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SCONTRO TRA REVIVALISTI E RELIGIOSI E SOSTENITORI DEGLI UFO

SAN DIEGO. Ieri sera a Marineland del Pacifico, si è verificato un inizio di disordini a un raduno di revival religioso all’aperto: i seguaci dell’evangelista urbano Willie Wilson si sono scontrati con i sostenitori degli UFO infiltratisi tra la folla.

Secondo la stima della polizia, più di seicento persone erano stipate nella zona del raduno per ascoltare il reverendo Wilson venuto a predicare il suo messaggio “Scrutate il cielo”. Non appena il reverendo ha iniziato a parlare, un gruppo organizzato di sostenitori degli UFO ha cominciato a urlare e ad agitare cartelli di protesta. Sono scoppiati diversi incidenti, che la polizia, in assetto da combattimento, ha immediatamente sedato. «È un impostore» ha detto Fred W. Weddell, un esperto locale di UFO, parlando del reverendo Wilson. «Sta cercando di spaventare la gente con le sue prediche da fine del mondo. Lo sappiamo tutti che gli UFO sono pacifici e amici.»

Il reverendo Wilson ha dichiarato: «Il mio è un messaggio di pace e speranza. Non ha nulla a che fare con gli UFO. Io sto semplicemente dicendo alla gente che un Grande Cambiamento sta per investire il mondo, e che per individuarlo dovremmo tutti scrutare il cielo.»

Negli incidenti sono rimaste ferite diciassette persone, due delle quali sono state ricoverate in ospedale. La polizia ha arrestato otto…


Si stava preparando un temporale.

Stoner aveva vissuto troppo a lungo nel New England per non riconoscere i segni premonitori.

Alla televisione, il notiziario delle undici (due uomini insignificanti, talmente simili che potevano essere cloni, tutte due con una giacca color oro e abbinati a una spagnola dalla pettinatura complicatissima che scambiava con loro chiacchiere idiote) aveva previsto un tempo “chiaro e freddo, con minimi notturni attorno allo zero, venti da ovest leggeri e variabili”.

Ma adesso, poco dopo mezzanotte, il vento mugghiava all’esterno della casa nel New Hampshire. Un’occhiata dalle finestre del soggiorno mostrò a Stoner nubi che passavano sulla faccia della luna. Gli alberi agitavano i rami spogli. La casa cominciò a scricchiolare come un’antica nave di legno su un mare agitato.

Cavendish, che ormai divideva la casa con Stoner, guardò fuori dalla finestra e rabbrividì. «Dio, e pensare che i Puritani hanno affrontato un clima come questo. Dovevano essere completamente impreparati.»

Stoner rise fra sé. “È questo l’inverno da cui Big Mac doveva salvarci. L’inverno che dovevamo trascorrere in Portorico.”

Seduto al tavolo della sala da pranzo, circondato dalle foto di Giove scattate da Big Eye e da stampati di computer, Stoner studiò l’inglese. Cavendish stava fumando la pipa. Sotto la giacca di tweed portava il maglione. Poi girò la testa, e da sotto le sopracciglia foltissime scrutò le foto che erano sparse sul tavolo.

Battendo col dito sul punto luminoso di una fotografia, Cavendish chiese: «Sei proprio sicuro che questa cosa provenga dall’esterno del Sistema Solare?»

«Sì» rispose Stoner.

«È una certezza matematica la tua?»

«Controlla tu le cifre. È un turista, un visitatore giunto dall’esterno di questo Sistema Solare.»

«Hmmm.» Cavendish soffiò verso il soffitto una nuvola di fumo. «E i segnali radio si sono interrotti.»

«Ormai è passata quasi una settimana. Niente.»

«Così, di colpo… Si è spento.»

«È quello che mi ha detto Jeff Thompson. E adesso la nave si sta allontanando da Giove, riparte.»

«Allontanando? Sul serio?»

«È quello che indicano le cifre del computer. Ha dato un’occhiata a Giove, e ora se ne va. Forse torna a casa.»

