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Centro Spaziale Johnson

«Ehi, uomo, è ora di uscire!»

Hank Garvey piazzò il suo corpo massiccio sulla scrivania dell’analista di computer e si chinò verso l’altro, più giovane e magro.

«C’è un’emergenza, ragazzo» disse Garvey, con voce mortalmente calma e bassa: un leone che si schiariva la gola prima del ruggito.

«Il prossimo turno…»

«Zio Sam vuole te» disse Garvey. «Tu sei lo stregone di computer più in gamba di tutto il centro. Lo so perché me l’hai ripetuto mille o duemila volte. Adesso dovrai dimostrarlo.»

«Ma mia moglie…»

Garvey appoggiò sulla spalla dell’analista una mano grossa come un pallone da football. «Il nostro Stoner e il suo amico russo sono in pericolo. La cisterna è esplosa.»

«Cristo!»

«L’astronave è intatta, nessun danno. Però non possono tornare qui, a meno che qualche cervellone non gli trovi un nuovo piano di volo e maledettamente in fretta. Hai capito?»

«Merda santissima!» disse l’analista di computer. «Perché non me l’hai detto subito? Okay, okay, alza le chiappe da lì e lasciami lavorare.»

Garvey fece un sorriso immenso. «Bravo, ragazzo.»


Il centro comunicazioni di Kwajalein era nel caos. Persino i tecnici alle consolle urlavano tra loro, in preda alla confusione.

Jeff Thompson stava urlando all’orecchio di Ramsey McDermott: «Non possiamo lasciarli proseguire! Più si avvicinano all’alieno, più sarà impossibile che tornino indietro!»

McDermott restò a bocca spalancata. Da quando, per la prima volta, aveva visto l’aurora boreale farsi beffe di lui, aveva perso cinque chili ed era invecchiato di dieci anni. Il colletto della camicia incorniciava un collo ormai avvizzito. Gli tremavano le mani. I suoi occhi erano privi di fuoco.

Edouard Reynaud, perfettamente guarito, strinse il braccio di Thompson. «Dovete richiamarli. Dovete ordinargli di tornare indietro!»

«Non posso…» mormorò McDermott.

«Ma possono inserirsi in un’orbita lunare» insistette Reynaud. «Ho già le cifre in testa. Dovrebbero avere carburante a sufficienza per la manovra.»

Thompson s’illuminò. «Giusto! Se riescono a inserirsi in orbita attorno alla Luna, forse potremmo lanciare qualcosa che li riporti giù.»

Ma McDermott scosse debolmente la testa. «Stoner non sentirà ragioni…»

«Silenzio!» urlò una voce amplificata.

Tutto si fermò. Le persone s’immobilizzarono dove si trovavano. La stanza piombò nel silenzio, a parte il ronzio delle consolle e dei condizionatori d’aria.

Il vicecomandante Tuttle, microfono in mano, era salito su una scrivania. Si guardò attorno per accertarsi che tutta l’attenzione fosse concentrata su di lui, poi lasciò cadere lungo il fianco la mano che stringeva il microfono.

«Questo è un progetto della marina» disse, con voce forte, sicura. «E io sono l’ufficiale di marina che ne è a capo.»

Thompson fissò il piccolo vicecomandante. Per la prima volta da che si conoscevano, Tuttle dava dignità all’uniforme.

«Lo scopo di questo progetto è entrare in contatto con la nave aliena. Stoner e il russo stanno cercando di farlo. Quindi, rimettetevi tutti al lavoro e smettetela di creare confusione.»

«Ma non riusciranno più a tornare sulla Terra!» urlò Reynaud, e il suo viso s’imporporò di rabbia o d’imbarazzo, o forse di tutt’e due le cose.

«Questo è un problema che dovremo affrontare» sbottò Tuttle. «Stoner ne è al corrente. È l’unico di tutti voi che non abbia perso la testa. Se è disposto a rischiare la vita per entrare in contatto con l’alieno, il minimo che gli dobbiamo è fare in modo che quanto scoprirà venga ricevuto qui e sia debitamente registrato per studi futuri. Adesso “mettetevi al lavoro”!»

