In un ufficio interno, senza finestre, della ABC, il funzionario della Commissione federale alle comunicazioni scosse la testa, meravigliato.
«Un sarcofago? Cosa diavolo sta dicendo?»
Il vicepresidente della rete televisiva, un giovane nero dall’espressione intelligente, rispose: «Di qualunque cosa si tratti, dobbiamo trasmettere in diretta. “Adesso”.»
Sul monitor c’era Hugh Downs, il commentatore dell’impresa spaziale. Alle sue spalle appariva l’immagine della nave aliena vista dalla Soyuz.
«In diretta? Dal vivo?» Il funzionario impallidì.
«È indispensabile.»
«No! Troppo rischioso. E se trovasse qualcosa di… mostruoso? Il panico…»
Il vicepresidente della ABC puntò l’indice sul monitor. «Metà della popolazione ha già una paura matta di quella cosa, e l’altra metà non crede nemmeno che esista sul serio! Dobbiamo andare in diretta, uomo, lasciare che vedano coi loro occhi. Se no, non ci crederà nessuno!»
«Non sono sicuro…»
«Be’, io sì.» Il nero prese il telefono e diede gli ordini necessari.
L’altro disse, cupo: «Se lo fa lei, anche le altre stazioni cominceranno a trasmettere in diretta.»
«Benissimo. Finché i russi ci mandano questa roba dal vivo, dobbiamo trasmetterla anche noi dal vivo. Quest’idea di andare in differita è una fesseria.»
«Ma io non ho l’autorità per permettere la trasmissione dal vivo! Non dovrebbe coinvolgermi…»
«Senta» scattò il vicepresidente «secondo lei, perché il direttore della rete mi ha messo su questa poltrona che scotta? Solo per favorire l’integrazione razziale? Mi pagano per prendere decisioni, uomo! Se questa cosa funziona, io divento un genio, parto a razzo verso le alte sfere.»
«E se non funziona? Se si scatena il panico o arriva qualche reazione da Washington?»
«Allora me ne torno a Philadelphia, col certificato di morte già in mano.»
«Vedo attraverso il metallo» disse Stoner nel microfono del casco. «Il metallo è diventato trasparente.»
«È morto?» chiese Federenko.
«Deve esserlo. Oppure è ibernato. Forse lo hanno conservato… Con la tecnica criogenica, o qualcosa del genere.»
Il cuore di Stoner era impazzito, e rivoletti di sudore gli correvano sulla pelle, sotto la tuta. Era difficile distinguere i particolari della forma dell’alieno. Vedeva un corpo lungo e d’aspetto robusto disteso su un letto o su un feretro. C’erano testa, spalle, due braccia. Non riusciva a vedere l’estremità inferiore del corpo.
«Continua a parlare» gli ordinò Federenko. «Cosa vedi? Le tue parole vengono trasmesse direttamente a Tyuratam.»
«Okay, okay…»
Stoner avvicinò di nuovo la visiera al portello trasparente, per vedere meglio. E il portello non esisteva più. La sua testa affondò di tre o quattro centimetri sotto l’orlo di metallo che circondava il portello trasparente.
«Oh, no…» Si tirò indietro, poi fece correre le dita lungo l’orlo del cerchio. Al centro c’era il vuoto, come se il metallo che era lì pochi istanti prima si fosse dissolto.
«Nikolai» disse, lottando perché la sua voce non assumesse un tono troppo stridulo. «Il portello… Prima è diventato trasparente, e adesso è scomparso.»
«Scomparso?»
«Completamente. Svanito. Dove un minuto e mezzo fa c’era del metallo si è aperto un foro.»
Federenko chiese, incredulo: «Si è aperto un foro?»
«Sì. Io entro.»
«Aspetta. Prima fammi sentire il controllo missione.»