Cavendish non parlò per qualche momento. L’aroma del tabacco era piacevole, quasi tranquillizzante.

«E non c’è niente di abbastanza vicino a noi che possa ragionevolmente ritenersi la casa di questo mostro, eh?» chiese l’inglese.

Stoner scrollò le spalle. «Alpha Centauri dista più di quattro anni luce, ma non ci risulta che possegga pianeti.»

«Infatti. La stella dotata di pianeti più vicina a noi è la 61 Cygni, no?»

«La stella di Barnard» lo corresse Stoner «se accettiamo i risultati di Van de Kamp. Quella non dista nemmeno sei anni luce.»

«Davvero?» Cavendish restò a fumare con aria assorta per qualche momento. Le nuvolette di fumo si alzavano pigramente verso il soffitto basso e inclinato della stanza.

Stoner si spostò con la sedia al terminale del computer, che si trovava all’estremità del tavolo. Le sue dita danzarono veloci sulla tastiera.

«E dov’è diretta quella benedetta cosa?»

«È quello che vorremmo sapere tutti. Il computer ci sta lavorando. Sembra che stia uscendo dal sistema solare. Se estendiamo il vettore attuale di velocità, passerà parecchio al di sopra dell’eclittica e tornerà nello spazio profondo.»

«Quindi tu pensi che stia tornando a casa, vero?»

«Penso che sia diretta a un altro Sistema Solare.»

«Ma che uscirà completamente dal “nostro”» disse Cavendish.

«Esatto.»

«Senza farci visita.»

Stoner alzò gli occhi dalla tastiera. «Per quell’oggetto non siamo poi troppo importanti, immagino. È una nave aliena. È entrata nel nostro Sistema Solare, si è diretta al pianeta più grande che abbia trovato, ha dato un’occhiata, e adesso se ne va. Forse ha già visitato Saturno prima che la scoprissimo, non so. Comunque, direi che le creature che l’hanno mandata sono originarie di un pianeta gigante, come Giove o Saturno. Probabilmente non possono nemmeno immaginare che su un pianeta piccolo e caldo come la Terra esista vita.»

«È un bel colpo per il nostro ego, no?» mormorò Cavendish.

«La cosa più triste è che non si avvicinerà tanto da poterla studiare nei particolari.»

«Già. Che peccato.»

Con un sospiro che non si era accorto di avere dentro, Stoner annuì. «Niente più segnali radio, e il visitatore alieno se ne sta andando. A conti fatti, forse non ci sarà bisogno di Kwajalein.»

«Curioso.»

«Maledettamente frustrante.»

Cavendish cominciò a passeggiare nella stanza. «Lavori sempre fino a quest’ora?»

Stoner si appoggiò all’indietro sulla sedia. «Speravo che entro stanotte il computer potesse fornirci una proiezione precisa della traiettoria, per poter capire almeno esattamente dov’è diretta la nave aliena. Però dev’esserci qualche difetto nel computer. Non arrivano dati.»

«Forse la macchina si è messa a dormire?» Cavendish lo disse con un sorriso.

«Non dorme mai.»

«E nemmeno tu, a quanto sembra.»

«Ultimamente anche tu fai le ore piccole, professore.»

Il sorriso di Cavendish franò. «Sì, vero. Il fatto è che per me il sonno è una brutta bestia. Sogno, purtroppo.»

Stoner girò la sedia, per seguire i passi dell’inglese.

Ma Cavendish cambiò argomento. «E così, sta uscendo dal Sistema Solare.» Indicò col cannello della pipa il computer silenzioso.

«A quanto sembra.»

«Bene. Liberiamocene. Un pensiero in meno. Occidente e Oriente cominciavano già a litigarci. Sarà una benedizione se quella cosa maledetta scomparirà.»

Stoner era sorpreso. «Ma non scopriremo mai da dove viene, chi l’ha mandata, cosa significa.»

