Hideki Takamura passeggiava sul ponte della baleniera, coperto d’un maglione di lana col cappuccio e dalla giacca a vento. Ormai la stagione della caccia alle balene era terminata, e se un aereo o una nave della Commissione Internazionale li avessero visti, il Giappone avrebbe ricevuto un imbarazzante rimprovero sotto gli occhi del mondo intero. Se non altro, quei pazzi del Comitato Ecologico se n’erano andati. Era già qualcosa. La stagione di pesca era stata povera; e così, anche se la Commissione aveva ordinato a tutte le baleniere di rientrare, loro percorrevano ancora i mari dell’Antartide, mentre le notti si facevano sempre più lunghe, nella speranza di trovare qualche balena isolata per riempire le stive semivuote.
In cielo, le nubi si aprirono, come scostate dalle mani di un gigante. Takamura guardò le stelle fredde, lontane. E il respiro gli si mozzò in gola. Il cielo era vivido di luci: cortine di bagliori rossi, verdi, viola, solcavano l’orizzonte. Le luce degli dei che danzavano in cielo.
Una paura totale attanagliò il cuore di Takamura. Tutti i lunghi anni di studio e di preparazione scientifica di cui andava tanto fiero svanirono dalla sua mente. “Questo è un segno del Maligno” pensò. “Un segno del Maligno…”
Il giorno stava morendo lentamente.
Stoner aveva cenato con Jeff Thompson in uno dei tre ristoranti di Kwajalein gestiti dal governo. Il cibo costava poco, e non offriva niente di più di quello che il prezzo prometteva. Quando uscirono, il sole era ancora alto. Stoner tornò in ufficio a studiare le ultime foto di Big Eye.
Anche con l’ingrandimento massimo del telescopio orbitale, la nave aliena era solo una macchia informe di luce, un puntolino sulla foto, una chiazza bianca sullo sfondo immutabile dell’eternità.
Quando Stoner lasciò l’ufficio, il sole stava riempiendo il cielo tropicale di spettacolari strisce rosse e arancioni. S’incamminò verso il Circolo Ufficiali, oltrepassando gli edifici grigi, massicci.
Si chiese dove fosse Jo, cosa stesse facendo; l’immagine della ragazza a letto con McDermott gli riempì la mente. Cercò di respingerla, di soffocarla, di pensare ad altro. Accelerò il passo: aveva bisogno di compagnia, di parlare, di qualcosa per togliersi quelle immagini dalla mente.
«Ah, Stoner!» Cavendish era sulla porta del Circolo con un giovanotto magro, biondo, dall’espressione cupa.
«Ti presento Hans Schmidt, del radio osservatorio olandese di Dwingeloo.»
Stoner tese automaticamente la mano. La stretta di Schmidt era tiepida.
«Dwingeloo» disse Stoner, solleticato da un ricordo. «Qualche giorno fa ho visto un rapporto dove si diceva che Dwingeloo ha captato i segnali radio l’estate scorsa.»
«Infatti. Sono stato io» disse Schmidt in un inglese impeccabile. «Però la NATO ha classificato segreto il mio lavoro.»
Il ragazzo era un po’ più alto di Stoner, e magro, ma aveva ancora un viso paffuto da bambino. La fronte era alta, gli occhi un po’ gonfi, le labbra piegate in una smorfia. “Sarà calvo prima dei trent’anni” pensò Stoner “ma sembrerà sempre un ragazzino.”
«Benvenuto al club» ribatté Stoner. «Anche il mio lavoro è diventato segreto.»
«Giusto» disse Cavendish, appoggiando le mani sulle schiene degli altri due e spingendoli dolcemente verso il Circolo. Può darsi che il nostro Schmidt sia stato il primo a scoprire i segnali. Quand’è che il tuo gruppo li ha captati?
«Non era il mio gruppo» disse Stoner. «Mi hanno assunto dopo, come consulente. Dovrebbe parlarne con Jeff Thompson.»
Entrarono nell’affollato locale e ordinarono. Cavendish prese un brandy, Stoner uno scotch con acqua, Schmidt una Heineken. Il Circolo era pieno di confusione e di fumo; era il migliore (e unico) bar dell’isola. Dopo aver parlato per una quindicina di minuti, Stoner ammise che probabilmente Schmidt aveva riconosciuto la strana natura dei segnali radio prima di Thompson.