Stoner scosse la testa all’interno del casco. A quella distanza dalla Terra, occorrevano circa sei secondi perché i messaggi di Federenko arrivassero a Tyuratam, e altri sei perché la risposta raggiungesse la Soyuz. “Più il tempo che sprecheranno a cercare di decidersi” pensò Stoner.
«Io entro» ripeté.
«Aspetta, Shtoner.»
Ma lui aveva già appoggiato le mani sull’orlo del portello e cominciato a infilare le gambe nell’apertura.
«Sono già dentro a metà. Non c’è problema.»
«Shtoner, potrebbe essere pericoloso.»
«Non credo.»
Fluttuò verso il basso, e dopo un attimo i suoi stivali si posarono sul pavimento della nave aliena. Anche lì, come sullo scafo, aderivano dolcemente al metallo.
Stoner girò piano su se stesso, in una panoramica dell’interno del vascello alieno.
«Sono dentro» disse, abbassando inconsciamente la voce. «Mi senti?»
«Ti sento.» La voce di Federenko era più debole, disturbata da interferenze, ma perfettamente comprensibile.
«Questo posto è molto più piccolo rispetto alle dimensioni esterne della nave. Dev’essere solo un compartimento. Le macchine sono nascoste dietro paratie.» Stoner rabbrividì. «“E fa freddo”. Più freddo di fuori. Com’è possibile?»
«Cosa vedi?»
Stoner si girò verso il feretro rialzato e la creatura che vi giaceva sopra. Fece un passo avanti, poi si fermò.
Le pareti ricurve del compartimento cominciavano a illuminarsi. Non era la luminosità del metallo che si fonde, ma il chiarore soffuso di un cielo al chiaro di Luna. Sotto gli occhi stupefatti di Stoner, il metallo diventò bianco, poi traslucido, e alla fine trasparente come vetro.
«Shtoner! Rispondimi!» Stava urlando Federenko. «Mi senti?»
«“Ti vedo”, Nikolai» rispose lui, travolto dallo stupore. «L’intero scafo è diventato trasparente. Come il portello. Vedo lo spazio fuori!»
Una pausa. Poi Federenko mugugnò: «Da qui è tutto come al solito. Metallo scuro, non trasparente.»
«Un vetro unidirezionale» mormorò Stoner. «Cristo, chissà cosa darebbe Corning.»
«Chi?»
Con un sorriso, Stoner scrutò il centinaio di metri di vuoto che lo separavano dalla Soyuz. Adesso la nave russa gli appariva tozza e brutta, il prodotto primitivo di un mondo primitivo.
«Devono avere conoscenze scientifiche enormi, questo è chiaro.»
«Shtoner, parla.»
«Questa parte della nave è lunga all’incirca sette metri, diciamo sette metri e mezzo. È larga quasi cinque metri, ma alta solo due e mezzo, tre. Il pavimento è solido e opaco. Idem la paratia che chiude il compartimento. Ma il muso e le pareti attorno sono perfettamente trasparenti. Come se lo scafo non esistesse. Vedo benissimo fuori.»
Timidamente, si avvicinò allo scafo e protese una mano. Le sue dita guantate toccarono la parete invisibile: era spugnosa, morbida.
«Lo scafo c’è ancora, però. Non è svanito completamente come ha fatto il portello. E qui dentro fa molto freddo. Sembra che l’energia possa uscire dallo scafo, ma non entrare dall’esterno. Questa cosa dev’essere stata progettata dal demone di Maxwell.»
Girandosi verso l’alieno, Stoner lo fissò alla luce debole delle stelle. Poi ricordò che alla cintura era allacciata una torcia elettrica, e l’accese.
Si chinò sul corpo dell’alieno. Era molto lungo, e magro, emaciato, disseccato.
«È alto più di due metri, direi. Niente vestiti. È magrissimo. Ci sono parecchie costole che sporgono. Il corpo è coperto da un pelo arancione-marrone, Sembra un po’ la lanuggine del velluto, più o meno.»
