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Cremlino

«E perché il segretario generale non è presente?» chiese il ministro alla produzione industriale.

Borodinski, seduto a capo del lungo tavolo, rispose: «È indisposto. Mi ha chiesto di presiedere la riunione in sua vece.»

Tutti si scambiarono occhiate incerte. Dei sedici posti attorno al tavolo, cinque erano vuoti. Le persone che li occupavano abitualmente non avrebbero più rivisto l’interno del Cremlino.

Borodinski presentò l’accademico Bulacheff, seduto all’estremità opposta del tavolo, e aprì la discussione sulla nave spaziale aliena.

«Allora dobbiamo seguire il progetto di mandare dei cosmonauti a dare il benvenuto all’alieno?» chiese il ministro degli esteri.

«È il piano del segretario generale» disse Borodinski.

«Ma con un americano sulla “nostra Soyuz”?» mugugnò il ministro per la sicurezza interna, che era vicino a Borodinski; le sedie ai suoi due lati, però, erano vuote.

«Sì» disse Borodinski.

«Potrà spiare le nostre basi di lancio, le nostre apparecchiature… Tutto!»

«Non è una spia» disse Bulacheff, con voce sorprendentemente vigorosa. «È uno scienziato, non un agente segreto.»

Un silenzio mortale scese sulla sala. Borodinski dovette soffocare una risata. “L’accademico è troppo nuovo a queste riunioni per mostrare il dovuto rispetto al nostro uomo più temibile” pensò. Poi rifletté: “O forse è talmente vecchio che non ha più paura di correre rischi? Questo visitatore alieno dev’essere molto importante per lui.”

Il ministro per la sicurezza lanciò un’occhiataccia a Bulacheff, poi, lentamente, si portò alle labbra una lunga sigaretta col filtro.

«Effettueremo il lancio per l’astronave aliena» disse Borodinski, secco «e l’americano salirà sulla nostra Soyuz. Ovviamente, sarà presa ogni precauzione per fare in modo che non acquisisca informazioni che non desideriamo fornirgli.»

Il generale Rashmenko sorrise a tutti con aria incoraggiante. «Non c’è di che preoccuparsi. I nostri missili possono distruggere l’alieno… e, con l’alieno, l’americano. Mi basta solo fare una telefonata.»


Il ministro per la sicurezza interna alzò il bicchiere alla luce del lampadario. Il vino rosso scuro brillò nel calice di cristallo. Lentamente, cautamente, il ministro assaggiò il vino.

Schioccando le labbra, appoggiò il calice sulla tovaglia di damasco e sentenziò: «Eccellente. Davvero eccellente!»

Il suo ospite, al capo opposto del tavolo, s’illuminò di soddisfazione.

«Viene dai nostri compagni ungheresi. Lo chiamano “sangue di toro”.»

Il ministro rise. «Gente melodrammatica, gli ungheresi.»

«Però producono ottimo vino» disse il suo ospite, e fece un cenno ai camerieri alle spalle del ministro.

I camerieri cominciarono a servire il coniglio in umido nel piatto di porcellana del ministro. Il ministro era un uomo piccolo, calvo, con mani minuscole e delicate, da orologiaio. Però il suo viso era grossolano, quasi volgare: labbra spesse, naso carnoso, occhi stretti e infossati, spesso difficili da decifrare.

Il suo ospite, il direttore di una delle sezioni più importanti della sicurezza interna, era invece una figura elegante: alto, soavemente bello, con capelli color argento e un viso aristocratico, quasi ascetico, dolce nei modi, dotato delle maniere perfette del gentiluomo nato.

Quando arrivarono al dessert, il ministro era in uno stato d’animo rilassato, quasi gioviale.

«Ah, Vassili Ilyitch, è difficile credere che questa casa magnifica si trovi davvero a Mosca, qui, al giorno d’oggi. Mi sembra sempre di venir trasportato in un’altra epoca, quando la vita era più piacevole, più facile.»

«Prima della rivoluzione, compagno ministro?» chiese dolcemente il burocrate, un sorriso appena accennato sulle labbra.

L’espressione del ministro divenne immediatamente gelida.

«O forse» continuò il burocrate «la tua è una premonizione, una visione del futuro, quando il vero comunismo dominerà il mondo e tutti i popoli potranno vivere nella pace e nel lusso.»

«Così va meglio» ribatté, truce, il ministro. «Un giorno o l’altro, il tuo senso dell’umorismo ti metterà nei guai, Vassili.»

Il sorriso del burocrate si accentuò. «Ho sempre creduto che sarà il mio senso del lusso a farmi cadere in disgrazia.»

Anche il ministro rise. «Andiamo, amico mio! La vita è già abbastanza difficile senza che noi due ci mettiamo a discutere.»

«Molto vero! Vieni in biblioteca con me, Ho un cognac che ti interesserà.»

