31

Il pianeta ruota. La linea di divisione tra notte e giorno si sposta lungo mari e continenti. È quando l’oscurità scende sull’uomo.

Nei grandi viali e negli stretti vicoli di Pechino, milioni di cittadini stupefatti scrutano il cielo, guardano i draghi di fuoco che danzano in alto. All’unisono, corrono verso la Città Proibita, si affollano nell’antica piazza in cerca di una risposta, di una spiegazione, delle parole dei loro capi che sappiano scacciare i draghi e allentare la paura che stringe i loro cuori.

A Teheran, i muezzin salgono sulle balconate dei loro minareti a proclamare la gloria di Allah, l’Onnisciente, il Benevolo. Gli uomini abbassano il viso nella preghiera, lanciando occhiate impaurite al cielo infiammato di luci. Le donne si stringono assieme e piangono. Sanno che la fine del mondo è molto vicina.

A Varsavia e a Cape Town, a Dublino e a Dakar, a Buenos Aires e in Nuova Scozia, il cielo risplende e la gente non capisce e urla e implora dei o scienziati per una parola di salvezza, per una speranza, per qualcosa che allontani la paura che ghiaccia il sangue.

E le luci in cielo danzano, ovunque, nella notte del pianeta Terra.


Nulla è tanto meraviglioso da non poter essere vero.

Michael Faraday

1791–1867


Dal suo arrivo a Kwajalein, Stoner aveva lavorato a una scrivania all’ultimo piano di uno degli edifici più vecchi dell’isola. L’intero piano era un unico ufficio aperto.

Diciassette tra uomini e donne, visto che il loro lavoro non era ritenuto tanto importante da meritare uffici singoli, si dividevano il piano, affettuosamente soprannominato “la palude”. Le scrivanie si affollavano l’una addosso all’altra, come nelle redazioni di certi vecchi giornali. E anche il frastuono era quello di una redazione. Per quanto tutti cercassero di non prendersi a gomitate, i telefoni squillavano, i terminali di computer ticchettavano, le voci rimbalzavano sul soffitto basso e sulle pareti di cemento.

E quando il sole batteva sul tetto di lamiera, nemmeno tutti i condizionatori d’aria dell’isola messi assieme avrebbero potuto rendere sopportabile la palude.

La pioggia tamburellava sul tetto, e Stoner, seduto alla scrivania, guardava il discorso del presidente degli Stati Uniti sullo schermo che normalmente serviva per il computer. Una burrasca tropicale ululava fuori delle finestre, ma lì, nella palude, nessuno le prestava attenzione.

In un silenzio mortale, tutte le persone seguivano il discorso del presidente. Con cautela, soppesando le parole, il presidente informò la popolazione sulla nave spaziale, spiegando pazientemente che non rappresentava una minaccia per la razza umana. Assolutamente nessuna minaccia.

Continuava a ripeterlo. È una grande occasione, la rivelazione improvvisa e inaspettata che non siamo soli nell’universo. Non è una minaccia.

Però, il presidente appariva spaventato. E molto, molto stanco.

Stoner ascoltò, guardò, aspettò. Ogni nervo, ogni muscolo del suo corpo si tese, ebbe uno spasmo: avrebbe letteralmente voluto “strappare” all’immagine televisiva del presidente le parole che attendeva di sentire.

E poi, le parole arrivarono: «Stamattina ho dato l’ordine di dare il via a una missione spaziale congiunta tra americani e russi. La missione avrà il compito di raggiungere l’astronave aliena e studiarla da vicino. Andremo incontro al visitatore alieno.»

Stoner lasciò andare il fiato. Gli tremavano le ginocchia. Allora lo faremo, si disse, ancora troppo teso per sorridere o parlare. Lo faremo. Io lo farò.

Quasi non udì il presidente che annunciava: «Di conseguenza, ho deciso di dedicare ogni mio sforzo personale al raggiungimento della collaborazione e comprensione internazionali indispensabili per garantirci di entrare effettivamente in contatto con la nave aliena e di ottenere tutti i possibili vantaggi da questo contatto. Dato che ciò costituirà un’enorme responsabilità per me personalmente, e per i miei assistenti e consiglieri, ho deciso, pur con riluttanza, di non ripresentarmi come candidato alla presidenza.»

Nella stanza caldissima, qualcuno gemette. Stoner quasi non se ne accorse.

«Non accetterò la designazione del mio partito per la rielezione e non presterò la mia opera alla campagna di alcun candidato. Tutte le mie energie debbono essere riversate, e lo saranno, nel coordinare lo sforzo internazionale per scoprire ogni informazione possibile sul visitatore alieno.»