«La figura è umana?» chiese Federenko.
«All’incirca. Due braccia, una testa. Il corpo è molto più lungo del nostro… Le gambe partono dove noi abbiamo le ginocchia. E ne ha quattro, di gambe. Tutte molto nodose, con qualcosa che sembrano zoccoli arrotondati alle estremità.»
«Aspetta…» disse Federenko. «Tyuratam mi comunica che le tue parole vengono trasmesse in Unione Sovietica, Europa, America, Asia, e in altri posti.»
«Sono in diretta, Nikolai? In Russia?»
Federenko esitò, poi rispose: «In URSS, la trasmissione è in differita di quindici minuti. I nostri censori devono accertarsi che non vengano dette cose pericolose.»
«E in America?»
«In diretta, immagino.»
«Allora dovrò stare attento alle parolacce.»
Federenko non rispose.
Stoner riportò l’attenzione sull’alieno. «Le braccia sono più lunghe delle nostre. Le mani hanno solo due dita ciascuna, e alle estremità ci sono quelle che sembrano ventose, come quelle dei polipi.»
«La testa? Il viso?»
«Mi sembra che abbia due occhi, ma sono chiusi. Non vedo naso, però c’è la bocca… Le labbra, cioè. Lunghe e strette.» Stoner non aveva il coraggio di toccare la creatura, anche se avrebbe disperatamente voluto scoprire cosa ci fosse dietro quelle labbra, dietro quelle palpebre chiuse. «Una peluria morbida gli copre tutto il viso, persino le palpebre. La testa è rotonda, col cranio grosso e molto liscio. Non riesco a vedere con cosa respirasse.»
«Adesso respira?»
«No. È morto. “Lo sento.” Qui dentro non c’è atmosfera. Questo locale contiene solo il vuoto da millenni. E fa freddo. Mi si sta appannando la visiera.»
«Accendi l’impianto termico.»
«Lo sto facendo.» Il ventilatore miniaturizzato inserito nel casco ronzò un po’ più forte.
Quando la brina si sciolse sulla visiera, Stoner vide che sul feretro, accanto al corpo dell’alieno, c’erano delle scritte. E degli oggetti: una coppa di metallo, una sfera trasparente grande come un pallone, un bastoncino che sembrava fatto di legno. Cercò di prendere il bastone, che però restò incollato al feretro. Mentre descriveva tutto al microfono, tentò di spostare gli altri oggetti. Nemmeno uno si mosse.
«È un sarcofago, Nikolai. Una tomba. Lo so. Questo essere è morto un milione di anni fa e ha fatto lanciare il suo corpo nello spazio… Come un faraone egiziano. Si è fatto lanciare in un sarcofago.»
«Ma perché?»
«Per fare da ambasciatore!» Stoner intuì coscientemente la verità nell’attimo in cui rispose. «Certo! Un ambasciatore! Quale modo migliore per entrate in contatto con razze intelligenti sconosciute e disseminate su migliaia di anni luce?»
«Ambasciatore?»
«Sì!» Stoner sapeva di aver ragione. «Ci sta dicendo: “Eccomi qui, voglio che mi vediate, che sappiate che esisto, che la mia civiltà esiste. Non siete soli nell’universo. Prendete il mio corpo. Studiatelo; studiate gli oggetti che ho portato con me. Studiate la mia nave. Imparate da me.” Quale modo migliore per dividere con noi la sua scienza? Per dimostrarci che i suoi scopi sono assolutamente pacifici, amichevoli?»
Federenko restò in silenzio, a riflettere.
Stoner tornò alla sua descrizione. «La mascella mi pare praticamente identica a quella umana. Niente orecchie, però ai lati della testa sono in evidenza due cerchi… Sembrano sporgenze ossee. Piatte? Devono essere organi sensoriali.»
«E gli organi sessuali?» chiese Federenko, poi aggiunse: «Lo vogliono sapere i biologi.»
