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Rifiutò come inutile ogni tentativo di calcolare in base a princìpi teorici la frequenza con cui le forme di vita intelligente si presentano nell’universo. La nostra ignoranza dei processi chimici grazie ai quali la vita è nata sulla Terra rende privi di significato questi calcoli. In base ai meccanismi della chimica, la vita potrebbe essere abbondante nell’universo, o potrebbe essere rara, o potrebbe non esistere affatto al di fuori del nostro pianeta. Ciononostante, abbiamo buone ragioni scientifiche per portare avanti la ricerca di prove d’intelligenza con una certa speranza di risultati positivi… Le società di cui con maggiori probabilità potremo osservare le attività sono quelle che si sono spinte, sia per motivi positivi o negativi, ai massimi risultati permessi dalle leggi della fisica.

Arriviamo così al mio punto principale. In un arco di tempo sufficiente, esistono pochi limiti a ciò che può fare una società tecnologica. Prendiamo in primo luogo la questione della colonizzazione…

Freeman Dyson

Disturbing the Universe, 1979


Stoner sedeva solo nel separé d’angolo, i piedi sul sedile che aveva di fronte. Sul tavolo, in un secchiello di plastica, una bottiglia di champagne vuota a metà.

“Che serata favolosa” si disse. “C’è da divertirsi da matti, vecchio mio.”

La folla del dopocena stava riempiendo il locale. Qualcuno aveva fatto partire sullo stereo della disco music assordante; per farsi sentire, bisognava urlare. Ogni tanto qualcuno si avvicinava al tavolo di Stoner, ma lui allontanava tutti senza eccezioni.

“Forse dovrei andare all’alloggio di McDermott, a vedere se lei è davvero lì. E se c’è? Cosa faccio? La trascino via per i capelli?”

Tolse la bottiglia dall’acqua gelida, si riempì il bicchiere. Lo champagne era piuttosto insipido. “Sarà della California” pensò, e guardò l’etichetta. Stato di New York. Rimise la bottiglia nel secchiello con tanta rabbia che un po’ d’acqua gelida gli si spruzzò addosso. Con una smorfia, riportò i piedi sul pavimento.

“All’inferno, non posso nemmeno ubriacarmi quando ne ho voglia.”

La porta del Circolo si spalancò talmente forte che il colpo fece sobbalzare tutti. Sulla soglia apparve Schmidt, spalle piegate in avanti e testa bassa, come se volesse lanciarsi alla carica.

Per un attimo, tutte le conversazioni s’interruppero. Restò solo la disco music; e il respiro pesante, ansimante di Schmidt sembrava andare a tempo col ritmo sincopato della musica.

Stoner tornò al suo champagne. La gente riprese a parlare. La folla si muoveva, rideva, beveva. Ma Schmidt, gli occhi puntati su Stoner, superò il banco, si diresse verso il separé d’angolo.

«È tutta colpa tua» disse a Stoner.

Stoner alzò la testa a guardarlo.

«Tu te ne stai qui a bere champagne» disse Schmidt, con voce solo leggermente impastata «e intanto costringi tutti a restare in questo buco di merda.»

«Che cavolo stai dicendo?» chiese Stoner.

«Sicuro, tu bevi champagne e aspetti che ti diano il Nobel, e noi qui a marcire!» rispose il giovane astronomo, a voce più alta.

«Siediti» disse Stoner «e piantala di fare la figura del cretino.»

«Te lo faccio vedere io chi è il cretino!» urlò Schmidt.

Afferrò Stoner per il colletto e lo sollevò dal séparé, senza il minimo sforzo. Stoner sentì la tibia strusciare contro l’orlo del tavolo, poi venne scaraventato a terra.

Nel Circolo, tutto si fermò. Anche la musica.

«Champagne!» urlò Schmidt, scaraventando via furioso bottiglia e secchiello.

«Che diavolo ti succede?» gridò Stoner, rialzandosi. Nel locale, nessuno si mosse: paralizzati, stupefatti, tutti guardavano loro due.

Schmidt raggi: «È tutta colpa tua!» e si lanciò su Stoner, afferrandolo alla gola. Le sue dita erano come acciaio sulla trachea di Stoner. Stoner boccheggiò, completamente senza fiato.

D’istinto, Stoner strinse le mani, aprì di scatto le braccia e colpì i polsi di Schmidt, costringendo l’altro a lasciare la presa.

«Sei pazzo» riuscì a dire, con un filo di voce.

Ma Schmidt, stravolto, gli urlò: «Vuoi rubarmi tutto!»

Con l’angolo degli occhi, Stoner vide aprirsi la porta del locale ed entrare Jo. Aveva i capelli bagnati. La ragazza, a bocca spalancata, restò a fissare i due uomini.

Schmidt balzò su Stoner. L’americano vide arrivare il pugno, ma la sorpresa lo fece reagire troppo lentamente. Il pugno fortissimo dell’olandese lo colpì alla guancia. Stoner, sbalzato indietro, cadde riverso sul tavolo. Prima che potesse rialzarsi, Schmidt gli fu addosso: gli piantò le ginocchia sulla schiena, cominciò a tempestargli di pugni le spalle e la testa.