Tutti si mossero. Truci, depressi, tra grugniti e sussurri, tornarono ai loro compiti.

Reynaud, che sotto la camicia inzuppata di sudore tremava, fissò il vicecomandante che scendeva dalla scrivania. Per la prima volta in molti anni, Reynaud conobbe una vera rabbia. Ma capì anche che Tuttle aveva ragione.


«Eccola!» urlò Stoner. «La vedo!»

Federenko distolse gli occhi dallo schermo radar, piegò la testa per guardare dall’oblò di Stoner.

«È luminosa» sussurrò.

Avevano raggiunto la nave aliena con il Sole alle spalle. L’immagine radar era stata inconsistente, quasi nebulosa, sulle onde lunghe. Però, quando Stoner aveva messo in funzione il radar a microonde, l’immagine era diventata più chiara e il segnale di ritorno molto più nitido, anche se meno forte.

Adesso la nave era visibile a occhio nudo.

Una strana luce dorata, una sorta di aura, la circondava. La nave era immersa nella luce. Erano ancora troppo lontani per distinguere i particolari, però l’oggetto sembrava possedere una forma oblunga, con una superficie liscia e angoli arrotondati.

«Ovvio che ai radar sulla Terra sembrasse una cometa» commentò Stoner.

«Cos’è quella luce?» chiese Federenko.

«Uno schermo?» ipotizzò Stoner. «Uno schermo di energia simile a un campo magnetico, forse. Per proteggerla dalle radiazioni cosmiche. E forse anche dalle micrometeore.»

Si stavano avvicinando in fretta. Stoner si alzò dal sedile, fluttuò nel modulo orbitale della Soyuz. Staccò il piccolo telescopio dal suo sostegno e lo puntò sulla nave dall’oblò più vicino.

«Se è giunta sin qui da un altro Sistema Solare, dev’essere rimasta nello spazio per centinaia di migliaia d’anni, come minimo» urlò per farsi sentire da Federenko. «Però la superficie è perfettamente liscia, intatta. Nessuna erosione meteorica. Nemmeno un’ammaccatura.»

«Di che colore è?»

«Difficile dirlo» rispose Stoner. «La luce che ha attorno dà un colore dorato a tutto.»

«Le telecamere stanno registrando?»

Stoner guardò il pannello dei comandi. Le luci delle telecamere erano accese, e anche quelle del trasmettitore video. «Sì» gridò.

Stoner restò in osservazione per quella che gli parve un’ora, mentre la Soyuz si avvicinava alla nave aliena e Federenko parlava col controllo missione. La superficie dell’astronave era perfettamente uniforme e liscia come lo scafo di un aereo supersonico. Non un chiodo, non una saldatura, nemmeno una decorazione.

Poi si accorse che avevano smesso di avvicinarsi. Lasciando il telescopio a fluttuare in aria, infilò la testa nel portello di collegamento col modulo di comando.

«Potremmo dare un’occhiata più da vicino, Nikolai. Non ci morderà.»

«No» ribatté Federenko, secco.

«E dai, abbiamo…»

«Ordini dal comando di terra. Stanno studiando una nuova traiettoria per riportarci giù.»

«Fantastico. Ma nel frattempo siamo qui!»

«Non dobbiamo più usare carburante» disse Federenko. «Scatta fotografie, descrivi la nave, riprendila.»

«Ma possiamo completare il rendez-vous!» insistette Stoner. «Cristo santissimo, è solo a un tiro di schioppo!»

«Un tiro troppo lungo. O tu sei campione olimpionico di questa specialità, per caso?»

«Andiamo, Nikolai!»

«Non dobbiamo consumare altro carburante» ripeté testardamente il cosmonauta. «Ordini. Le nostre vite dipendono dal carburante.»

Stoner tornò nel modulo orbitale, e scrutò dall’oblò la nave aliena. Adesso si poteva vedere chiaramente a occhio nudo. Sullo sfondo delle stelle, terribilmente vicina, era circondata dallo schermo luminoso d’energia che pulsava piano, come il respiro eterno di Dio.