Stoner sorrise. «Me l’immaginavo. Al solito posto non vedo niente, però c’è una sporgenza a metà circa del torso. E lì attorno il pelo è di un colore diverso, più giallo.» “Cristo, deve essere morto in erezione” pensò Stoner.
«Aspetta» disse Federenko. «Sta arrivando una comunicazione da Terra.»
Stoner fece il giro della Piattaforma funebre, barcollando leggermente per l’assenza di gravità. Sul lato opposto dell’alieno c’erano altri oggetti: in particolare, un quadrato disseminato di puntini collegati fra loro da linee sottili. “Una mappa astronomica?” si chiese lui. “Questa nave è l’arca del tesoro; ha portato con sé tutta la sua civiltà.”
La voce di Federenko interruppe le sue riflessioni. «Passa sulla frequenza due, Shtoner.»
Stoner cambiò canale. Il russo gli disse: «Shtoner, questa frequenza è riservata a noi. Non viene ritrasmessa in televisione.»
«Okay.»
«Il comando missione sta preparando una nuova traiettoria per riportarci a casa. Stanno per lanciare un’altra cisterna.»
«Lo sapevo che avrebbero escogitato qualche cosa.»
«Accenderemo i retrorazzi per uscire dalla traiettoria attuale. Molto presto.»
Stoner sentì squillare un campanello d’allarme. «Presto quanto?»
«I computer ci stanno lavorando. Ma tu devi tenerti pronto a rientrare sulla Soyuz quanto te lo ordinerò.»
«Certo.»
«Adesso fotografa tutto. Il tempo incalza.»
«Okay. Torno sulla frequenza uno. Voglio che tutti sentano quello che ho da dire.»
Federenko grugnì: «Secondo la stima di Tyuratam, più di un miliardo di persone stanno ascoltando la tua voce.»
“Bene” pensò Stoner. “Ora sapranno.”
Togliendo dalla cintura la macchina fotografica stereo, Stoner disse al mondo: «Credo sia ormai chiaro che questo alieno è giunto in pace. Ci offre il suo corpo e i suoi tesori; ce lì regala perché possiamo studiarli. Ci dice che non dobbiamo temere nulla, che fra le stelle vivono altre razze intelligenti. Non siamo soli. L’universo è pieno di vita, di una vita intelligente, civilizzata.»
Si stava perdendo in chiacchiere, e lo sapeva; ma, mentre le sue mani scattavano automaticamente fotografie, continuò: «Non abbiamo nulla da temere! Questa non è la fine del nostro mondo, è appena l’inizio! Capite cosa significa? Le civiltà intelligenti non si distruggono con le guerre o l’inquinamento o la sovrappopolazione… Non sempre, non inevitabilmente. Abbiamo davanti a noi un futuro luminoso e sterminato quanto le stelle, se lottiamo per raggiungerlo, se lavoriamo assieme, tutti assieme… L’intera razza umana come una sola specie, come una sola famiglia, come una famiglia della grande comunità interstellare delle civiltà evolute…»
A Roma, Piazza San Pietro era affollata da decine di migliaia di persone che, in reverente silenzio, guardavano gli schermi televisivi giganti installati dal governo. Alla fine apparve il papa, non al balcone, come al solito, ma in cima alla scalinata della cattedrale, circondato da cardinali in rosso e dalle pittoresche guardie svizzere.
L’enorme folla, con un ruggito assordante, si precipitò verso il pontefice. Il papa sorrise, annuì e benedì tutti.
A Washington, il presidente seguì il rendez-vous nella quiete del suo appartamento, circondato da moglie e figli. Sotto, nell’Ala Ovest, anche i suoi collaboratori guardarono la televisione, e per qualche ora almeno nessuno pensò più all’imminente Convenzione nazionale.