Qualche grido di giubilo si alzò dagli altri che guardavano la televisione.

«Forse adesso ci daranno da mangiare in modo decente» commentò uno degli uomini.

«O mi aggiusteranno la finestra» disse una donna, guardando l’acqua che dal davanzale gocciolava giù per la parete.

La tensione si allentò. Persino Stoner, quando si rimise al lavoro, sorrideva. In quel momento, stava studiando le analisi spettrografiche della nave in avvicinamento.

La pioggia cessò di colpo com’era iniziata. Il pomeriggio si rischiarò, e la palude raggiunse la solita temperatura soffocante. Tutti cominciarono a lasciare la scrivania, a trovare scuse per andare al centro computer, o ai radiotelescopi, o in qualsiasi altro posto più fresco e meno afoso.

«Io ho saltato il pranzo» disse uno dei tecnici, superando la scrivania di Stoner. «Ho diritto a uscire un po’ prima.»

Stoner non gli prestò troppa attenzione. Il tecnico uscì in compagnia di due amici. Comunque, in pratica era andato a giustificarsi da Stoner, quasi adesso lo ritenesse il capo, quello che decide.

Mentre i tre scomparivano sulla scala di metallo, entrò Jo Camerata. Si guardò attorno un attimo, poi raggiunse la scrivania di Stoner e sedette sull’orlo, a gambe incrociate.

«Come fai a lavorare con questo caldo?» chiese. «È insopportabile.»

«Non me n’ero accorto» disse Stoner.

«Non te n’eri accorto? Sei sudato come un cavallo. Hai la camicia inzuppata.»

Lui abbassò gli occhi, staccò dal petto la camicia fradicia.

«Sarà il mio addestramento Zen, La mente che domina la materia.»

Jo batté un dito sulla propria camicetta. «Be’, “questa” materia fa un salto alla spiaggia per una nuotata prima di cena. Vieni?»

Lui le sorrise. «Ho del lavoro da fare, Jo.»

«Può aspettare. E dai, puoi venire domattina presto. È quello che faccio io. Arrivo sempre in ufficio alle sette.»

Stoner le scoccò un’occhiata scettica.

«Ecco…» Jo scoppiò a ridere. «Prima delle otto, okay? Ci credi?»

«Ogni tanto.»

La ragazza si chinò su di lui. «Non so nemmeno tentarti? Conosco certe spiagge “molto” deserte, dove nessuno va mai.»

«Jo, abbiamo solo poche settimane per preparare tutto.»

«Tu lavori troppo. E alle cose sbagliate.»

Stoner sentiva la fragranza del corpo di lei, Appoggiandosi all’indietro sulla poltroncina, lontano da Jo, le propose: «Senti, ho un sacco di cose da fare. Possiamo vederci per cena? Verso le sette?»

«Dovrò andare a nuotare da sola?» Jo fece una smorfia.

«La vita è dura» disse Stoner.

«E tu sei un uomo difficile, Keith Stoner» disse Jo, scendendo dalla scrivania.

Lui, tutto serio, rispose: «Non sto cercando di essere difficile, Jo. Te lo giuro.»

«Oh, lo so! Vorrei solo che mettessi le tue necessità personali un pochino più in alto sulla tua lista di priorità.»

Stoner non ribatté. Jo si guardò attorno, vide che la palude era praticamente deserta, si protese e lo baciò sulle labbra. Prima che lui potesse reagire, lei era già alle scale, sorridente.

Stoner le restituì il sorriso. Poi tornò al lavoro. Il sorriso scomparve quando, quasi solo nella stanza caldissima, ricominciò a studiare le analisi spettrografiche.


Fuori, sulla strada inondata dal sole, se non altro c’era la brezza marina a mitigare il caldo. Jo trasse un profondo respiro; poi, anziché avviarsi alla spiaggia, tornò verso il centro computer.

Incontrò Markov a mezza strada, sbucato dalla direzione opposta.

«Ah, la mia amica dal cuore infranto. Come va stamattina?»

Jo fu costretta a ridere. «Il cuore è sempre spezzato. E tu?»

«Idem.»

Ferma sotto il sole, la ragazza scrutò il centro computer, poi riportò l’attenzione sul russo, Markov le stava sorridendo, gentile, dolce, ansioso.

“Okay, Keith è un fanatico, ma non c’è motivo che lo sia anch’io” pensò Jo. “Ho la mia vita, in fondo.”