Tutte due i velivoli sembravano fermi. Affiancati, erano lontani l’uno dall’altro un centinaio di metri: abbastanza vicini da toccarsi, ma troppo lontani per farlo. Stoner sapeva che l’immobilità di quell’incontro era un’illusione. Entrambe le navi si stavano allontanando dalla Terra, sempre più in pericolo di perdersi nello spazio a ogni secondo. La nave aliena stava uscendo dal sistema solare, tornava nell’abisso inimmaginabile tra le stelle; e, se anche loro non si fossero immessi al più presto su una nuova traiettoria, avrebbero perso contatto con la Terra per sempre.

Continuando a fissare il vascello alieno, Stoner pensò che a un milione e mezzo di chilometri da lì uomini e donne stavano lavorando freneticamente per portarli in salvo.

«In culo» mormorò. Poi afferrò la sua tuta a pressione, appesa alla parete opposta del modulo orbitale.

«Cosa fai, Shtoner?» urlò Federenko.

«Esco» rispose Stoner, cominciando a infilarsi la tuta. A gravità zero, non era un’operazione semplice. «Userò i jet di manovra per raggiungerla.»

«Non c’è carburante a sufficienza per i jet. La nave è troppo lontana.»

«Allora portaci un po’ più vicini, quel tanto che mi permetta di raggiungerla.»

«No.»

«Devi farlo, Nikolai!»

Federenko apparve al portello, una smorfia solenne in viso. «Voglio salvare le nostre vite, non ucciderci stupidamente.»

Nello sforzo d’infilarsi la tuta, Stoner si mise a galleggiare nel modulo. Per raddrizzarsi, appoggiò una mano al soffitto; i suoi piedi penzolavano a qualche centimetro dal pavimento.

«Siediti, Stoner» disse Federenko. «Calmati.»

«Senti, potrei prendere tutte due i jet, il tuo e il mio. Uno per arrivare alla nave, l’altro per tornare.»

«Pazzia.»

«Ma funzionerebbe!» disse Stoner. «Tra tutt’e due hanno carburante a sufficienza, no?»

Federenko girò la testa dall’altra parte.

«“Sì o no?”» Stoner lo afferrò alle spalle.

«Sì» rispose il cosmonauta. «Ma ti proibisco di farlo.»

Stoner ricominciò ad armeggiare con la tuta.

«Shtoner, il comandante sono io.»

«E io sono cintura nera terzo dan» disse lui, chinandosi a prendere gli stivali. «Vuoi aiutarmi o dobbiamo picchiarci?»

«Ti ucciderai.»

«Nikolai, se torniamo sulla Terra io dovrò continuare a vivere con me stesso. Credi che potrei, sapendo di essere arrivato così vicino senza fare l’ultimo passo? Quella cosa ha percorso anni luce per raggiungerci! Il minimo che possiamo fare è superare gli ultimi cento metri che ci dividono.»

Federenko non disse nulla. Con espressione solenne, restò a guardare Stoner che si metteva gli stivali e cominciava ad allacciare la tuta.

«Allora, vuoi aiutarmi o restare lì con quella faccia da funerale?» lo rimproverò Stoner.

Con una smorfia, Federenko tolse il suo paio di jet dalla parete e cominciò a sistemarne l’imbracatura.

«Stai uccidendo anche me» disse. Ma aiutò Stoner a sistemarsi i jet sulla schiena.


Gli schermi televisivi del centro di controllo mostravano la nave aliena, circondata di luce tra le stelle. La radio della Soyuz taceva da lunghi minuti.

Jo sedeva alla consolle coi nervi a fior di pelle, divorata dalla tensione. Aveva un paio di cuffie in testa.

«Forza, Houston» disse nel microfono. «Vi sento chiaramente.»

Markov era alle spalle della ragazza, e al suo fianco c’era Zworkin, protettivo come una gallina con i suoi pulcini. A pochi metri di distanza, uomini del servizio di sicurezza armati di mitragliatori. Altri uomini, uomini robusti e accigliati in uniforme nera, si aggiravano nel grande centro di controllo, scrutando tutti con aria sospettosa.