Cavendish scrollò le spalle fragili. «Sappiamo già la cosa più importante, no? Non siamo soli. Non conta nulla chi l’abbia costruita o da dove provenga o perché sia stata mandata qui. Il fatto essenziale è che adesso sappiamo, al di là di ogni possibile dubbio, che là fuori, tra le stelle, esistono altre intelligenze. Non siamo soli nell’universo.»

«Lo sappiamo “noi”» grugnì Stoner «ma il resto del mondo non lo sa.»

«Oh, col tempo lo sapranno tutti. Il mondo intero lo verrà a sapere prestissimo.»

«Non se le cose vanno come vorrebbero Tuttle e Big Mac.»

«Non accadrà» gli assicurò Cavendish, «Non per molto tempo, in ogni caso. Prima o poi la notizia si diffonderà.»

Stoner aspettò che l’altro aggiungesse qualcosa. Ma Cavendish si avvicinò alla finestra e restò a guardare la notte tempestosa, emettendo nuvole di tabacco blu, aromatico. Il vento urlava, e dall’alto giunse il gemito di un jet lontano.

Con un’occhiata al terminale del computer, stranamente zitto, Stoner si alzò, diretto al telefono in soggiorno.

«Torno fra un minuto» disse a Cavendish. «Chiamo il centro computer. Voglio sapere cosa diavolo sta succedendo a questa macchina.»

«Bene» disse Cavendish. «Nel frattempo, penso che mi verserò un brandy. È una notte perfetta per bere un goccio.»

«Certo. Versane uno anche a me, se non ti spiace.»

«Senz’altro» disse Cavendish.


Jo sedeva su una poltroncina, davanti alla consolle centrale d’input del computer. La luce dei pannelli a fluorescenza che scendeva dal soffitto immergeva la stanza in un’eternità senza tempo. Non c’erano finestre; impossibile capire se fosse giorno o notte.

“Come in un casinò di Las Vegas” si disse Jo. “Vogliono che tutta l’attenzione sia concentrata sulle macchine, non su distrazioni come il sole o la pioggia.”

L’orologio alla parete segnava le dodici e qualche minuto. Jo sapeva che era mezzanotte, ma un chiodo insistente nel cervello le ripeteva che forse si sbagliava, che forse oltre le pareti solidissime del centro computer, splendeva il sole.

«Senti, esco a prendere un caffè.»

Stupita, alzò gli occhi e vide l’altro studente neolaureato che quella settimana faceva con lei i turni di notte.

«Ne vuoi uno anche tu?» Il ragazzo le sorrise. Un viso dolce, giovane, senza rughe. Stava tentando di farsi crescere la barba, ma solo qualche peluzzo biondo gli ornava il mento.

«No, grazie. Mi sono portata da mangiare.»

«Okay. Torno tra dieci, quindici, minuti. Non aprire la porta a nessuno. Ho la chiave.» Gliela mostrò. «A quest’ora ci sono in giro troppi matti per correre rischi.»

«Non mi succederà niente» disse Jo.

«Okay.»

Il ragazzo uscì, fischiettando sottovoce.

Quando la pesante porta d’acciaio si fu chiusa alle sue spalle, Jo si alzò, mosse gambe e braccia intorpidite, e si mise a fare flessioni. Gli unici suoni nella stanza erano il ronzio a sessanta periodi delle luci, il rombo più accentuato del computer, e i respiri ritmici di Jo.

Il computer stava lavorando a qualcosa: un problema che impegnava buona parte dei suoi circuiti. Emetteva un ronzio continuo, e le luci si accendevano e spegnevano senza che uscisse una sola riga stampata, da quando Jo era arrivata, un’ora prima.

“Forse sta lavorando a un problema per Keith” pensò lei abbassandosi sui talloni. Una smorfia le piegò gli angoli delle labbra. “Sono passate più di due settimane, e non ha mai chiamato, non ha nemmeno dato un messaggio al dottor Thompson o a uno degli altri che lo vanno a trovare. Non gliene importa niente di me. Non gliene frega un accidenti di me. Se l’è spassata, e basta.”

