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Possono esservi ben pochi dubbi sul fatto che, col tempo, entreremo in contatto con razze più intelligenti della nostra. Questo contatto potrebbe essere a senso unico, con la scoperta di rovine o altri manufatti; potrebbe essere reciproco, per il tramite di circuiti radio o laser, o potrebbe anche avvenire faccia a faccia. Comunque, si verificherà, e potrebbe essere l’evento più disastroso della storia umana. L’asserzione avventata che Dio creò l’uomo a propria immagine e somiglianza è come una bomba a orologeria posta sotto le fondamenta di tante fedi…

Arthur C. Clarke

Voices from the Sky — 1965


Il jet Ilyushin era rumorosissimo e scomodo, anche se solo due dozzine di passeggeri erano presenti nel suo interno cavernoso.

Stoner, che si trovava a prua, guardava dal finestrino la distesa infinita della steppa: solo e sempre erba, a perdita d’occhio. Non un albero, non una città, nemmeno un villaggio. “Probabilmente le pianure americane avevano questo aspetto prima che i contadini le fecondassero di grano e frumento” pensò.

A una quota tanto alta, il volo dell’aereo era abbastanza regolare. Se solo i seggiolini non fossero stati così attaccati l’uno all’altro, gemette fra sé Stoner. L’unico momento difficile del volo si era verificato quando erano passati sopra il Tetto del Mondo, tanto vicini all’Everest da vederne la cima ammantata di neve; poi avevano sorvolato il Tibet e le selvagge montagne Altaj. Stoner immaginò di poter vedere, in lontananza, l’Afghanistan, dove le popolazioni indigene combattevano ancora per l’indipendenza, come avevano combattuto contro l’esercito di Alessandro il Grande.

Sulla fila vicina di sedili, il professor Zworkin russava sonoramente. Gli altri erano disseminati nella lunga cabina. Jo aveva scelto un posto in fondo all’aereo.

Lo stomaco di Stoner brontolava. Il servizio ristorante praticamente non esisteva. Avevano avuto qualcosa da mangiare quando il jet era atterrato a Vladivostock, e poi qualche altra cosa molte ore dopo, quando si erano fermati a fare rifornimento nei pressi di Tashkent. Tutt’e due le volte, a nessuno dei passeggeri era stato permesso di scendere.

Avevano sorvolato la zona selvaggia e collinosa del Kazakhistan, dove gli indigeni, vestiti di pelliccia, seguivano le mandrie di pecore e capre cavalcando ponies sgraziati. E ora la distesa d’erba, la steppa esterna, mentre si avvicinava la città di Baikanur, preludio alla base missilistica di Tyuratam.

Stoner si accorse di avere qualcuno alle spalle, si girò. Era Markov, un sorriso strano e minuscolo sulle labbra.

«Stiamo entrando nel nostro paese come ci è entrato nel 1917 il nostro benemerito Lenin» disse Markov, quasi costretto a urlare per farsi udire nel rombo assordante dei motori.

«Lenin è arrivato in aereo?»

Markov si accomodò sul sedile vicino a quello di Stoner. «No. I tedeschi l’hanno rispedito alla madre Russia su un treno piombato. Niente fermate, e nessuno poteva scendere prima dell’arrivo a Pietroburgo. Noi arriviamo dalla direzione opposta, su un aereo piombato.»

Stoner batté con un’unghia sul finestrino. «È un paese enorme, la tua madre Russia.»

«Oh, questa non è la Russia» lo corresse Markov. «È il Kazakhistan, una Repubblica Confederata che fa parte dell’Unione Sovietica. Però non è la Russia. Quelle popolazioni sono asiatiche… Mongoli. La Russia si trova un migliaio di chilometri a ovest, sull’altro versante degli Urali.»

«Però fa parte del tuo paese.»

«Sì, come il Portorico fa parte degli Stati Uniti.»

Stoner guardò di nuovo dal finestrino. «Veramente enorme. Ed è così selvaggia… incontaminata.»

«Buona parte dell’Unione Sovietica è ancora terra vergine» disse Markov. «Era il sogno di Kruscev coltivare queste terre, renderle fertili.»

«E cos’è successo?»

Il sorriso di Markov divenne sardonico. «L’hanno messo in minoranza… quando era voltato dall’altra parte.»

«Oh.»

