Per il poco che si vedeva al chiaro di luna, la ferita di Tam sembrava solo un taglio poco profondo lungo le costole, non più lungo del palmo della mano. Rand scosse la testa, incredulo: in altre occasioni, con ferite più gravi, Tam si era dato una lavata e aveva continuato a lavorare. Lo esaminò in fretta, da capo a piedi, cercando altre ferite che giustificassero la febbre, ma non ne trovò.
Per quanto piccolo, quell’unico taglio era però abbastanza serio: tutt’intorno la carne scottava, perfino più del resto del corpo. Una febbre così forte poteva risultare fatale, o provocare conseguenze gravissime. Rand inzuppò d’acqua uno straccio e lo posò sulla fronte di Tam.
Cercò di usare la massima delicatezza nel lavare e fasciare la ferita, ma Tam mandò gemiti soffocati. Tutt’intorno, i rami spogli si muovevano nel vento, minacciosi. Di sicuro i Trolloc se ne sarebbero andati per la loro strada, se al ritorno avessero trovato la casa deserta, si disse Rand; ma il fatto che avessero distrutto ogni cosa per capriccio, senza motivo, lasciava poco spazio alle speranze. Era sciocco e pericoloso credere che abbandonassero la zona senza avere fatto piazza pulita.
All’improvviso Rand si accorse di tenere in mano i capi della fascia senza annodarli. Impietrito come un coniglio che abbia visto l’ombra del falco, pensò con vergogna. Mosse la testa in un gesto di rabbia e finì di fasciare il torace di Tam.
Sapeva che cosa doveva fare, ma non per questo provava meno paura. Al ritorno, i Trolloc avrebbero di sicuro frugato la foresta intorno alla fattoria per cercare tracce dei fuggitivi: l’ultimo cadavere avrebbe rivelato che erano ancora nei pressi. E chissà come avrebbe reagito il Fade. Inoltre, Rand ricordava benissimo il commento di Tam sull’udito dei Trolloc. Resistette all’impulso di tappare la bocca a Tam, di soffocare i suoi gemiti e i suoi borbottii. Alcuni Trolloc sapevano fiutare la pista, ma lui non poteva farci niente. E non doveva perdere tempo a preoccuparsi di problemi che non era in grado di risolvere.
«Non fare rumore» mormorò all’orecchio del padre. «I Trolloc torneranno.»
Tam rispose con voce rauca e bassa. «Sei sempre bellissima, Kari. Bella come da ragazza.»
Rand fece una smorfia. Sua madre era morta da quindici anni. Se Tam credeva che fosse ancora in vita, allora la febbre era peggiore di quanto credesse. Come poteva impedirgli di parlare, ora che il silenzio aveva forse importanza vitale?
«Mamma vuole che tu stia zitto» mormorò. Esitò, per liberarsi la gola da un groppo improvviso. Sua madre aveva mani gentili, questo lo ricordava. «Kari vuole che tu stia zitto. Su, bevi un po’ d’acqua.»
Tam bevve dalla ghirba come un assetato, ma dopo qualche sorsata girò la testa e cominciò di nuovo a borbottare, in tono troppo basso perché Rand capisse. Il ragazzo si augurò che neppure i Trolloc lo udissero.
In fretta legò alle stanghe tre coperte e ottenne una barella di fortuna. L’avrebbe sorretta da un’estremità, lasciando che l’altra strisciasse per terra. Prese dalla cintola il coltello, tagliò dall’ultima coperta una lunga striscia e ne legò i capi alle stanghe.
Con la massima delicatezza sistemò Tam sulla barella, trasalendo a ogni gemito. Suo padre era sempre parso indistruttibile. Niente poteva fargli male, niente poteva fermarlo. Vedendolo in quella condizione, Rand sentì svanire quel po’ di coraggio che era riuscito a racimolare. Ma non si fermò.
Disteso Tam sulla barella, esitò, poi gli tolse il cinturone. Se lo legò alla cintola e provò uno strano effetto. Cinturone, fodero e spada pesavano in tutto solo qualche libbra, ma sembrarono gravare su di lui come un macigno.
Si rimproverò da solo: non era il momento di indulgere in sciocche fantasticherie. La spada era solo un coltello più grosso. Quante volte aveva sognato di possederne una e di avere delle avventure? Se, con quella, era riuscito a uccidere un Trolloc, di certo avrebbe tenuto a bada anche gli altri. Solo, sapeva fin troppo bene che in casa aveva avuto un bella dose di fortuna. E nei suoi sogni d’avventura non si era mai trovato a battere i denti dalla paura, né a scappare per salvarsi la vita, né ad assistere suo padre in punto di morte.