«Quindi, il merito sarà tutto suo» disse Cavendish «quando questa faccenda sarà di dominio pubblico.»
Schmidt parve ancora più depresso. «Quando questa faccenda sarà di dominio pubblico, io sarò vecchio.»
«Oh, andiamo, ha ancora tutto il futuro davanti a lei.»
Schmidt finì la birra. Sembrava sull’orlo delle lacrime.
«L’hanno trattata male, eh?» chiese Stoner.
Il ragazzo annuì lentamente. «Dovevo fidanzarmi… Adesso chissà per quanto tempo resterò qui.»
«È successo anche a me. Ci hanno trattati tutti da animali. Lo sa come ho festeggiato il Natale? Mi hanno permesso di fare una telefonata ai miei figli. Una sola. Neanche fossi un galeotto.»
«Non potevano far venire qui anche la sua ragazza?» chiese Cavendish.
«Non le hanno dato il permesso. E comunque non sarebbe venuta. Gliel’ho chiesto, ma mi ha detto di no. Non che non la capisca… Lasciare casa e famiglia per andare in capo al mondo.» Scosse la testa, corrucciato.
«Una fottuta situazione» mormorò Cavendish.
«Prima distruggono le mie ricerche coi loro regolamenti di sicurezza» continuò Schmidt, fissando il fondo del bicchiere «e adesso mi esiliano su quest’isola. Mi tratterebbero meglio se avessi ucciso qualcuno. Mi tratterebbero meglio se diventassi un terrorista e dirottassi un treno o minacciassi di far saltare un aereo.»
«Però c’è una cosa» disse lentamente Cavendish.
«Cioè?» chiese Schmidt.
«Tra mille anni, chi scriverà la storia dell’umanità celebrerà il suo nome. Sarà il primo uomo che sia entrato in contatto con una razza extraterrestre intelligente.»
Stoner avvicinò lo scotch alle labbra, e si disse: “No. Schmidt avrà anche scoperto i segnali radio, ma sarò io il primo uomo a entrare in contatto diretto con gli alieni. O a morire nel tentativo di farlo”.
La smorfia corrucciata di Schmidt si accentuò. «E cosa le fa pensare che tra mille anni esisterà una razza umana che scriva la propria storia? O anche solo fra cent’anni?»
«Naturalmente…»
«Supponga» proseguì Schmidt «che questa nave sia un invasore, l’avanguardia di una flotta aliena che ci annienterà. Chi potrà scrivere il mio nome?»
«Un’ipotesi un po’ drammatica, non crede?»
Stoner, a metà di un altro sorso, scoppiò a ridere nel bicchiere. «Siamo qui» disse «su un atollo dimenticato da Dio nel mezzo del Pacifico, ad aspettare che un’astronave aliena ci passi tanto vicina da poterla studiare, e tu parli di ipotesi drammatiche? Tutta questa storia è eccessiva!»
«Hm. Già. Comunque, io proprio non credo che una specie intelligente se ne vada in giro per l’universo solo con l’idea di distruggere e rapinare. Succede nei libri, e basta.»
«E chi lo sa?» disse Stoner. «Non si può dedurre una traiettoria da un solo dato.»
Cavendish appoggiò sul banco il bicchiere vuoto. «Si è fatto tardi, per me. Sarà meglio che me ne vada.» Tolse dal portafoglio un biglietto da un dollaro e lo posò sul banco. «Buonanotte.»
E si allontanò subito, piantando lì Stoner e Schmidt. Stoner si sentiva a disagio col ragazzo, che peraltro sembrava felicissimo di abbandonarsi alle sue malinconie.
“Cavendish mi ha appioppato il pupo” capì all’improvviso Stoner. “Vecchio imbroglione lurido!”
Scrutò la folla, in cerca di un viso amico. Il locale rigurgitava di fumo e uomini. Uomini che parlavano forte, ridevano, bevevano, agitavano sigarette e sigari, giocavano a carte, si raccontavano storie, assediavano le poche donne. Scienziati e tecnici del Progetto Jupiter avevano triplicato le presenze umane sull’isola, ma la sproporzione tra uomini e donne era sempre enorme.
“I commercianti di Kwajalein votano a favore dell’alieno” pensò Stoner. “Il barista non si preoccupa all’idea di essere invaso. Basta che i soldi continuino a entrare.”