Squillò il telefono.

Con un grugnito, la ragazza si alzò e raggiunse l’apparecchio incorporato nella consolle, accanto a una tastiera.

«Centro computer» rispose.

«Sono il dottor Stoner» disse la voce di Keith. Sembrava leggermente seccato. «Con chi parlo?»

«Keith…» Jo cercò di nascondere l’affanno improvviso della voce, cercò di dirsi che era solo per le flessioni.

«Jo? Sei tu?»

«Sì.»

«Adesso lavori al centro computer?»

Lei annuì, poi capì quanto fosse assurdo annuire. «Sì. Mi hanno messa qui. Per questa settimana, faccio il turno di notte.»

«Come va?»

«Va…» La ragazza esitò, riordinò i pensieri. «Va tutto benissimo, Keith. E tu?»

«Lo stesso, più o meno.» Anche la voce di lui si fece guardinga. «Non possiamo dirci troppe cose al telefono, immagino.»

«No. Credo che le misure di sicurezza…»

«Sì, lo so.»

All’improvviso, lei non ebbe più niente da dire.

Dopo un attimo di silenzio, luì chiese: «Come ti tratta Big Mac?»

Un lampo d’elettricità traversò il corpo di Jo. “Sa tutto?” si chiese.

«Jeff Thompson mi ha detto che ha scritto una lettera di raccomandazione per te alla NASA.»

Lei sentì la rabbia gelida delle sue parole. Con la stessa freddezza, ribatté: «Esatto, Keith.»

«Buon per te» disse Stoner, acido. «Sei una ragazza che sa quello che vuole. Spero che tu lo ottenga.»

“Idiota, mentecatto!” avrebbe voluto urlare lei. “Credi che lo stia facendo per me?”

Però gli disse: «Va tutto alla perfezione, Keith.»

«Sono pronto a scommetterci.»

«Perché hai chiamato?» gli chiese, freddissima.

Lo sentì tirare il fiato prima di rispondere: «Un paio d’ore fa ho inserito un problema di traiettoria, e da allora il mio terminale si è bloccato. Cosa succede? Un problema del genere non dovrebbe richiedere tanto tempo al computer.»

«Il computer è in funzione da quando sono arrivata qui» disse lei. «I tuoi problemi di traiettoria hanno un’infinità di varianti, richiedono tempi molto lunghi.»

«Be’, controlla, ti spiace?»

«Certo» disse lei. «Sono qui per questo.»

Jo attese che lui rispondesse, dicendo qualcosa, qualsiasi cosa. Persino la rabbia avrebbe indicato che lei gli stava a cuore.

Invece, lui si limitò a borbottare: «Grazie.»

“Non gliene importa niente” capì lei. “Non gliene è mai importato. Nemmeno per un istante. Si preoccupa di più per il suo maledetto programma che per me.”

«Non c’è di che» disse Jo. E riappese.


Stoner udì la voce di lei, gelida, lontana come la stella più remota: «Non c’è di che.»

La comunicazione s’interruppe.

“Puttana” pensò. “Andrebbe a letto con chiunque possa aiutarla. Be’, spero che si diverta con Big Mac.”

Sbatté giù il telefono. Si sentì invadere dalla furia, e capì che la sua rabbia non era rivolta a Jo, nemmeno E McDermott, ma a se stesso.

“Sei proprio un uomo in gamba, Stoner” si disse. “Te ne stai qui e gli permetti di tenerti prigioniero e ti racconti che il tuo lavoro è più importante dei legami personali, e quello che in realtà vorresti fare è sbattere giù quella porta fottuta e correre fuori a prendere la ragazza e portartela nella tua caverna.”

«Senti che vento!»

Con un sobbalzo, Stoner si girò: Cavendish era apparso sulla soglia del soggiorno, un bicchiere di brandy in ogni mano.