Un’ora dopo, il ministro sedeva in una comoda poltrona di pelle, il bicchiere in una mano, il sigaro nell’altra, e una smorfia corrucciata in viso.

«Parlarmi a quel modo» stava borbottando. «Quel moscerino d’accademico. Quello… Quello… “Quell’insegnante!”»

«L’accademico Bulacheff?» chiese il suo ospite.

«Bulacheff» abbaiò il ministro. «E di fronte agli altri.»

«Però il segretario generale non è intervenuto alla riunione.»

«È alle soglie della morte. Al suo posto c’era Borodinski.»

«Hmm. Borodinski.»

«Sì, so cosa stai pensando» disse il ministro.

Il suo ospite divenne estremamente serio. «Tu, compagno, hai potere di vita e di morte su Borodinski. Lo capisci, vero?»

«Io non userei esattamente questi termini.»

«Comunque è così. Borodinski ti vuole dalla sua parte. Se tu accetti, lui è al sicuro. Se ti unisci agli altri…»

«Non ci sono molti altri cui unirmi» puntualizzò il ministro. «Borodinski è un uomo molto attento.»

«Cosa farai?»

Il ministro fumò il sigaro per qualche istante, poi: «Cosa posso fare, se non mettermi con lui? Non ho nessun desiderio di vedere inasprire la lotta. Noi siamo al sicuro. Borodinski non creerà interferenze.»

«Ne sei certo?»

Il ministro sorrise, ma era un sorriso cupo. «Non hai di che preoccuparti, mio caro amico. Borodinski è abbastanza intelligente da evitare uno scontro con me, se io mi oppongo. Io resterò al ministero, e tu potrai tenerti la tua bella casa, e i servi, e la cantina piena di vini pregiati.»

«E te» aggiunse il burocrate, in un sussurro.

«Sì, anche me.»

Il burocrate sorrise.

«L’alieno, però» disse il ministro «è un’altra faccenda. Non permetterò agli americani di ficcanasare a Tyuratam, non senza insegnargli una lezione.»

«Ma gli americani hanno già visto Tyuratam anni fa, ai tempi della missione congiunta Soyuz-Apollo.»

«Allora era allora. Oggi è oggi. Non permetterò a Bulacheff e nemmeno a Borodinski di scavalcarmi in materia di sicurezza interna.»

«E cosa puoi fare? Gli americani stanno già arrivando qui.»

«Sì, lo so. Non posso impedirgli di arrivare a Tyuratam. Però posso impedirgli di raggiungere il loro scopo. Non entreranno mai in contatto con la nave aliena. Ci penserò io, e Borodinski saprà che sono stato io, e non sarà in grado di opporsi a me.»

Il suo ospite esalò un lungo sospiro. «Metti in gioco poste molto alte.»

«Borodinski deve capire che io non mi opporrò a lui, ma che nemmeno lui deve opporsi a me. Questa faccenda dell’astronave aliena e dell’astronauta americano è una buona occasione per insegnargli la lezione. Una lezione praticamente indolore, ma chiarissima.»

«Sì, vedo. Ma cosa farai per… insegnargli la lezione?»

Il ministro bevve d’un fiato il cognac, rimise giù il bicchiere. «Cosa?» chiese, secco. «Ucciderò l’astronauta americano, ovviamente. Potrebbe esserci una via più semplice?»


Stoner trascorse l’ultimo pomeriggio a Kwajalein in una serie d’incontri con Thompson, Tuttle, i russi, tutti i capigruppo. Poi, all’improvviso, venne a trovarsi solo in ufficio.

In piedi dietro la scrivania, studiò la stanza: impersonale come una cabina telefonica. Aprì, l’uno dopo l’altro, i cassetti: non c’era nulla che gli servisse, nulla che volesse portare con sé, nulla che fosse suo.

Poi i suoi occhi si posarono sull’assurda noce di cocco, e sorrise piano.

«Tu» disse al frutto scuro, rotondo «farai un viaggio molto molto lungo.»

«Lo so.»

Stupefatto, alzò la testa e vide Jo ferma sulla soglia. Il suo sorriso si trasformò in una smorfia d’imbarazzo. «Uh… Comincio a parlare alle noci di cocco. Un segno di nervosismo, immagino.»

«A me non sembri troppo nervoso.» Jo entrò in ufficio. Indossava i soliti calzoncini e una camicetta sbottonata a metà. La sua pelle aveva un colorito olivastro. Un sorriso enigmatico nasceva agli angoli della sua bocca.

«Un autocontrollo d’acciaio» mormorò Stoner.

«Hai già fatto le valigie?»

«Ho quasi finito. E tu? Non salirai sull’aereo vestita a quel modo, per caso?»

«Ma no» rispose lei. «Pensavo solo di fare un’ultima passeggiata sulla spiaggia prima di cena, ho tutto il tempo per cambiarmi e prendere l’aereo.»