«Sai portare la canoa?» chiese a Markov.

Lui socchiuse gli occhi. «Chiedo scusa. A volte la mia comprensione dei vostri eufemismi…»

«Una canoa ricavata da un tronco d’albero» disse Jo. «Ce ne sono parecchie sulla spiaggia, più in su della pista d’atterraggio. Potremmo avventurarci sulla laguna e trovare una bella isoletta tutta per noi.»

Il viso di Markov s’illuminò. «E niente squali?»

«Niente squali.»

«Portami alle canoe» disse Markov, offrendole il braccio. «Remerò tanto in fretta che ti sembrerà di essere in groppa a un delfino!»


Nella palude era rimasto solo Stoner quando entrarono Jeff Thompson e il vicecomandante Tuttle. Tuttle si guardò attorno, perplesso.

«Perché avete spento i condizionatori?» chiese.

«Sono accesi» rispose Stoner.

Tuttle indossava l’uniforme cachi, e la camicia si stava già inzuppando di sudore.

«Bisogna che vi tiriamo fuori di qui» disse il vicecomandante. «Come fate a lavorare in un clima del genere?»

«Senso del dovere.»

«Adesso sapete come riesce a bere tanta birra senza ingrassare» disse Thompson, sfilandosi la camicia dalla cintura dei calzoncini.

Stoner spense lo schermo del computer, si appoggiò all’indietro sulla poltroncina cigolante. Aveva la schiena bagnata.

«Cosa la porta qui?» chiese a Tuttle.

Rispose Thompson: «Hai sentito il discorso del presidente?»

«L’ho seguito tutto sull’attenti.»

Tuttle prese una sedia a rotelle dalla scrivania vicina e si accomodò. “Com’è piccolo” pensò Stoner. “Ho sempre pensato che Jeff fosse piccolo, ma al suo confronto Tuttle sembra un bambino.”

«Il professor McDermott ha ricevuto ordini da Washington appena prima che il discorso venisse trasmesso» disse Tuttle.

«Per la missione di rendez-vous?»

«Esatto. A Washington, i nostri stanno discutendo con l’ambasciata russa. Presumo che il professor Zworkin avrà ordini da Mosca entro stanotte.»

«Quindi, si farà.»

Thompson annuì con aria grave. «Voi andrete incontro al nostro visitatore. Su una nave russa, a quanto sembra.»

«Big Mac scoppierà di felicità» mormorò Stoner.

«Il professor McDermott…» Tuttle lanciò un’occhiata a Thompson, poi continuò. «Il professor McDermott è quasi in stato di shock. Temo che per il futuro non potremo più affidarci alle sue decisioni.»

«Sta male?»

«Ha bisogno di riposare» disse Thompson.

«Il dottor Thompson assumerà gli incarichi amministrativi di McDermott. D’ora in poi, Thompson e il professor Zworkin dirigeranno in coppia il Progetto Jupiter.»

«Vedo. Buona fortuna, Jeff.»

«E lei» proseguì Tuttle «assumerà la direzione dei preparativi per la missione di rendez-vous.»

Stoner annuì.

«Dovremo spostarla da qui, trasferirla a un ufficio migliore…»

«Che ne dice dell’ufficio di Big Mac?» propose Stoner, serissimo.

Tuttle restò a bocca spalancata.

«Sta scherzando» intervenne precipitosamente Thompson. «Può prendersi l’ufficio vicino al mio. Troveremo un altro posto per quelli che ci lavorano adesso.»

«Okay» disse Tuttle.

«Voglio che il professor Markov lavori con me» disse Stoner.

«Markov?»

«Il linguista» spiegò Thompson.

«Infatti» disse Stoner. «Ha idee più aperte di tutti gli altri sui processi mentali degli alieni. E poi può aiutarmi a cavarmela coi russi che mi faranno da collaboratori.»

«I processi mentali degli alieni?» ripeté Tuttle.

«Linguaggio, psicologia, come preferite. Il fatto è che stiamo per incontrare qualcosa, o qualcuno, che non possiede punti in comune con nessuna lingua o razza o cultura terrestre.»

«Non penserete che quella cosa abbia un equipaggio, eh?» Tuttle spalancò gli occhi.

«Ne dubito» ammise Stoner. «Se è giunta sin qui da un’altra stella, un altro Sistema Solare, dovrebbe essere gigantesca per avere un equipaggio. Persino un solo uomo richiederebbe un’infinità di scorte alimentari, carburante, sistemi di mantenimento…»

«Come potrebbero tenere in vita un equipaggio per migliaia d’anni?» chiese Thompson.