Stoner respirò profondamente, riportò sotto controllo le sue emozioni impazzite, costrinse il cuore a rallentare i battiti frenetici; distese, sulla furia che sentiva ribollire dentro, un manto di impenetrabile freddezza.

«Ti senti bene, Keith?» gli chiese Cavendish traversando la stanza.

Stoner annuì, perché non aveva ancora il coraggio di parlare. Accettò il bicchiere che l’altro gli porgeva.

Cavendish alzò il bicchiere, fece un sorriso smorto. «Alla salute» brindò.

«Alla salute» disse Stoner. Sorseggiò il cognac, che gli scese in gola come fuoco liquido.

Cavendish portò la sedia a dondolo davanti al caminetto scoppiettante e si accomodò con un sospiro di stanchezza. «Che notte» disse. «Che notte. Si sente il vento che ulula nel camino.»

Stoner sedette sulla poltrona davanti all’altro, poi chiese: «Perché non riesci a dormire?»

«Hmmm? Cosa?»

«Hai detto che non dormi bene.» Un argomento neutro. Stoner sentiva la rabbia affondare dentro di sé, fuggire nell’angolo nascosto dove sarebbe rimasta senza che nessuno potesse notarne la presenza.

«Brutti sogni» rispose Cavendish, fissando le fiamme. «Sono rimasto prigioniero dell’esercito imperiale giapponese per quattro anni… Lo stesso tempo, più o meno, che un fotone impiega per viaggiare da Alpha Centauri alla Terra.»

«Dev’essere stata dura.»

«Oh, quello è stato solo l’inizio.» Una raffica di vento fece sbattere i rami di un albero contro il tetto, e Cavendish alzò sul soffitto due occhi spiritati. «I giapponesi ci hanno trasferiti in Manciuria giusto in tempo per permettere ai russi di farci prigionieri, quando si sono decisi a entrare nella guerra del Pacifico.»

«I russi stavano dalla nostra parte.»

«Stavano dalla parte di Stalin. E Stalin aveva deciso che tutti gli scienziati su cui fosse riuscito a mettere le mani, persino un esperto di fisica matematica, giovane, denutrito e malato, dovessero restare in Unione Sovietica a lavorare per lui, lo volessero o meno.»

«Ti hanno tenuto in Russia?»

«In Siberia. Voialtri avevate appena messo a punto la vostra maledetta bomba atomica, e Stalin aveva una fretta del diavolo di recuperare le distanze.»

«Credevo che fossero le spie a passare ai russi le informazioni sull’atomica…»

«Balle! L’unico vero segreto della bomba atomica era che funzionava, che si poteva costruirla e farla esplodere per bene. E quel segreto l’avete svelato a Hiroshima. Anche questa astronave aliena, del resto, ci ha svelato un solo grosso segreto: che esiste, che proviene da un pianeta che non è la Terra.»

«Per quanto tempo ti hanno tenuto in Russia?»

«Anni. Finché non è morto Stalin e i suoi successori hanno cercato di allentare un po’ la tensione. Non è stato facile nemmeno allora, però. Prima di mollarmi, mi hanno fatto fare un viaggio di andata e ritorno all’inferno.»

«Cioè?»

Cavendish ebbe una smorfia di dolore. «Quei porci del KGB si erano messi in testa che potevo diventare una spia meravigliosa per loro, una volta rientrato in Inghilterra. Mi hanno sottoposto a tutti i metodi di lavaggio del cervello… e intendo proprio tutti. Ecco perché ho paura di dormire.»

Cominciarono a tremargli le mani.

«Però non hai ceduto» disse Stoner.

«Certo che ho ceduto! E ho giurato che sarei stato una brava spia dei sovietici. C’è voluto parecchio per convincerli. Sono molto meticolosi.»

Stoner restò a fissarlo, in attesa di altre confessioni.