Individuò Markov a un tavolo sul lato opposto del locale, circondato da un misto di americani, europei e russi. Sembrava che si stessero divertendo.
“Dovrei conoscere meglio Markov” si disse Stoner.
Lanciò un’occhiata a Schmidt, che fissava trucemente il secondo bicchiere di birra, e gli disse: «Forza, uniamoci a quelli là.»
L’astronomo olandese lo seguì senza una parola.
«…E così, lei mi informa» stava dicendo Markov, lo sguardo acceso, le mani che sfioravano un bicchiere di vodka «che vuole fare il bagno di mezzanotte.»
Stoner prese una sedia dal tavolo vicino e si unì al gruppo. Schmidt restò in piedi alle sue spalle.
Dopo una strizzatina d’occhio di saluto, Markov continuò: «Ovviamente è americana, e piuttosto bella. Quando le spiego che non ho il costume, lei mi introduce ai misteri di un’espressione americana sconosciuta: “Bagno a fior di pelle”.»
Lo trovarono tutti molto divertente, e risero. Tutti tranne Schmidt. Stoner si chiese di chi stesse parlando il russo.
«Naturalmente, quando mi spiega cosa significa “bagno a fior di pelle”, sono felicissimo di seguirla!»
Un coro assordante di risate.
«Poi, quando siamo entrati in acqua, mi dice che la laguna è piena di squali, specialmente di notte.»
«È vero» disse uno degli americani.
«Ci sono anche le murene.»
«Però, aggiunge, se restiamo nell’acqua bassa siamo perfettamente al sicuro. Lì s’incontrano solo squali piccoli.»
Alzando gli occhi, Stoner vide che Schmidt non si era ancora concesso un solo sorriso. Un caso disperato.
«E cos’hai fatto?»
Markov scrollò teatralmente le spalle.
«Cosa potevo fare? Posto di fronte al dilemma di incontrare uno squalo o di lasciarla sola e indifesa nella laguna, ho fatto l’unica cosa giusta.» Una pausa a effetto. «Sono corso sulla spiaggia a tutta velocità e ho cominciato a rivestirmi!»
Stoner rise con gli altri. Però, all’improvviso, intuì che forse il russo stava parlando di Jo.
«Lei mi urla dall’acqua: “Non avere paura! Questi piccoli squali non danno fastidio a nessuno!”. E io le rispondo: “Ti sbagli. A qualcuno danno fastidio. A me!”.»
Uno dei russi, in un inglese approssimativo, disse: «Con uno squalo, un uomo ha molto più da perdere di una donna.»
«Che esperienza» riprese Markov. «È uscita dall’acqua e ha cominciato a insultarmi per la mia vigliaccheria. Vi è mai capitato di subire le ire di una ragazza nuda e gocciolante, sotto la luna tropicale? Roba da far saltare i nervi.»
Bevve un lungo sorso di vodka.
«E così sei tornato sporco di sabbia e tutto bagnato» disse qualcuno.
«Avrei preferito fare un salto da lei… Per lavarmi, se non altro» spiegò Markov. «Però sta all’hotel con tutte le altre donne non sposate, e dopo mezzanotte è impossibile che le guardie ti lascino entrare.»
«Che peccato.»
Markov sospirò. «Ho speranze. Mi dicono che lo spaccio venda un repellente per gli squali.»
«Ci sono anche piscine» disse qualcuno. «Qui al Circolo Ufficiali, all’hotel, e un’altra all’Aus.»
«Sì, lo so. Però, vedi, non è che a me interessi nuotare.»
Tutti gli altri scoppiarono a ridere, ma Stoner pensò: “Gesù Cristo, ci scommetto che sta parlando di Jo. Jo potrebbe benissimo fare una cosa del genere”. Capì che non gli andava l’idea che il russo la prendesse in giro, ma se non altro Markov non aveva fatto il suo nome. Perché, probabilmente, non sapeva nemmeno come si chiamasse.
Il gruppo attorno al tavolo continuò a raccontare aneddoti per un’oretta, poi cominciò a sciogliersi. Quando si alzò, Stoner si accorse che Schmidt era già scomparso. Chissà da quanto se n’era andato.
«Dottor Stoner» gli disse Markov.
«Lei è un ottimo parlatore.»
Markov atteggiò il viso a un’espressione di modestia. S’avviarono alla porta.
«Non ho ancora avuto la possibilità di dirle quanto mi abbia fatto piacere la sua lettera.»