A Mosca, Georgi Borodinski telefonò al comandante della forza missilistica dell’Armata Rossa e gli ordinò personalmente di disattivare i due missili con testata nucleare che erano pronti a intercettare la nave aliena.
A pochi isolati dal Cremlino, il ministro alla sicurezza interna prese da un cassetto della scrivania una piccola pistola e, con un sorriso sardonico sulle labbra, se la puntò alla tempia e premette il grilletto.
Al centro di controllo di Tyuratam, il viso di Jo s’illuminò nel vedere le cifre che apparivano sullo schermo del computer.
Girandosi verso Markov, che era ancora al suo fianco, disse: «Andrà tutto bene! Possiamo riportarli indietro! Devono uscire dall’orbita attuale entro mezz’ora. Se lo faranno, potranno andare alla deriva finché la nuova cisterna non li raggiungerà.»
Markov urlò, sollevò Jo dalla poltroncina e la baciò. Una delle guardie alle loro spalle sobbalzò al frastuono improvviso e puntò su di loro il mitragliatore.
«Ti amo come una sorella!» proclamò ad alta voce Markov. Il compagno della guardia, senza una parola, ma con una smorfia di rimprovero, abbassò sul pavimento la canna dell’arma dell’altro.
Indifferente a ciò che accadeva dietro di lui, Markov aggiunse, in un sussurro all’orecchio di Jo: «Sai, non ho mai creduto a quello stupido tabù che proibisce l’incesto.»
Stoner aveva la gola secca e la voce rauca, ma continuava a parlare, descrivendo nei particolari ogni oggetto presente sulla nave, e a scattare foto stereo. Da Tyuratam e Kwajalein arrivavano domande a catena.
«No, non c’è traccia di altre forme di vita. Né piante né semi né animali. Forse si trovano in altri compartimenti della nave.
«Ho cercato di entrare nelle altre parti della nave, ma non c’è niente da fare. Le paratie non si muovono. Bisognerà studiare parecchio per capire come funzionano i loro meccanismi.
«Credo che la scoperta più importante fra tutti questi oggetti sia la carta stellare. Cioè, penso che sia una carta stellare. Non riconosco nessuna costellazione, ma ci sono incisi simboli grafici, forse un linguaggio… Sembrano cerchi e spirali.»
Lo interruppe la voce profonda di Federenko. «Shtoner, abbiamo i dati per la nuova traiettoria. Ci agganceremo con un’altra aerocisterna. Dobbiamo accendere i retrorazzi tra undici minuti.»
«Undici minuti?» A Stoner si fermò il cuore in petto, e la voce quasi gli si spezzò.
«Dieci minuti e quarantotto secondi, per l’esattezza.»
Gli occhi di Stoner corsero all’alieno morto. “Ha impiegato migliaia d’anni per arrivare qui, e io devo lasciarlo tra dieci fottuti minuti?”
«No» protestò. «Ci serve più tempo. Non possiamo…»
«Non c’è altro tempo» ribatté Federenko. «Rientra immediatamente sulla Soyuz. Non esistono alternative.»
«Nikolai, non posso! Non ancora!»
«Adesso, Shtoner.»
Lui guardò, attraverso lo scafo trasparente del sarcofago, le stelle lontane. Poi la Terra, così piccola e lontana; e infine la Soyuz, tozza, disarmonica.
«Nikolai, ti prego…»
«Dobbiamo partire, Shtoner. O morire qui.»
Il respiro della morte passò su di lui, che si girò a fissare ancora una volta l’alieno. “Hai percorso questa distanza immensa per offrirci il tuo corpo, le tue conoscenze, tutto ciò che sei e rappresenti. Ci sono tante cose da imparare da te…”
«Shtoner.»
«No» disse lui, calmo. «Io non torno con te, Nikolai.»
«Shtoner…»
«Io resto qui, con lui. Forse, tra qualche milione d’anni, un’altra civiltà ci ritroverà, tutte due.»
E spense la radio.