Numeri e simboli apparvero all’improvviso sullo schermo del computer, a velocità altissima. Jo alzò gli occhi sugli schermi che trasmettevano l’immagine della nave aliena. A una delle ottanta piattaforme di lancio di Tyuratam, un missile veniva rifornito in fretta e furia di carburante: una nuova aerocisterna che sarebbe stata lanciata con una traiettoria ad alta accelerazione. Gli americani, coi loro computer più veloci e più efficienti, stavano studiando il piano di volo che avrebbe permesso alla cisterna di raggiungere la Soyuz in tempo per salvare i due uomini. Jo era diventata l’elemento di collegamento fra il Texas e Tyuratam.

Il centro di comando ferveva di una frenesia tranquilla, organizzata. Computer e uomini lavoravano al massimo delle loro possibilità. Scrutando nel locale, Markov tenne d’occhio gli agenti del servizio di sicurezza: lo sguardo in continuo movimento, non tenevano mai le mani lontane dalle armi che avevano a tracolla.

“Come se ammazzare tutti potesse servire a qualcosa” si disse.

Zworkin era rimasto al telefono con Bulacheff per un’ora. Grandi sconvolgimenti si stavano preparando. Maria era stata richiamata dai suoi superiori per un interrogatorio. “O diventerà un eroe dell’Unione Sovietica per aver denunciato i sabotatori, o finiremo tutt’e due i nostri giorni in carcere” rifletté Markov. “Dipende tutto da chi sarà a prendere il sopravvento al Cremlino.”

«Ottimo, Houston» disse Jo nel microfono. «I dati stanno arrivando. Grazie.»

Si tolse la cuffia, l’appoggiò sulla consolle. «Hanno messo al lavoro i grandi computer della NASA sulla traiettoria» disse.

«Sarà sufficiente?» si chiese Markov. «Riusciranno a far arrivare in tempo la cisterna?»

Jo lo guardò. I suoi occhi scuri riflettevano fatica e ansietà. «Se non ci riescono loro, non può riuscirci nessuno.»


«E se il comando missione mandasse nuovi ordini, un nuovo piano di volo per riportarci indietro?» mugugnò Federenko, mentre controllava la tuta di Stoner. «Tu sarai là fuori…»

«Resterò in contatto radio» ribatté Stoner.

«Da. E quando io ti dirò di tornare, tu risponderai “Non ancora. Un’altra fotografia”.»

Stoner sorrise. Terminata l’ispezione alla tuta, Federenko gli passò l’elmetto. Stoner lo infilò, abbassò e chiuse la visiera.

«Tornerò quando tu mi dirai che hanno trovato la traiettoria per riportarci a casa» disse Stoner, la voce smorzata dal casco.

Federenko non sembrava convinto. Alzò il pollice, poi tornò nel modulo di comando, chiuse il portello.

Adesso Stoner era solo.

«Prova radio» disse la voce del cosmonauta nella cuffia. «Mi senti?»

«Chiaro e forte.»

«Benissimo.»

Stoner mise in funzione le pompe dell’aria. “Nikolai mi ha dato i suoi jet” pensò. “Se la sua salvezza dovesse dipendere dall’AEV, ha gettato la vita.”

«Shtoner?»

«Sì?»

«Buona fortuna, Shtoner.»

«Grazie, Nikolai. Apprezzo molto… tutto quello che hai fatto.»

«Salutami l’alieno.»

Stoner rise. «Non mancherò.»

Uscita l’aria dal modulo, Stoner aprì il portello, spinse avanti l’altro paio di jet e uscì nel nulla. Si scostò dalla Soyuz, poi ruotò su se stesso per controllare la situazione.

La Terra era molto lontana. Non più massa enorme, era adesso una mezza luna azzurra e bianca sospesa tra buio e stelle. Stoner tese una mano, coprì il pianeta su cui era nato alzando il pollice.