«Colpa tua! Colpa tua!» urlava Schmidt a ogni pugno.

Stoner capì che stava per svenire, e capì anche che Schmidt lo avrebbe ucciso a forza di pugni mentre tutti gli altri stavano a guardare. Quando fossero usciti dallo shock, sarebbe stato troppo tardi per aiutarlo. Con puro istinto animale, appoggiò un piede sullo schienale del sedile e spinse. Avvinghiati, Schmidt e lui precipitarono giù dal tavolo, caddero sul pavimento, e Stoner riuscì a liberarsi dalla presa folle dell’altro.

Per un attimo, i due si staccarono.

Stoner vide gli occhi dell’olandese. “È pazzo!” Schmidt aveva i capelli che gli scendevano sul viso, gli occhi dilatati, la bocca aperta. Ansimava e ringhiava. Stoner sentiva in bocca il gusto del sangue, e ogni muscolo del suo corpo pulsava di dolore.

“Mi ucciderà!” urlò la sua mente. “Mi ucciderà, se non lo fermo.”

Si rialzarono assieme. Stoner indietreggiò d’un passo, sfiorò col tallone la bottiglia di champagne. In quel punto, il pavimento era bagnato.

Con un ringhio, Schmidt balzò avanti. Stoner scartò di lato, colpì l’altro alla rotula con un calcio, lo mandò disteso a terra.

Schmidt si sollevò immediatamente, come se non sentisse il dolore, come se non esistesse dolore. Si era tagliato una guancia; il sangue gli scendeva lungo il collo, sotto la camicia. I suoi occhi erano un mare bianco, le labbra tirate a scoprire i denti.

Schmidt scattò di nuovo. Stoner cercò di scartare, ma il braccio proteso dell’altro lo colpì al collo. Precipitarono tutte due contro la parete. Stoner spinse via Schmidt e cercò di rialzarsi. Schmidt afferrò la bottiglia vuota di champagne, l’agitò a mo’ di clava.

Stoner indietreggiò, accucciato, le mani protese; e risentì la voce del suo istruttore: “Le arti marziali non sono un gioco! Non servono a fare punti, servono a salvare la pelle!”.

Schmidt avanzò su di lui, brandendo la bottiglia. Un ringhio smorzato gli usciva dalla gola. Stoner studiò i piedi dell’altro, si costrinse a concentrarsi su quello che doveva fare, calmò il ritmo del respiro, riportò il corpo in equilibrio.

“Nessuno alzerà un dito per aiutarmi” notò con una parte stranamente distaccata della mente. “O pensano che sia una faccenda privata, o hanno paura di farsi male.”

Schmidt roteò la bottiglia in aria. Stoner si accucciò ancora di più e mise tutta la sua forza in un pugno al diaframma di Schmidt. Poi lo afferrò e lo scaraventò contro la parete.

Schmidt si rimise in piedi, tornò alla carica, ma Stoner lo bloccò col braccio. Poi gli tirò un calcio che lo fece precipitare sul divisorio tra i separé, All’impatto col corpo dell’astronomo, il legno si frantumò.

Stoner si chinò sul corpo riverso di Schmidt, lasciò andare il fiato. Jo era ancora sulla porta, e adesso al suo fianco c’era Reynaud, assurdamente vestito d’un pigiama grigio, col braccio fasciato. L’altra gente cominciava ad avvicinarsi, timidamente.

Ma Schmidt, lentamente, si rimise in piedi, la bottiglia ancora stretta in mano, un sorriso macabro sul viso sanguinante. Tutti si immobilizzarono.

“Gesù Cristo!” boccheggiò Stoner. “È peggio di quel mostro di Frankenstein. Niente lo ferma.”

Schmidt ridacchiò come un ragazzino contento di strappare le ali a una mosca, e si lanciò su Stoner.

Stoner soffocò la paura e il dolore che avvertiva e fece ciò che bisognava fare. Lo bloccò, tirò un calcio, un pugno alle tempie. Schmidt crollò in ginocchio. Stoner gli afferrò il polso della destra, diede uno strattone al braccio, tirò un calcio alle costole di Schmidt. La bottiglia cadde a terra. Le costole dell’olandese scricchiolarono. Stoner colpì fortissimo, col taglio della mano, il collo di Schmidt, che precipitò a faccia in giù.

La folla riprese ad avanzare.

«Non avvicinatevi!» boccheggiò Stoner. «È impazzito.»

E Schmidt si risollevò lentamente. La folla sussultò e indietreggiò. “Quel calcio deve avergli rotto le costole” pensò Stoner. “Cosa diavolo ci vuole per fermarlo?”

Il viso distorto in un mostruoso rictus, Schmidt si lanciò alla carica su Stoner, che lo bloccò con un calcio all’addome e un pugno fortissimo sulla spalla. La clavicola di Schmidt scricchiolò.