«Ibernandolo» rispose Stoner. «Il risveglio potrebbe avvenire automaticamente una volta giunti a destinazione.»

«A destinazione?» La voce di Tuttle era un soffio. «Lei pensa che siano arrivati qui deliberatamente?»

Stoner scosse la testa. «No. Non vedo come avrebbero potuto individuare il nostro pianeta su distanze interstellari, così come noi non possiamo individuare il loro.»

«Però sono qui. Ci hanno trovati.»

«Questo è vero.»

«Forse hanno puntato su una stella simile alla loro» ipotizzò Thompson. «Una stella gialla, stabile, di tipo G.»

«Ammesso che provengano da una stella di tipo G.»

«Come minimo, è probabile.»

«Forse. Però riflettiamo su quello che ha fatto la nave quando è entrata nel nostro sistema solare» rilevò Stoner. «Per prima cosa, si è diretta verso il pianeta più grande del sistema, quello circondato dal campo magnetico più forte.»

«Ehi, è vero!»

«E dopo avergli girato attorno per un po’, è ripartita verso il pianeta interno col campo magnetico più forte.»

«Terra» sussurrò Tuttle.

«Allora è “questo” che cercano» disse Thompson. «Devono venire da un mondo che possiede una magnetosfera di buone dimensioni, e hanno pensato che solo pianeti schermati da forti campi magnetici possano ospitare la vita.»

«Potrebbe darsi» disse Stoner. «Pare logico.»

«Ma è una nave con equipaggio o automatizzata?» chiese Tuttle. «Ci sono creature a bordo, o no?»

«La mia ipotesi è che non abbia equipaggio» disse Stoner. «Perché mandare un equipaggio in una missione senza ritorno per l’ignoto? È ovvio che stanno solo dando qualche occhiata in giro, in cerca di segni di vita.»

«Però sono più di settantacinque anni che le nostre trasmissioni radio e televisive arrivano nello spazio» obiettò Thompson. «Potrebbero aver captato i nostri segnali da dozzine di anni luce di distanza.»

Stoner rise «Mi è un po’ difficile credere che una missione stellare parta sulla base di Perry Mason.»

«Non si sa mai» sorrise Thompson. «Forse c’è un comitato di supervisione interstellare che vuole farci smettere di inquinare l’etere.»

«Sì, molto sensato» convenne Stoner.

«Se però c’è un equipaggio» rifletté Thompson, tornando serio «pensa alla tecnologia che devono possedere per tenerlo in vita su tempi e distanze interstellari.»

«Impossibile!» sbottò Tuttle. «Dev’essere senza equipaggio! “Deve!”»


«Soffri molto?» chiese Cavendish.

Più che dolore, però, gli occhi di Schmidt riflettevano stanchezza, sonnolenza. Il giovane girò la testa sul cuscino, guardò fuori dalla finestra dell’ospedale.

«Mi senti? Ti do fastidio? Se vuoi me ne vado» disse Cavendish.

«No, no» disse Schmidt. «È… È solo che non so cosa dire.»

Schmidt non capiva le sofferenze che avevano trasformato il viso di Cavendish in una maschera tesa, scheletrica. Per il giovane astronomo, l’inglese era solo un vecchio con gli occhi arrossati dalla mancanza di sonno e un tic nervoso alla guancia.

«Hai passato un brutto momento» disse Cavendish, con voce roca, rotta.

«È stata solo colpa mia» ribatté Schmidt.

«Assolutamente no» si costrinse a dire Cavendish. «Qualcuno ti ha venduto la droga. Un americano, scommetterei.»

«Diversi americani.»

«Visto?»

Schmidt chiuse gli occhi. Era insonnolito. «Voi siete l’unico che viene a trovarmi, a parte il dottor Reynaud. È ricoverato qui anche lui. Gli ho rotto un braccio.»

«È una frattura da poco» disse Cavendish «e Reynaud ha raccontato a tutti che se l’è rotto da solo inciampando sul tuo letto.»

Schmidt scosse lentamente la testa. «Ho demolito la stanza. Me l’hanno detto. Io non ricordo nulla.»

«Non è colpa tua» insistette Cavendish. «Non devi prendertela con te stesso.»

«E con chi, allora?»

Cavendish fece per rispondere, ma le parole non volevano uscire. Si alzò dalla sedia su cui era appollaiato, raggiunse a fatica la finestra, guardò fuori. Il sudore gli imperlava la fronte.