Stese addosso a Tam l’ultima coperta e sistemò sulla barella la ghirba e gli altri panni puliti. Con un sospiro si chinò fra le stanghe e si passò sulle spalle la striscia di coperta. Afferrò le stanghe e si raddrizzò in modo che la maggior parte del peso gli gravasse sulle spalle. Cercando di procedere senza scossoni, si avviò in direzione di Emond’s Field.
Aveva già deciso di prendere la Strada della Cava e di seguirla fino al villaggio. Il pericolo sarebbe stato maggiore, certo; ma se lui si fosse smarrito nei boschi, Tam non avrebbe ricevuto nessun aiuto.
Quasi senza accorgersene incrociò la Strada della Cava. Si girò in fretta e riportò sotto gli alberi la barella; si fermò a prendere fiato e a calmare il battito del cuore. Sempre ansimando, puntò a levante, in direzione di Emond’s Field.
Procedere al buio fra gli alberi era certo più faticoso, ma seguire apertamente la strada sarebbe stata follia. Doveva raggiungere il villaggio senza incontrare i Trolloc. Di sicuro quelle creature avrebbero dato loro la caccia e prima o poi avrebbero capito che si era diretto al villaggio; la Strada della Cava era il percorso più probabile. E a dire il vero Rand la costeggiava più di quanto non gli piacesse. La notte e l’ombra degli alberi erano una protezione ben misera dallo sguardo di chi percorresse la strada.
Il chiaro di luna filtrava fra i rami spogli ma riusciva solo a dargli una falsa impressione del terreno. A ogni passo, c’erano radici che lo facevano inciampare, vecchi arbusti che gli frustavano le gambe, improvvise depressioni o sollevamenti che lo facevano traballare quando posava il piede nel vuoto o urtava una montagnola. I borbottii di Tam diventavano gemiti acuti, ogni volta che una stanga rimbalzava sopra una radice sporgente o un sasso.
L’incertezza spingeva Rand a scrutare nel buio fino a farsi bruciare gli occhi, a tendere penosamente l’orecchio. Ogni sfregamento di ramo contro ramo, ogni fruscio d’aghi di pino, lo spingeva a fermarsi e a trattenere il fiato, col timore di non udire in tempo rumori di pericolo e con la paura di udirli. Solo dopo essersi assicurato che si trattava solo del vento, si fidava a riprendere il cammino.
A poco a poco la stanchezza gli appesantì le braccia e le gambe, accresciuta dal vento notturno che si prendeva gioco del mantello e della giubba. Si era alzato prima dell’alba per iniziare i lavori domestici e, anche contando il viaggio a Emond’s Field, aveva fatto quasi un giorno intero di lavoro. In una notte normale, a quest’ora si sarebbe riposato davanti al camino, leggendo un libro della piccola biblioteca di Tam, prima di andare a letto. Il gelo acuto gli penetrava fin nelle ossa e lo stomaco gli ricordava che non aveva mangiato più niente, dopo i dolcetti al miele di comare al’Vere.
Si rimproverò di essere andato via senza prendere un po’ di viveri: qualche minuto per cercare un paio di pagnotte e un pezzo di formaggio non avrebbe fatto differenza. Di sicuro comare al’Vere gli avrebbe dato un pasto caldo, una volta alla locanda. Un piatto fumante di stufato d’agnello, probabilmente. E un pezzo del pane che aveva in forno quel pomeriggio. E una bella tazza di tè caldo.
«Hanno scavalcato il Muro del Drago come un fiume in piena» disse Tam all’improvviso, con voce forte e rabbiosa. «Hanno inondato di sangue la regione. Quanti sono morti per il peccato di Laman?»
Rand quasi cadde per la sorpresa. Stanco morto, abbassò la barella e si tolse l’imbracatura. La striscia di coperta gli lasciò sulle spalle un solco bruciante. Mosse le braccia per sciogliere i muscoli contratti e si inginocchiò accanto a Tam. Cercò a tentoni la ghirba e intanto scrutò la strada nelle due direzioni, ma la fioca luce non permetteva di vedere a più di venti passi. Niente si muoveva, tranne le ombre.
«Non c’è nessuna invasione di Trolloc, padre. Presto saremo al sicuro a Emond’s Field. Bevi un sorso d’acqua.»
Tam scostò la ghirba, con un gesto deciso, come se avesse riacquistato le forze. Afferrò Rand per il bavero e lo tirò a sé, tanto che il ragazzo sentì il calore della febbre sulla guancia del padre. «Li hanno chiamati selvaggi» disse Tam, in tono pressante. «Gli sciocchi hanno detto che li si poteva spazzare come immondizia. Quante battaglie furono perdute, quante città furono incendiate, prima che si affrontasse la realtà? Prima che le nazioni si alleassero contro di loro?» Lasciò la presa e il suo tono si riempì di tristezza. «A Marath il terreno era coperto di morti, si udiva solo lo stridio dei corvi e il ronzio delle mosche. Le torri scoperchiate di Cairhien bruciavano nella notte come torce. Per tutta la strada fino alle Mura Splendenti, appiccavano fuoco a trucidavano, prima d’essere ricacciati. Per tutta la strada fino...»