Lui annuì. «Be’, di certo non rimpiangerò la cucina di qui.»

Lei gli afferrò il braccio. «Vieni a fare due passi con me. Diamo l’addio all’isola assieme.»


Sottobraccio, a piedi nudi, passeggiarono sulla spiaggia lambita dalle onde, sulla sabbia calda. Il sole rosso del tramonto proiettava ombre lunghissime.

Oltre la laguna, oltre le isolette che la delimitavano, il sole stava affondando nell’oceano, e il mondo intero era soffuso d’oro. Uccelli volavano nel cielo solcato di nubi, lanciando richiami all’infinito.

«Il nostro ultimo tramonto a Kwajalein» disse Jo, stringendo il braccio di Stoner con tutt’e due le mani.

«Non siamo riusciti a goderci troppo tutta questa bellezza, eh?»

«C’è un sacco di cose che non siamo riusciti a fare» rispose lei. «Ci siamo persi molto della vita.»

«Lo so.»

«Quando tutto questo sarà finito, Keith, quando le nostre esistenze diventeranno un po’ più normali…»

«Succederà mai?»

«Deve succedere» disse Jo. «Non credi?»

«Non lo so. L’alieno cambia tante cose… Chi può dire cosa accadrà?»

Lei si girò di colpo, lo abbracciò, gli appoggiò la guancia sulla spalla. «Keith, ti prego, non farlo. Questa missione mi spaventa.»

Stoner assaporò il profumo dei suoi capelli. «Spaventa te? Non volevi fare l’astronauta?»

«Se partissi io, non avrei paura» ribatté la ragazza. «Ma ho un terrore folle per te.»

Lui rise, ma il suo corpo s’irrigidì. «Reynaud è convinto che i russi vogliano uccidermi.»

«Vedi?» Jo si scostò un poco, lo fissò negli occhi. «Non sono l’unica.»

«Ne ho parlato con Kirill. È un’idiozia.»

«L’ha detto esplicitamente?»

«Più o meno.»

«Più o meno cosa? Si è messo a ridere o l’ha presa sul serio?»

Stoner agitò una mano. «Una via di mezzo.»

«Keith, tu “sei” in pericolo.»

«Sarò ospite del governo russo. Lo saremo tutti. Non oseranno tentare qualcosa.»

«Sei testardo» disse lei. «E stupido.»

«Kirill mi proteggerà.»

Jo alzò le mani al cielo. «Bella guardia del corpo. Non è nemmeno capace di guidare una canoa!»

Stoner rise.

«Non farlo, Keith. Ti prego. Lascia che i russi lancino i loro cosmonauti verso la nave aliena. Resta a terra con noi.»

«No.»

«Keith, ho paura per te! Sono terrorizzata!»

«Lo so» disse lui «ma non ha importanza. Io sono un figlio di puttana senza cuore, okay? Però per me questa cosa è più importante di tutto il resto. È la mia vita. Non lo capisci? È più importante dei miei figli, di te, di qualsiasi altra cosa o persona. Devo farlo. “Ho bisogno” di farlo. Camminerei sul fuoco, se fosse necessario.»

Jo non rispose. Abbassò la testa, fissò la sabbia.

«Sbaglio a pensarla così? Sono un mostro?»

«Sì» rispose lei, dolcemente. «Lo sai che ti stai mettendo in pericolo. Però rifiuti ogni emozione umana, ogni bisogno umano. L’unica cosa che vuoi è fare questo volo, anche se sai che ti uccideranno.»

«Cosa posso dire? Sono davvero un mostro, dopo tutto.»

«Non un mostro, Keith» ribatté Jo, «Una macchina. Una macchina che si programma da sé. Ho visto come hai picchiato Schmidt. Lui era un animale, ma tu eri una macchina. Una macchina inumana, instancabile, senza emozioni. Niente ti può fermare. Tu superi ogni ostacolo, tutto quello che ti sbarra il cammino. Mac, Schmidt, l’intera marina… Persino i tuoi figli. Non c’è nessuno tra noi che possa fermarti.»

«È questo che pensi di me?» La voce di Stoner era un sussurro strangolato. Dentro, lui avvertiva una sensazione di gelo, di vuoto.

«È quello che sei, Keith» disse Jo, lottando per allontanare il tremito dalla propria voce.

Per un lungo momento, lui non parlò. Poi «Okay, Sarà meglio tornare. Devo ancora preparare qualcosa.»

«Sì. Anch’io.»

Rifecero lo stesso percorso in silenzio, e Stoner la lasciò all’entrata dell’hotel. Jo lo guardò allontanarsi, irrigidito dall’orgoglio o dalla rabbia o dal dolore, e capì che anche lui aveva emozioni, che era vulnerabile.

“Però di me non gli importa” capì anche. “Non c’è modo di portarlo a preoccuparsi di me.”

Corse dentro, salì alla sua stanza, chiuse la porta con un colpo secco.

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