Ti costringono a farlo, urlava una parte della sua mente. Ti hanno dato ordine di farlo. Ma tu puoi ribellarti. Non sei obbligato a ubbidire.

Il respiro gli si bloccò. Boccheggiò di dolore.

«Non posso» mormorò.

«Cos’ha detto?» chiese Schmidt dal letto.

Cavendish si girò verso l’astronomo. Gli tremavano le gambe, e lo stomaco era squassato dal dolore.

«Non… Non è colpa tua» ripeté, e il dolore diminuì un poco. «Gli americani… ti hanno costretto a venire qui, ti hanno strappato alla tua casa, ai tuoi studi…»

«Anche alla mia ragazza.»

«Sì. Vedi?» Continuare a parlare era un sollievo; il dolore svaniva gradualmente, «Non puoi darti la colpa di quello che è successo. Sono i maledetti yankee che hanno condotto il gioco fin dall’inizio.»

Schmidt annuì. «Potrei essere a casa, felice e contento. In vita mia non ho mai preso niente di più forte dell’erba, prima di arrivare qui.»

Come una marionetta mossa da fili invisibili, Cavendish raggiunse la sedia accanto al letto. Anziché sedersi, appoggiò le mani sullo schienale.

Un’ondata di dolore lo travolse; quasi cadde in ginocchio.

«Stoner!» esclamò.

«Cosa?»

Fissando il giovane astronomo con occhi velati di dolore, Cavendish disse: «È Stoner che sta dietro a tutta questa faccenda.»

«Stoner? L’americano?»

«Sì…» Con un respiro tremante, Cavendish continuò: «Non fosse per lui, saremmo tutti a casa, McDermott voleva chiudere il progetto e lasciarci ripartire, ma Stoner ha insistito per continuare.»

«Vuole attribuirsi tutti i meriti, vero?» chiese Schmidt, assumendo la solita espressione imbronciata.

«Sì.» Era più un gemito che non una parola.

Schmidt si accorse finalmente della sofferenza del vecchio. «Cosa c’è? Non si sente bene?»

«Emicranie» sussurrò rocamente Cavendish. «Io… soffro di emicranie.»

«Devo chiamare un dottore?»

«No. No, adesso passa.» Cavendish frugò nelle tasche dei calzoni, tirò fuori un flaconcino di plastica. «Mi hanno dato degli anestetici. Sono ottimi.»

Schmidt si era rizzato su un gomito. «A me non danno niente per il dolore» disse. «Niente di più forte dell’aspirina.»

Tenendo il flacone davanti agli occhi del giovane, Cavendish ripeté: «Queste capsule sono ottime. Non contengono narcotici. Non danno assuefazione.»

«Sul serio?»

«Sì» mentì l’inglese.

«Di notte è peggio» disse Schmidt, «Soffro di più.»

«Forse non ci sarebbe niente di male se ti dessi qualcuna di queste…»

Schmidt annuì. Cavendish svitò il coperchio, fece cadere quattro capsule nel palmo tremante.

«Sicuro che non servono a lei?» chiese Schmidt.

«Posso… farmene dare altre…»

Schmidt prese le capsule gialle ovali, le tenne nella mano, le guardò.

Il corpo di Cavendish era in fiamme. «Provane una» sussurrò. «Vedrai che… il dolore… sparirà.»

Schmidt esitò solo un attimo, poi afferrò la tazza d’acqua che aveva sul comodino e inghiottì la capsula. Bevve, deglutì.

Pochi secondi dopo, era riverso sul letto, a occhi sbarrati.

Cavendish, tremante come se un flusso di corrente elettrica stesse passando nei suoi centri cerebrali, si avvicinò al letto e sussurrò all’orecchio di Schmidt: «È tutta colpa di Stoner. Se ti alzi da questo letto e trovi Stoner, potrai tornare a casa, essere felice. Stoner vuole farti del male. Stoner vuole ucciderti. Devi fermarlo prima che ti uccida.»

Mentre le parole uscivano dalle sue labbra, Cavendish strabuzzò gli occhi. Era come se stesse parlando qualcun altro che usava, a mo’ di trasmettitore, la bocca di Cavendish: una macchina completamente sottratta al suo controllo.

Terrificato da ciò che stava accadendo, si scostò con un balzo dal letto. Un’occhiata alla finestra lo informò che era pomeriggio avanzato. Cavendish uscì dalla stanza di Schmidt, allontanandosi il più in fretta possibile dall’ospedale. Non si accorse che, sulla laguna tranquilla, una canoa con due persone a bordo si era capovolta.

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