«Ha scritto un ottimo libro.»
«Grazie» disse Markov, a voce talmente bassa che Stoner riuscì appena a udirlo nel frastuono del Circolo. «Però deve capire che la sua lettera ha svelato al nostro governo che si stava occupando dei segnali radio provenienti da Giove.»
«Lo so. È per questo che l’ho scritta. Ho pensato che la mia lettera non vi avrebbe detto niente, se non foste stati al corrente dei segnali. E se invece li conoscevate già, be’… Era necessario lavorare assieme, non in competizione.»
Raggiunsero la porta, uscirono nella calma della sera. «Temevo che i vostri servizi segreti la arrestassero, dopo quella lettera.»
«E infatti. Crede che sarei qui, se non mi avessero costretto a venire?»
In tutta onestà, Markov rispose: «Certo che ci sarebbe. Avrebbe rubato un sottomarino e si sarebbe spinto qui col favore delle tenebre, in mancanza di alternative. Questo è l’unico posto adatto a un uomo come lei, e non cerchi di nascondere una verità tanto ovvia. Soprattutto, non la nasconda a lei stesso.»
Stoner si fermò di colpo Sotto il lampione davanti all’entrata del Circolo, e fissò Markov. Dopo un attimo, ammise: «Ha ragione. Porca miseria, Ha proprio ragione.»
Markov ebbe un sorriso da ragazzino.
«Cosa c’entra un linguista, però? Non mi dica che è stata la mia lettera a metterla nei guai.»
«No, assolutamente no. Anzi, mi ha reso più prezioso agli occhi dei custodi della salvezza del popolo.» Markov s’incamminò piano, e Stoner gli si mise a fianco. «No, sono stato morso dalla stessa zanzara che ha infettato lei.» Il russo alzò gli occhi al cielo stellato. «Voglio “sapere”!»
Stoner annuì suo malgrado. «Già. Se esiste un solo PROGETTO JUPITER, dobbiamo stare tutti qui.»
«Certo. Il sapere è l’unica cosa importante, l’unica cosa duratura. Il piacere della scoperta… Ah, che emozione. Meglio delle donne, credetemi.»
«Meglio di “certe” donne» lo corresse Stoner.
Markov rovesciò la testa all’indietro, esplose in una risata. «Sì, sì! Giusto! Meglio di alcune!»
Stoner guardò l’ora, poi chiese: «Vuole venire al centro radar? Stanotte tenteranno di entrare in contatto col nostro oggetto.»
«Entrare in contatto?»
«Far rimbalzare un segnale radar» spiegò Stoner.
«Ma non è oltre Marte?»
«Sì, però quelli del centro radar pensano di poterci riuscire. Non vedono l’ora di provarci.»
«Verrò con lei» disse Markov. «Non ho mai visto una cosa del genere.»
«Non l’ha mai vista nessuno» ribatté Stoner. «E può darsi che non succeda stanotte. Quell’oggetto è maledettamente lontano.»
I due s’incamminarono, fianco a fianco, lungo la strada deserta, nell’oscurità calda e umida, indifferenti al profumo dei fiori e all’aroma salmastro dell’aria.
L’accademico Bulacheff sedeva, irrequieto, sulla sedia a schienale rigido. Sotto la scrivania di Borodinski c’era una piccola piattaforma in legno, per cui chi andava a conferire con lui doveva tenere la testa sempre alzata. Un vecchio trucco, ma Borodinski lo sapeva sfruttare bene. Aveva accolto l’accademico in modo brusco, gli aveva indicato la sedia, dopo di che aveva chinato la testa quasi calva e la barba curatissima sulle carte che ingombravano la scrivania.
“Allora è vero” si disse Bulacheff. “Il segretario generale sta morendo, e noi dovremo sopportare quest’uomo troppo giovane. Chissà se lo fa apposta a cercare di assomigliare a Lenin.”
Come leggendogli nel pensiero, Borodinski alzò gli occhi in quel preciso momento.
Sorrise paternamente. «Mi spiace di averla fatta aspettare, accademico Bulacheff, ma in questi ultimi giorni la pressione degli affari più urgenti è stata tremenda.»
Bulacheff esitò un istante, poi chiese: «Il compagno segretario? Sta bene?»
«Oh, sì, benissimo.» Il sorriso di Borodinski si smorzò. «Però è estremamente… occupato. Lo deve scusare.»