“Distruggilo” si disse Stoner. “Colpisci le ossa. Abbattilo come se fosse un albero.”

Parve un’eternità. Stoner infuriò automaticamente, senza pensare, senza rimorsi, finché Schmidt non crollò sul pavimento, immobile come la morte.

Reynaud si fece strada tra la folla col braccio sano, seguito da Jo.

«L’ha ucciso!» urlò Reynaud, inginocchiandosi accanto alla forma riversa di Schmidt.

«Non… credo» boccheggio Stoner. «Spero di no. Non ho potuto… È… impazzito…»

Jo lo stava fissando. «Sei ferito.»

«Sto bene. Chiama un’ambulanza… per il ragazzo. Ho dovuto pestarlo… sodo.»

«Ma tu…?»

L’adrenalina stava rifluendo. Tutti i muscoli del corpo di Stoner cominciavano a urlare.

«Riportami alla mia stanza» mormorò, barcollando verso la porta. «Voglio solo coricarmi.»

Ma sulla porta c’erano quattro uomini della polizia militare. Stoner crollò tra le loro braccia.


Cavendish si svegliò lentamente. Socchiuse gli occhi, lottò per allontanare dalla mente le nebbie del sonno. Rabbrividì di freddo. Per lunghi momenti, non riuscì a ricordare perché fosse seduto contro il tronco di una palma, vicino ai campi da tennis davanti all’ospedale.

Gradualmente, i ricordi tornarono. Ricordò Schmidt e le parole folli, false, che gli aveva sussurrato all’orecchio. Lo travolse un senso di vergogna. “Mi controllano. Mi hanno rubato l’anima.”

Scrutò i campi da tennis. Era buio, non c’era nessuno. Appoggiandosi all’albero, si alzò.

Un formicolio enorme gli torturava le gambe, ma il cervello gli si era schiarito. “Il dolore è scomparso!” Le mani gli corsero al viso, ai capelli, come animate da una volontà propria, come cercando di scoprire al tatto se non fosse solo un’illusione, se il dolore non fosse ancora lì in agguato, in attesa di tornare con forza ancor più terrificante.

«È scomparso» sussurrò Cavendish alle ombre della sera. «Scomparso, completamente… Come se qualcuno avesse premuto un interruttore.»

Un interruttore. «Già» si disse. «Un interruttore che possono premere di nuovo a loro piacere, quando decideranno di volere qualcos’altro da me.»

Allontanò dalla testa le mani tremanti. Dentro, però, era perfettamente calmo. La sua mente gli apparteneva di nuovo, se non altro per un po’ di tempo.

E, con una chiarezza che si ha solo quando tutti i pensieri inutili sono scomparsi, Cavendish finalmente capì cosa doveva fare.

E, con la chiarezza assoluta di visione che gli era stata improvvisamente concessa, Cavendish intuì come porre fine alla propria schiavitù.

«So cosa vuole» mormorò a denti stretti «ma non può costringermi a farlo. Io sono un uomo, non uno dei suoi cani condizionati.»

Con decisione estrema, girò la schiena all’ospedale, superò gli alberi, gli edifici, traversò la strada, raggiunse gli edifici sul lato opposto. L’oceano era vicino. Gli occorsero solo pochi minuti per traversare l’isola e arrivare alla spiaggia.

Le onde sciabordavano nel buio. Il mare si stendeva sotto un cielo luminosissimo. Dietro le poche nubi, l’aurora boreale splendeva beffarda.

“So cosa siete, qual è la vostra origine” disse Cavendish, senza parlare, alle luci che danzavano. “Per me è sufficiente. Non potrò incontrarvi direttamente, ma va bene lo stesso. È già molto, per una vita.”

L’oceano gli lambiva i piedi, vivo, pulsante.

Cavendish sorrise alle acque scure. «Sofocle ha sentito questo stesso suono tanto tempo fa» disse. «E gli ha fatto venire alla mente la marea torbida, la risacca della miseria umana.»

C’erano correnti molto forti in quell’oceano spietato, correnti capaci di allontanare un uomo dalla terraferma, correnti che ospitavano i carnivori più efficienti del pianeta.

Cavendish restò in riva all’acqua solo per un momento. Nella sua mente non sfilarono i ricordi del passato. Pensò solo al futuro, un futuro cupo e doloroso di schiavitù a padroni ignoti, inconoscibili.

Con un sorriso che era più una smorfia, sussurrò: «Ma finché ne ho la forza, posso mettere fine a tutto questo.»

Perché, chissà dove, aveva letto che l’unica persona che rende possibile la schiavitù è lo schiavo.

Entrò in acqua, nel caldo liquido amniotico che avrebbe cancellato per sempre il suo dolore. Camminò senza esitare, e il mare gli arrivò alle ginocchia, alla vita, alle spalle. Non pensò alle creature fameliche che lo attendevano, non pensò alle luci in cielo che riempivano la sera di uno scintillio innaturale. E la corrente lo afferrò, e poco dopo Cavendish era scomparso.

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