«Be’, quando sono tornato in patria e la testa mi si è schiarita un tantino, ho raccontato tutta la storia al servizio segreto inglese. Ne sono rimasti deliziati. Mi hanno detto che potevo fare l’agente doppio, cioè fingere di lavorare per i rossi, mentre in realtà avrei lavorato per la Corona.»

«Cristo santissimo.»

«Già. Io non volevo lavorare né per gli uni né per gli altri, ma da allora ci sono in mezzo. Il vero motivo per cui sono qui è che sia il KGB sia il servizio segreto inglese mi volevano qui.»

«Stai scherzando!»

«Mi piacerebbe tanto. I russi stanno già studiando i segnali radio, però non hanno un telescopio orbitale che possa trasmettere dati sulla nave spaziale. Io dovrei passare all’URSS i dati di Big Eye.»

«E la marina lo sa?»

«La vostra marina? No. Nemmeno la NATO, credo. A quanto capisco, gli inglesi sono curiosi di scoprire cosa state combinando. La marina americana non ha ancora passato tutte le informazioni ai vostri colleghi della NATO.»

«La legge della giungla» mormorò Stoner.

«Infatti. In questo mestiere non si hanno amici. Nemmeno uno. Chiunque potrebbe essere il tuo nemico. Chiunque potrebbe essere il tuo assassino.»

«Assassino?» ripeté Stoner. «Vuoi dire che qualcuno potrebbe cercare di ucciderti?»

Per la prima volta, Cavendish scoppiò a ridere: una risata rauca, stridula, deprimente. «Non me, caro ragazzo. Te. Io sono solo una rotellina dell’ingranaggio che tutt’e due le parti usano. Se c’è un assassino nascosto nell’ombra, vuole la tua testa, non la mia.»

Stoner lo fissò a bocca aperta. Lentamente, chiese: «Stai cercando di mettermi in guardia, o…?»

All’improvviso, il terminale del computer tornò in vita. Stoner e Cavendish schizzarono via dalle sedie e corsero in sala da pranzo, dove l’unità stampante stava scrivendo a ritmo folle. Righe e righe di numeri apparivano sul lungo rotolo di carta che girava sul rullo della macchina.

«Cos’è?» chiese Cavendish, il bicchiere di brandy ancora in mano. «Cosa sta dicendo?»

«Gli ultimi dati sull’astronave…» Stoner alzò il foglio a livello degli occhi, per poter leggere le prime serie di cifre senza doversi chinare sulla stampatrice.

Poi fischiò piano. «Ovvio che il computer abbia dovuto rimasticare i dati per tante ore. Quella maledetta cosa ha cambiato rotta.»

«Cosa?»

«Sta accelerando.»

«Impossibile!»

«Guarda qui.» Stoner indicò le cifre. «E qui. E ancora qui.»

Cavendish sbottò: «Per me potrebbe anche essere sanscrito! Non conosco questo tipo di linguaggio!»

«L’astronave si è data una spinta» spiegò Stoner. «Qui, e qui.»

«Sta facendo manovra? Cambia rotta?»

«Sì.»

«Allora dev’esserci un equipaggio a bordo!»

«O un computer terribilmente intelligente.»

«Ma dov’è diretta? Qual è la nuova rotta?»

Con una sensazione atroce di vuoto allo stomaco, Stoner si chinò sulla stampatrice. La macchina si fermò di colpo, come di colpo si era rimessa in funzione qualche attimo prima.

«Allora?»

Stoner fissò l’ultima fila di cifre. Non aveva bisogno di consultare tabelle. Aveva imparato a memoria quei numeri settimane prima, perché aveva temuto, o sperato, o forse sognato, di trovarseli prima o poi, inevitabilmente, sotto gli occhi.

«Dov’è diretta quella fottuta cosa?» chiese Cavendish.

«Qui» disse Stoner.

Cavendish spalancò la bocca.

«Qui» riuscì a sussurrare dopo un po’. «Vuoi dire sulla Terra?»

Stoner annuì, «Ha finito di studiare Giove. Adesso è diretta verso la Terra.»

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