«Pensavo di vederlo. Abbiamo sempre discusso questa faccenda fra noi, di persona…»
«Per ragioni di sicurezza, lo so.»
«Ma il nostro comune amico mi ha chiesto di parlare con lei oggi.»
«Vedo.» Bulacheff si chiese fino a che punto potesse fidarsi di un uomo così giovane.
«I rapporti che giungono da Kwajalein indicano che forse sarebbe opportuno mandare un gruppo di cosmonauti incontro alla nave aliena» disse Borodinski. «Sono in corso preparativi in questo senso?»
“Sa tutto” capì Bulacheff. “Inutile tentare di tergiversare.” «I settori specializzati dell’Accademia stanno seguendo la nave e preparando i piani di navigazione per la missione di rendez-vous.»
«Bene.»
«Tuttavia, non spetta a noi chiedere all’esercito di mettere a disposizione i missili e i cosmonauti necessari per la missione.»
«Capisco.» Borodinski annuì. «Stiamo facendo questi passi, gliel’assicuro. Ciò che vogliamo da voi scienziati, per ora, sono dati sempre aggiornati sulla traiettoria della nave per un volo d’intercettamento.»
«Intercettamento?»
«Se l’astronave fosse ostile, o se dovesse cadere in mani nemiche…»
«La distruggerebbe?»
Borodinski aprì le mani verso il soffitto, «Puf! Con una bomba H. Il nostro amico non l’ha informata di questa possibilità?»
«Ne ha accennato una volta, sì, però…»
«Allora capisce che ci servono i dati sulla traiettoria. E solo i vostri radiotelescopi a lunga portata possono fornirli, a quanto mi si dice. I radar anti-missile dell’esercito non hanno una portata sufficiente.»
«Certo.»
Borodinski sorrise dolcemente, passandosi una mano sulla barba.
«Compagno…» iniziò a dire Bulacheff, poi esitò.
«Sì?»
«Sono corse… voci… di arresti, interrogatori. Il segretario generale sta bene? È al sicuro?»
L’altro socchiuse gli occhi, e il sorriso gli morì sulle labbra. «Compagno accademico, le assicuro che il segretario generale è al sicuro, e sta bene, e che nutre un interesse estremo per il visitatore alieno. In quanto alle voci di… cambiamenti all’interno del Cremlino, non se ne preoccupi. Non è cosa che riguardi lei, lo prometto.»
Bulacheff, però, avvertì sul cuore un peso antico, familiare.
Alzandosi, Borodinski disse: «L’unica cosa di cui deve preoccuparsi, mio caro accademico, sono i dati che ci occorrono.»
«Per il rendez-vous con l’astronave.»
«O per intercettarla con un missile.» Borodinski puntò l’indice sullo scienziato. «I nostri cosmonauti saliranno su quella nave, oppure la distruggeremo.»
Cavendish aveva di nuovo gli incubi. Il clima tropicale sembrava privare di tutte le energie il suo corpo fragile: da che era arrivato a Kwajalein, ogni sera andava a letto sempre prima. Ma il suo sonno era tutt’altro che tranquillo. Erano ancora chini su di lui con aghi e luci. Lui era piccolissimo, ed era stato molto cattivo a voler opporre resistenza. Loro erano giganti; opporsi a loro significava essere non solo sciocchi, ma anche cattivi. Vedeva l’oro dei loro denti quando ridevano, e avrebbe voluto fuggire, ma il suo corpo era paralizzato e gli aghi gli si infilavano nella carne e sentiva i liquidi bruciarlo, mentre tutti loro si protendevano su di lui…
Si rizzò a sedere sul letto, scosso dai brividi, coperto di sudore freddo. La testa stava per scoppiargli. I muscoli del collo erano talmente rigidi che quasi non riusciva a muovere la testa.
Solo nella stanza degli Alloggi Ufficiali Scapoli, Cavendish s’infilò la vecchia vestaglia sbiadita, si mise le ciabatte, prese una salvietta e una saponetta dal lavandino. S’avviò in corridoio, raggiunse il bagno.
A quell’ora, era deserto. Scelse una doccia e restò sotto l’acqua per diversi minuti. L’acqua era appena tiepida; più che rilassare, irritava.