«Comunque, gli hanno concesso una vecchiaia serena. È morto per cause naturali. Molto insolito per un leader russo. Un segno della nostra crescente maturità.»

«Ridi o piangi, Kirill?» chiese Stoner.

Markov scrollò le spalle. «Un po’ l’uno e un po’ l’altro, amico mio. Un po’ l’uno e un po’ l’altro. Mi sento come un ergastolano che torni in prigione dopo una breve fuga. È un posto che odio, però è casa mia.»

«Avrei dovuto convincerti a restare a Kwajalein» disse Stoner, e abbassò la voce, anche se l’urlo dei motori rendeva impossibile essere uditi a pochi centimetri di distanza.

«No, no» ribatté Markov. «Il mio posto è qui. È qui che devo stare.»

Stoner scrutò in viso l’altro. «Lo credi davvero?»

Markov chiuse gli occhi, annuì con aria grave. «Ne ho discusso a lungo con Maria. Cercheremo di sistemare le cose fra noi due. Chiederà di essere trasferita a… un posto di lavoro meno impegnativo.» Sulle sue labbra tornò il sorriso da ragazzo. «Se riesco a rendere “lei” più umana, più sopportabile, forse c’è speranza anche per tutti gli altri russi.»

Stoner intuì che nel matrimonio di Markov c’erano molte cose di cui lui non era disposto a parlare.

«Nel frattempo» continuò il russo «tutti noi ti faremo da guardia del corpo. Tu sei parte di noi, e noi siamo parte di te. Partirai per lo spazio, non temere.»

«Non chiedo di più» disse Stoner.

Il viso di Markov divenne serio. «So che si è parlato di un complotto russo ai tuoi danni.»

«Kirill, non ho mai pensato che tu o qualcuno degli altri…»

«Non c’è di che preoccuparsi» disse Markov, alzando una mano a zittirlo. «Mi metterò in contatto con l’accademico Bulacheff non appena atterreremo a Tyuratam. Questo progetto andrà avanti senza interferenze. Te lo prometto.»

«Okay» disse Stoner. «Benissimo.»

«Non siamo pedine in un gioco di potere internazionale» mormorò, cupo, Markov. «Il governo ci tratterà, tratterà tutti noi, con un certo rispetto.»

«Pensi davvero di poter cambiare così tanto il sistema, Kirill?»

Il russo scosse piano la testa. «Non è necessario cambiare il sistema. Semmai, bisogna portare i burocrati a “tornare” al sistema, a usarlo onestamente, senza imbrogli. I russi sono una popolazione onesta, e ottimi lavoratori. Hanno sofferto molto, patito molto. Dobbiamo tornare ai veri principi di Marx e Lenin. Dobbiamo tornare sulla strada che conduce inevitabilmente a una società giusta e felice.»

«Un compito enorme» disse Stoner.

«Sì, però qualcuno mi aiuterà. Il nostro alieno mi aiuterà.»

«In che modo?»

Carezzandosi automaticamente la barba, Markov rispose: «Guarda cos’è già riuscito a fare l’alieno. Non solo per me, ma anche per te. America e Russia stanno collaborando, in modo molto limitato, certo, però collaborano, mentre è guerra aperta su tanti altri fronti.»

«Allora perché non ci lasciano scendere dall’aereo?» ribatté Stoner. «C’è una collaborazione talmente meravigliosa che hanno paura che rubiamo qualcosa se appena mettiamo piede a terra.»

«Ma lo capisci cosa significhi per la nostra paranoia nazionale permettere a degli americani di vedere la nostra maggiore base missilistica? E ci sono anche due scienziati cinesi.»

«Sì, lo immagino, però…»

«Il nostro visitatore alieno ha già costretto tutti i governi mondiali a modificare il modo di pensare.»

«Di due o tre centimetri» disse Stoner.

«Forse anche solo di un centimetro» acconsentì Markov «ma è sempre un cambiamento. Non potranno mai più pensare al nostro mondo come se fosse l’intero universo. Adesso sono costretti a lavorare assieme per scoprire cosa sia questo visitatore alieno. Non potremo mai più credere che altri esseri umani, altre nazioni o razze umane, siano alieni. La nave giunta dallo spazio ci sta costringendo ad accettare una grande verità: tutti gli uomini sono fratelli.»

«Gesù Cristo» mormorò Stoner. «Gratta un russo, e sotto la pelle scoprirai il filosofo.»