Vedeva anche la Luna, ancora più piccola. La sfera infuocata del Sole era dietro la sua spalla sinistra. Non aveva nessuna intenzione di guardare in quella direzione, ma all’angolo estremo della visuale intravedeva il disco sfolgorante della luce zodiacale del Sole: polvere cosmica, detriti rimasti dalla formazione dei pianeti eoni addietro.

Una piccola spinta dei jet lo portò faccia a faccia con la nave aliena. Il vascello fluttuava, indifferente, all’interno dell’aura di luce pulsante.

Lentamente, tenendo stretta la catena dell’altro palo di jet, Stoner si avvicinò alla nave aliena.

«Nikolai, secondo te questo schermo potrebbe danneggiare un oggetto che si muova lentamente, come me?»

«Potrebbe essere» rispose la voce di Federenko. «Continua a parlare… Viene tutto ritrasmesso automaticamente a Tyuratam.»

«Okay.»

Descrivendo man mano le sue operazioni, Stoner avvolse la catena legata all’altro paio di jet, e quando li ebbe in mano li spinse avanti. La manovra rallentò il suo avvicinamento al vascello alieno. La catena cominciò a srotolarsi di nuovo, lentamente.

«La catena è isolata» disse lui. «Se lo schermo provoca una scarica elettrica, l’energia non risalirà fino a me. Almeno lo spero.»

Trattenne il fiato: i jet raggiunsero lo schermo e lo attraversarono senza nessun effetto visibile.

«Hai visto, Nikolai?»

«Non è successo niente.»

«Infatti. Bene.» Stoner si inumidì le labbra. «Adesso tocca a me.»

«Le telecamere stanno registrando. La trasmissione è perfetta.»

Stoner toccò i comandi alla cintura, avvertì, per una frazione di secondo, la spinta dolce dei jet sulla schiena, come la pacca di incoraggiamento che l’insegnante dà a un bambino riluttante. E Stoner si avvicinò alla luce dorata, pulsante.

«Ci sono quasi…»

Per un attimo, non esistette altro che la luce; la cuffia mandò un crack! secco, e lui si trovò all’interno dello schermo. Si girò a guardare la Soyuz.

«L’ho attraversato! Mi senti ancora?»

«Da.»

«È come trovarsi sotto una cupola trasparente color oro. Vedo attraverso lo schermo. Mi oscura solo un poco i colori.»

«Anch’io li vedo.» In cuffia, la voce di Federenko era forte come sempre, anche se adesso accompagnata da un lieve ronzio in sottofondo.

Stoner avvertiva i battiti frenetici del cuore, «Okay» disse. «Ora… Ora salgo a bordo.»

«Stai attento, Shtoner.»

Il secondo paio di jet andò a sbattere contro il fianco arrotondato della nave e rimbalzò senza danni.

«È cilindrica» disse Stoner «con le estremità a punta. Un po’ come un grosso sigaro. Il colore è un marrone rossiccio chiaro. Sembra fatta di metallo. Non vedo protuberanze o antenne. La superficie è perfettamente liscia. È lunga venti, venticinque metri, e larga cinque o sei.»

Adesso era vicinissimo. La nave incombeva su di lui, occupava tutta la sua visuale. Stoner aveva le labbra secche, e si sentiva bruciare le viscere.

«Il colore è marrone chiaro… L’ho già detto, no? Sembra metallo. Sì, è senz’altro metallo. Lavorato alla perfezione. Non un chiodo. Non una saldatura. Sembra che sia uscita tutta intera da uno stampo, o qualcosa del genere. Nessuna scritta. Nessuna ammaccatura… Sembra nuova di zecca. Lo schermo deve aver distrutto i micrometeoriti e tutti gli altri corpi che ha incontrato…»

Quando raggiunse lo scafo della nave, Stoner protese istintivamente la mano. Toccò il metallo, rimbalzò leggermente, e con una spinta dei jet tornò di nuovo vicino allo scafo.

«Sì, dev’essere metallo. Lo sembra anche al tatto.»

Piantò gli stivali sullo scafo, e le suole restarono attaccate.