Tornato nella stanza, fissò per lunghi momenti il letto sfatto e bagnato di sudore; poi, automaticamente, s’infilò una vecchia camicia e un paio di calzoncini. Era stanchissimo; i suoi occhi avrebbero voluto chiudersi. Invece, si allacciò ai piedi il suo unico paio di sandali, superò la soglia e uscì come un sonnambulo dall’AUS. Lo inghiottirono le tenebre della notte.
Raggiunse direttamente il bungalow dove abitavano i Markov, salì gli scalini e aprì la porta senza bussare.
Maria era seduta sul divano del soggiorno; aveva accanto una valigetta aperta. L’interno della valigetta era pieno di interruttori e quadranti che ronzavano piano. Un’unica luce rossa splendeva come un occhio demoniaco, furibondo.
Il viso di Maria era un insieme di stupore, incredulità e paura.
«Dottor Cavendish?» sussurrò, quasi temesse di svegliarlo.
«Sì» rispose lui. Una parte di Cavendish, sepolta nel profondo, si chiese chi fosse quella donna e cosa volesse da lui. Nella stanza era accesa una sola lampada, dietro la donna, sulla valigetta con le apparecchiature elettroniche.
«Si sieda» disse Maria.
Cavendish si accomodò in poltrona e incrociò le caviglie, appoggiò le mani in grembo, restò a fissare il nulla, con espressione vacua.
Maria, ansiosa, si passò la lingua sulle labbra. Sapeva che Kirill sarebbe tornato presto. Erano trascorse ore prima che l’apparecchio spingesse Cavendish a presentarsi lì; in parte perché, Maria lo capì in quel momento, non aveva avuto il coraggio di erogare subito l’energia necessaria.
«Non ricorda nulla di questo incontro, vero?» chiese, e la voce le tremò un poco.
«Assolutamente nulla» rispose lui, calmo.
«I riflessi esistono ancora, anche dopo tutti questi anni» si stupì lei. «La prima volta che ci siamo visti io ero solo una ragazzina, dottor Cavendish. Lei non si ricorda di me, credo. È stato in un posto che si chiama Berezovo.»
«L’o… L’ospedale…»
«Sì, sì. Lei era un paziente difficile. Però adesso non creerà difficoltà, vero? Non mi costringerà a… a farle quello che le hanno fatto… all’ospedale.»
«Non creerò difficoltà.»
«Ci darà tutta la sua collaborazione, vero?»
«Tutta la mia collaborazione.»
Maria sospirò di sollievo. «Benissimo. E adesso, per quell’americano… Stoner…»
«Gli ordini erano di scoprire quanto sapesse e poi, se possibile, eliminarlo.»
«Non ha seguito gli ordini.»
«Ho trasmesso le informazioni richieste. Eliminarlo si è dimostrato impossibile. Eravamo sotto sorveglianza continua.»
«È questo il suo unico motivo?»
Cavendish si leccò le labbra. «Gli ordini mi sembravano stupidi. Perché eliminarlo quando possiamo usare quello che sa, quello che scoprirà?»
«Si è comportato bene, dottor Cavendish.»
Le mani del vecchio si rilassarono, gli occhi gli si inumidirono di lacrime. «Io voglio comportarmi bene. Davvero. Sul serio, lo giuro.»
Maria avvertì una contrazione allo stomaco. Chiuse gli occhi per non dover più vedere il vecchio che piangeva.
Mezzanotte era passata da parecchio, ma Stoner e Markov non avevano ancora lasciato il centro elettronico. Fuori, su una parte di terreno nuda, spoglia d’alberi, due antenne gigantesche erano puntate nella notte ventosa.
Stoner e Markov erano protesi sopra le spalle del tecnico radar seduto alla consolle centrale. I loro tre visi si riflettevano vagamente al chiarore verdastro dello schermo circolare della consolle. Altri uomini e donne avevano lasciato il lavoro per radunarsi attorno a loro.
«È un segnale di ritorno, sì» mormorò il tecnico. «Però maledettamente debole.»
Lo schermo splendeva e scintillava come se fosse vivo. Cerchi gialli concentrici, sottilissimi, si stagliavano sullo sfondo verde dello schermo. Nel quadrante superiore destro del cerchio più esterno, in alto, una macchia arancione brillava debolmente.
«Non puoi centrarlo?» chiese Stoner.
Il tecnico controllò una tabella appesa sotto lo schermo. «Non ancora. Ci sono di mezzo dei satelliti. Disperderebbero i segnali e perderemmo l’obiettivo che ci interessa.»
