ci provi io?»

Il russo rise. «Tu? Non sei il pilota; sei il passeggero.»

«Allora tocca a te» ribatté Stoner.

La risata si spense. «Vedo» disse Federenko. «Mi avevi preparato la trappola, eh?»

«Voglio che tu capisca quanto è importante. Devi effettuare l’aggancio con la cisterna al primo tentativo. Se no, addio alieno.»

Federenko annuì, con aria infelice. «Hokay, Shtoner. Hai vinto. Aggancerò la cisterna al primo passaggio.»

Stoner sorrise. «Visto? Non ero per niente depresso.»


Markov correva alla cieca sotto la pioggia. Le sue gambe lunghe lo trascinavano automaticamente verso il centro di controllo. Zworkin. Il vecchio scienziato non era in camera, quando Markov aveva bussato alla sua porta.

“Dev’essere al centro di controllo” si ripeté Markov. “Deve esserci.”

Maria era alle sue spalle, in quella corsa disperata verso l’edificio grigio, senza finestre, del centro. La pioggia cadeva forte, costringendolo a tenere gli occhi appena socchiusi.

“Zworkin è l’unico che possa salvarli. Se cerco di parlare col servizio di sicurezza, ogni speranza è persa. Zworkin! E, tramite lui, Bulacheff.”


Stoner non capiva l’affannato discorso russo che stava arrivando via radio, ma dall’espressione cupa del viso di Federenko era chiaro che non si trattava di buone notizie.

Il cosmonauta rispose quasi con rabbia al controllo a terra, e parole ancora più concitate uscirono dalla radio.

Stoner si girò verso lo schermo radar, un minuscolo disco arancione sul pannello tra i loro due sedili. Mostrava un forte segnale di ritorno quasi perfettamente allineato alla nave. Si protese leggermente per guardare dall’oblò, e sì, eccola lì. Una mezza luna di metallo sullo sfondo del buio costellato di stelle.

La cisterna, finalmente. Tanto vicina da essere visibile a occhio nudo.

Però, scrutando l’espressione truce di Federenko, Stoner ebbe un brivido d’apprensione. Sembrava che gli avessero appena ordinato di attaccare a mani nude tutto l’esercito cinese.

«Cosa c’è, Nikolai? Perché hai quell’espressione?»

Federenko si girò verso di lui, un’espressione sconfitta negli occhi.

«La cisterna. Non dobbiamo avvicinarci. Un’avaria.»

«Cosa?»

«Molto strano, a quanto mi dicono. Un’avaria ai circuiti di autodistruzione dell’aerocisterna. Pensano che possa esplodere.»

Le mani del cosmonauta si tesero verso gli interruttori che comandavano i motori di manovra della nave.

«Aspetta!» urlò Stoner. «Se non agganciamo la cisterna, non possiamo completare la missione!»

«Ma se eseguiamo l’aggancio… Bum!»

Stoner si agitò sul sedile. «Non ci credo. Com’è possibile…?»

Con l’angolo degli occhi intravvide un lampo di luce. Tutti e due tesero la testa verso l’oblò. Nel silenzio più perfetto, l’aerocisterna esplose: tre piccole fiammate seguite immediatamente da un’enorme sfera di fuoco che quasi li accecò.

Stoner chiuse di scatto gli occhi. Federenko borbottò sottovoce qualcosa che l’americano non riuscì a capire.

La sfera di fuoco svanì nel nulla, lasciando sulle pupille di Stoner un bagliore intensissimo. Non ci furono onde d’urto, o rumori, e nello spazio non apparvero frammenti. Sembrava quasi che avessero visto un film muto. Stoner non riusciva a credere che fosse successo davvero.

«Andata» disse gravemente Federenko.

Stoner si sfregò gli occhi, poi guardò di nuovo fuori dall’oblò. Nulla, se non stelle lontanissime.

«Andata» ammise. «E adesso a che punto siamo?»

«Siamo due uomini morti, Shtoner. Senza il carburante della cisterna, non possiamo tornare sulla Terra.»

Passò qualche minuto prima che lui comprendesse sino in fondo il significato di quella risposta. Alla fine, si sentì dire: «Però abbiamo carburante a sufficienza per il rendez-vous con l’alieno, no?»

Federenko gli lanciò un’occhiata lunga, solenne. «Da» disse. «Tutto il carburante che ci occorre per le manovre.»

«E allora eseguiamo questo rendez-vous!» disse Stoner. «È per questo che siamo venuti qui, no? Facciamolo!»

Sul viso di Federenko apparve un pallido sorriso. «Sapevo che l’avresti detto, Shtoner.»

«Cos’altro potremo fare?» ribatté Stoner, stranamente eccitato. «Forza, andiamo!»

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