Rand premette la mano sulla bocca del padre. Il rumore si ripeté: da una direzione imprecisabile proveniva un tonfo ritmico che si attenuava e aumentava col mutare del vento. Rand girò lentamente la testa per stabilirne la provenienza. Con la coda dell’occhio colse un fuggevole movimento e all’istante si acquattò sopra Tam. Sorpreso, si accorse di stringere in pugno la spada, ma si concentrò sulla Strada della Cava, come se quella fosse l’unica cosa reale del mondo.
A levante, le mobili ombre a poco a poco divennero un cavaliere seguito da sagome alte e massicce che trottavano sulla strada per tenere il passo del cavallo. La fioca luce della luna traeva riflessi dalla punta delle lance e dalla lama delle asce. Nemmeno per un istante Rand pensò che fossero paesani venuti in aiuto. Sapeva chi erano, lo sentiva come sabbia che gli graffiasse le ossa, anche prima che le sagome si avvicinassero quanto bastava perché il chiaro di luna rivelasse il mantello con cappuccio del cavaliere, un mantello che il vento non agitava. Tutte le figure sembravano nere, nella notte, e gli zoccoli del cavallo provocavano lo stesso rumore di qualsiasi animale, ma Rand riconobbe quel destriero.
Dietro il cavaliere nero venivano figure d’incubo con corna e musi e becchi, Trolloc in doppia fila, a passo di marcia, stivali e zoccoli che colpivano il terreno nello stesso istante, come se ubbidissero a una sola volontà. Rand ne contò venti e si domandò quale sorta d’uomo osasse girare le spalle a tanti Trolloc.
La colonna scomparve verso ponente e il tonfo di passi si affievolì; ma Rand rimase dov’era, senza muovere muscolo se non per respirare. Qualcosa gli diceva che, prima di muoversi, doveva essere assolutamente sicuro che se ne fossero andati. Alla fine, inspirò a fondo e cominciò ad alzarsi.
Questa volta il cavallo non produsse alcun rumore. Nel silenzio spettrale, il cavaliere nero tornò, col destriero che si fermava ogni pochi passi nel ripercorrere lentamente la strada. Il vento crebbe di forza, gemendo fra gli alberi; il mantello del cavaliere era sempre immobile come la morte. Ogni volta che il cavallo si fermava, la testa incappucciata del cavaliere si girava da una parte e dall’altra, come se l’uomo scrutasse la foresta. Proprio di fronte a Rand, il cavallo si fermò di nuovo e l’apertura in ombra del cappuccio si girò verso il punto dove il ragazzo stava acquattato sopra il padre.
Rand serrò la mano intorno all’elsa. Sentì la forza dello sguardo, proprio come quel mattino, e rabbrividì di nuovo per l’odio che ne proveniva. L’uomo incappucciato odiava tutti e tutto, qualsiasi essere vivente. Nonostante il vento gelido, sul viso di Rand si formarono goccioline di sudore.
Poi il cavallo proseguì, alcuni passi silenziosi e un arresto, finché Rand non scorse solo una sagoma incerta nella notte. Non la perdette di vista nemmeno per un istante. Non voleva rischiare di accorgersi di nuovo del cavaliere nero solo quando il cavallo silenzioso era addosso a loro.
All’improvviso l’ombra tornò di corsa e passò davanti a Rand, al galoppo, senza rumore. Il cavaliere guardò solo davanti a sé, mentre correva verso ponente, in direzione delle Montagne di Nebbia. E della fattoria.
Rand si accasciò, ansimando, e con la manica si asciugò il sudore dal viso. Non gli interessava più sapere il motivo della venuta dei Trolloc. Andava bene anche se non lo scopriva, purché tutto finisse.
Si scosse e controllò le condizioni del padre. Tam mormorava ancora, ma così piano che Rand non distingueva le parole. Il ragazzo cercò di dargli da bere, ma l’acqua si versò sul mento del padre. Tam tossì, soffocato dalle poche gocce inghiottite, poi riprese a borbottare come se non fosse stato interrotto.
Rand bagnò di nuovo il panno sulla fronte del padre e riprese le stanghe.
Si rimise in cammino come se si fosse appena destato da una buona notte di sonno, ma le nuove energie non durarono a lungo. All’inizio la paura mascherò la stanchezza, ma questa maschera si dissipò in fretta e la paura rimase. Ben presto riprese a barcollare. Cercò di non pensare ai muscoli doloranti e alla fame. Si concentrò per mettere un piede davanti all’altro senza incespicare.