«Sì» disse Markov. «Un filosofo molto religioso, se è per questo. Però tienilo a mente, amico mio. Questo visitatore alieno ci farà sentire tutti molto più vicini.»

«Spero che tu abbia ragione, Kirill.»

«L’ha già fatto! Ci ha fatto diventare amici, no?»

Stoner annuì.

«Un’amicizia molto bella, Keith.» Gli occhi di Stoner s’inumidirono.

«Sono molto fiero di averti come amico, Keith Stoner. Tu sei un brav’uomo. Se fosse necessario, darei la mia vita per te.»

Per diversi momenti, Stoner non seppe cosa rispondere. «Ehi, Kirill, questo lo penso anch’io. Ma non siamo alla fine della nostra amicizia. Siamo solo all’inizio.»

«Lo spero» sospirò Markov. «Quando atterreremo, però, né tu né io saremo più padroni al cento per cento delle nostre vite. Gli eventi ci trascineranno a loro piacimento. Ed è molto probabile che io non possa lasciare mai più la Russia, per rivedere te o altri stranieri.»

L’idea colse Stoner alla sprovvista. Sorpreso, si sentì ribattere: «E io potrei anche non tornare dalla missione di rendez-vous.»

«Ah, non avevo nemmeno pensato a questa eventualità.»

Stoner trasse un profondo respiro.

«Però posso prometterti una cosa» disse Markov, prima che Stoner riuscisse a formulare una risposta.

«E cioè?»

«Tu partirai. Nessuno ti fermerà a terra. Questo te lo prometto.»

Stoner annuì, e sorrise, e si disse: “Parla sul serio, ma non ha modo di tenere fede alla promessa”.

Markov imbastì un sorriso, gli occhi ancora umidi, e senza un’altra parola tornò al suo sedile.

Stoner riportò gli occhi sulla steppa, e dopo un po’ si addormentò. Lo risvegliò all’improvviso un sobbalzo dell’aereo, e il rumore del carrello d’atterraggio che scendeva. L’aereo continuò a sobbalzare in modo atroce. A un certo punto, parve che il terreno erboso si alzasse a inghiottirli.

La cabina era come scossa da una tempesta. Allacciandosi la cintura di sicurezza, Stoner vide che Zworkin adesso era perfettamente sveglio, che stringeva spasmodicamente i braccioli del sedile.

Poi l’aereo smise di rollare, scese fra le prime ombre del tramonto sulla pista d’atterraggio. Stoner guardò fuori dal finestrino e restò a bocca spalancata.

Tyuratam.

Sembrava il paesaggio di Manhattan, con l’unica differenza che lì non c’erano grattacieli, ma torri di lancio. Strutture d’acciaio per ospitare e far partire missili. Per chilometri e chilometri! Una dopo l’altra, un’intera città fatta di torri di lancio. Al confronto, Cape Canaveral sembrava una modesta periferia, di dimensioni minime e poco solida. Quel posto, invece, era destinato a durare per l’eternità. Come Pittsburgh, come Gary, come le distese interminabili di fabbriche nei maggiori centri industriali. Tyuratam era un complesso massiccio, operoso di edifici giganteschi, grandi macchine, e persone instancabili.

Il loro mestiere era lanciare razzi. Il loro lavoro era l’astronautica. Sì, quello era un vero porto, come la favolosa Basra delle Notti d’Arabia, come Marsiglia o New York o Shanghai. Da quel porto, su lunghe lingue di fiamma, partivano navi dirette nello spazio, e tornando riportavano tesori di nuove conoscenze.

“E un giorno o l’altro” rifletté Stoner “riporteranno energia, e materie prime, e si comincerà a costruire fabbriche in orbita.”

Per adesso, però, sondavano i mari ignoti dello spazio per conoscere di più, per individuare le orbite più sicure per i satelliti che dovevano ritrasmettere le informazioni a terra.

L’aereo si abbassò. Stoner vide le luci che circondavano una piattaforma di lancio, dove un razzo argenteo era immobile nella morsa di una torre scintillante.

Una torre di lancio per Soyuz, comprese. “Io volerò su quel missile.”

Non notò, sul lato opposto del grande complesso di torri e razzi, due altri missili allineati fianco a fianco. Erano dipinti di verde, e avevano testate capaci di seminare molti megaton di morte.

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