«Ehi, credo che sia magnetizzata! Gli stivali mi si sono incollati.» Per staccare un piede, gli occorse solo uno sforzo minimo.

«Gli stivali sono anti-magnetici» lo informò Federenko.

«Be’, qualcosa li tiene attaccati» ribatté lui.

Restò in piedi sullo scafo ricurvo, visitatore solitario di un mondo lungo venticinque metri. Fece un passo, un altro. L’effetto era quello di camminare su una superficie dipinta da poco e non ancora asciutta.

«Mi dirigo verso prua. Almeno, credo sia la prua. Potrebbe anche essere la poppa. Le sue estremità sono identiche.»

Con estrema cautela, mise uno stivale davanti all’altro.

E restò senza fiato.

Una linea di luce apparve improvvisamente su tutta la lunghezza della nave, e dalla sua cuffia uscì un ronzio a bassa frequenza. Non tanto forte da dare fastidio; forte quel tanto che bastava per essere udito.

La linea di luce passò per tutti i colori dello spettro. Era come guardare un arcobaleno sotto una cascata d’acqua.

«Colori!» urlò Stoner, e li descrisse. «Adesso la linea è diventata nera… Penso che sia passata all’infrarosso o all’ultravioletto, oltre i limiti della percezione umana.»

Anche il sibilo che gli giungeva dalla cuffia si alzava e si abbassava di tono. Stoner si accorse che lo sentiva solo nei brevi secondi in cui la luce scompariva.

«Passa per tutto lo spettro elettromagnetico! Luce visibile, frequenze radio… Probabilmente emette anche raggi X e gamma. Mi senti, Nikolai?»

La voce del cosmonauta gli arrivò sopra il ronzio in sottofondo. «Ti sento. I rilevatori ad alta energia sul pannello degli strumenti sono muti.»

Stoner osservò la luce cangiante, affascinato, quasi ipnotizzato. «Mi sta dicendo “Benvenuto a bordo” con tutti i colori dell’arcobaleno.»

La voce smorzata di Federenko rispose: «Passa sulla frequenza radio due. Forse la non c’è il ronzio.»

Provarono tutte quattro i canali radio della tuta. Il ronzio era sempre presente, si muoveva su e giù lungo la scala a ritmo di contrappunto con la luce.

«Fermi tutti!» urlò Stoner. «C’è… qualcosa…»

Verso il muso della nave, la linea di luce si divise all’improvviso in due linee parallele, poi formò un cerchio. Il metallo all’interno del cerchio parve illuminarsi.

«C’è qualcosa più avanti.» Stoner descrisse il cerchio. «Forse è un portello.»

«Stai attento, Shtoner.»

«Vado a vedere.»

Tremante, con la gola secca, troppo eccitato per aver paura, Stoner s’incamminò lentamente verso il cerchio luminoso.

Si fermò all’esterno della circonferenza. Il ronzio in cuffia si alzò fino a diventare uno stridio acuto, poi scomparve. Anche la linea di luce svanì. Ma il cerchio di metallo continuò a risplendere, come se venisse riscaldato dall’interno.

«È luminoso» trasmise Stoner. «Potrebbe essere radioattivo? Una sorgente di calore nucleare? Forse mi hanno fatto arrosto.»

«Qui non registro nessuna radiazione» disse Federenko.

«Forse è lo schermo a bloccarla.»

Federenko non disse nulla.

Però adesso la luce si stava smorzando, e il metallo del cerchio diventava lattiginoso, trasparente. Stoner protese la testa a guardare.

«Mi sembra di vedere qualcosa…»

Lentamente si mise carponi e appoggiò la visiera dell’elmetto sulla superficie biancastra.

«Sembri un pellegrino in preghiera» disse Federenko.

Ignorandolo, Stoner riprese: «Si sta schiarendo. Diventa trasparente. Vedo dentro… Sotto non c’è molta luce, però…»

Chino sulla nave, si costrinse, con uno sforzo enorme di volontà, a guardare dentro. Poi, la verità lo colpì con tutta la forza di un pugno.

«Oh, gran Dio dei cieli» sussurrò. «E un sarcofago.»

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