Immaginò Emond’s Field, scuri spalancati e case illuminate perla Notte d’Inverno, gente che vociava auguri e si scambiava visite, violini che suonavano “La follia di Jaem” e “Il volo dell’airone". Haral Luhhan avrebbe bevuto un bicchiere d’acquavite di troppo e si sarebbe messo a cantare “Il vento nel campo d’orzo", con voce simile al gracidio delle rane, finché la moglie non fosse riuscita a farlo stare zitto e Cenn Buie avrebbe deciso di dimostrare che sapeva ancora ballare bene come sempre e Mat avrebbe preparato qualche scherzo che non riusciva mai come voleva e tutti avrebbero saputo che era lui il responsabile anche se nessuno poteva provarlo. Rand quasi sorrise, al pensiero della notte di festa.
Dopo un poco Tam parlò di nuovo.
«Avendesora. Dicono che non faccia seme, ma ne portarono a Cairhien una piantina, un arboscello. Un dono meraviglioso per il Re.» Pareva infuriato, ma parlava a voce molto bassa, appena comprensibile. Chi l’avesse udito, avrebbe udito anche il lieve strusciare della barella sul terreno. Rand continuò a camminare, ascoltando solo in parte. «Non fecero mai pace. Mai. Ma portarono un alberello, in segno di pace. Crebbe per cento anni. Cento anni di pace con chi non faceva pace con i forestieri. Perché lui lo tagliò? Perché? Sangue era il prezzo dell’Avendoraldera. Sangue, il prezzo dell’orgoglio di Laman.» Ricadde di nuovo nel borbottio incomprensibile.
Stancamente Rand si domandò quale sogno provocato dalla febbre tormentasse Tam. Avendesora, l’Albero della Vita: si riteneva che possedesse ogni sorta di qualità miracolose, ma nessuna storia parlava di un arboscello, né di “loro". C’era solo l’Albero e apparteneva all’Uomo Verde.
Forse quella mattina si sarebbe sentito sciocco, a rimuginare sull’Uomo Verde e sull’Albero della Vita. Erano soltanto storie. Ma lo erano davvero? Fino a quella mattina anche i Trolloc erano storie. Forse tutte le storie erano reali come le notizie portate dai mercanti e dai venditori, tutte le storie dei menestrelli narrate di notte davanti al camino. Il suo prossimo incontro poteva benissimo essere con l’Uomo Verde, oppure con un Ogier gigantesco o un selvaggio Aiel dal velo nero.
Tam parlava di nuovo, a volte solo in un mormorio, a volte a voce abbastanza alta da farsi capire. Di tanto in tanto si fermava a riprendere fiato, poi continuava come se non avesse mai smesso di parlare.
«...le battaglie sono sempre ardenti, anche nella neve. Il sudore scalda. Il sangue scalda. Solo la morte è gelida. Il pendio della montagna... l’unico posto che non puzzava di morte. Dovevo allontanarmi da quel fetore... da quella scena di morte... ho udito il pianto d’un bimbo. Le loro donne combattono a fianco degli uomini, a volte; ma perché le avessero permesso di venire, non so... partorì lì, da sola, prima di morire per le ferite... coprì col mantello il neonato, ma il vento... soffiò via il mantello... neonato livido di freddo. Sarebbe morto... piangendo lì nella neve. Non potevo abbandonare un piccino... nessun figlio nostro... ho sempre saputo che volevi dei figli. Sapevo che gli avresti voluto bene, Kari. Sì, ragazza. Rand è un bel nome. Un buon nome.»
All’improvviso Rand si sentì mancare le forze. Barcollò e cadde sulle ginocchia. Tam gemette per il sobbalzo e l’imbracatura premette dolorosamente sulle spalle di Rand, ma lui nemmeno se ne accorse. Se in quel momento un Trolloc gli fosse balzato davanti, l’avrebbe guardato senza reagire. Da sopra la spalla guardò Tam, che era sprofondato di nuovo nel borbottio incomprensibile. Sogni provocati dalla febbre, si disse Rand, cocciuto. La febbre portava sempre brutti sogni e quella era una notte d’incubo anche per chi non fosse febbricitante.
«Sei mio padre» disse ad alta voce, allungando la mano dietro di sé per toccare Tam. «E io sono tuo...» La febbre era più alta, molto più alta.
Risolutamente si tirò in piedi. Tam mormorò qualcosa, ma Rand si rifiutò d’ascoltare oltre. Premette contro la bardatura improvvisata e cercò di pensare solo al passo seguente, a raggiungere la sicurezza di Emond’s Field. Ma non riusciva a eliminare l’eco che gli risuonava in fondo alla mente. “È mio padre” si disse. “Straparla per colpa della febbre. È mio padre. Straparla. Luce santa, chi sono io?"