«È “quello”?» sussurrò Markov, gli occhi incollati allo schermo.
«È quello» rispose Stoner.
Il piccolo gruppo alle loro spalle parve uscire in un sospiro collettivo. Markov si tirò la barba e vide la propria immagine riflessa sul vetro dello schermo: occhi gonfi, labbra contratte; nervoso, stupito, impaurito.
«Qual è il vettore di velocità?» chiese Stoner al tecnico. A Markov, l’americano appariva calmo, di una calma tesa, quasi si stesse dominando nel timore di esplodere se avesse perso il controllo di sé per un solo istante.
Senza una parola, il tecnico sfiorò una serie di comandi sulla tastiera che aveva davanti. Numeri e lettere apparvero sullo schermo, a fianco della macchia arancione.
«Dov’è un terminale di computer?» sbottò Stoner. «Non so dire se questi dati corrispondono alle nostre previsioni…»
«Lì c’è un terminale, signore» disse una delle donne, indicando un tavolo con uno schermo e una tastiera.
Stoner sedette davanti al tavolo e batté il codice. Sullo schermo apparve per un attimo una lunga serie di equazioni, subito sostituita da una lista più breve di alfanumerici. Stoner ruotò la sedia, guardò lo schermo radar e i simboli che vi comparivano.
«Zac!» urlò. «Perfetto! Sì, è il nostro obiettivo.»
Markov fissò la macchiolina luminosa sullo schermo radar, poi il sorriso soddisfatto di Stoner. Adesso stavano tutti ridendo, come se avessero appena visto nascere un bambino. Markov vedeva solo una macchia informe di luce e qualche numero.
«Su che frequenza sei?» chiese Stoner all’operatore radar.
I due si lanciarono in una discussione che non era più un linguaggio umano, ma una serie di numeri; e Markov distolse l’attenzione. Cercò di chiarirsi il significato di quello che era successo. Più di un’ora fa avevano fatto partire un segnale radar dalle antenne all’esterno dell’edificio. Il segnale aveva traversato lo spazio, raggiunto la nave aliena, ed era stato riflesso alle antenne. Quel puntolino di luce sullo schermo rappresentava la nave aliena.
Più tardi, quando smisero di congratularsi a vicenda e si accorsero che a quell’ora non era più possibile trovare una bottiglia di champagne, il gruppetto trionfante si spezzò. Due tecnici restarono al loro posto, gli altri andarono a dormire.
Camminando nella notte, Markov chiese a Stoner: «Cosa sappiamo adesso che non sapessimo prima?»
L’americano scrollò le spalle. «Niente. Proprio niente. Solo che l’oggetto si trova dove pensavamo dovesse trovarsi.»
«Perché tanta eccitazione, allora?»
«Perché abbiamo stabilito un collegamento» rispose Stoner, mentre superavano un gruppo di case su ruote. «Perché abbiamo uno strumento nuovo per studiarlo, un altro paio d’occhi. E occhi calibrati al millesimo. Adesso possiamo far sintonizzare sulla nave anche altri radar. Il grande impianto di Roi-Namur, per esempio. Goldstone e Haystack, in America. Persino Arecibo. Lo osserveranno su frequenze diverse, lunghezze d’onda diverse.»
«E cosa scopriremo?»
Stoner agitò una mano nella notte. «Lunghezza, dimensioni… Forse la massa, se siamo abbastanza in gamba. Con i rilevamenti radar, e con le fotografie, forse potremmo cominciare a farci un’idea di come è fatto: il materiale, la forma.»
Markov annuì. «E quando cercheremo di trasmettergli segnali?»
«Non lo so. Questo è affare vostro. Sarà Big Mac che dovrà decidere. Però, in un certo senso, gli abbiamo già inviato un segnale.»
«Il raggio radar?»
Stoner annuì. «Se su quell’astronave c’è qualcosa d’intelligente, un equipaggio, o anche solo un computer, i sensori di bordo avranno registrato il segnale radar. Ormai dovrebbero sapere che li abbiamo intercettati.»
Markov alzò gli occhi sulle stelle.
«Se non vogliono mettersi in contatto con noi» proseguì Stoner «cominceranno a fare manovra per allontanarsi.»
“E se sono ostili” pensò Markov “provvederanno ad agire in qualche altro modo.”