Il villaggio era più grande di tanti altri, ma pur sempre un paese sciatto, per chiamarsi Four Kings, Quattro Re. Come al solito, la Strada per Caemlyn passava per il centro del paese, ma lì arrivava anche, da meridione, un’altra strada maestra assai frequentata. In genere, per i contadini della zona i villaggi erano punto di mercato e di ritrovo, ma Four Kings sopravviveva come luogo di sosta per le carovane di mercanti dirette a Caemlyn, ai villaggi di minatori nelle Montagne di Nebbia al di là di Baerlon e ai paesini intermedi. La strada meridionale serviva al commercio fra Lugard e le miniere; i mercanti lugardiani diretti a Caemlyn seguivano un’altra strada, più diretta. La campagna circostante comprendeva poche fattorie, appena sufficienti al fabbisogno del paese; la vita di Four Kings si basava sui mercanti e sui loro carri, sugli uomini che li guidavano e sugli operai che caricavano le mercanzie.
Carri posti ruota a ruota e custoditi da poche guardie annoiate occupavano appezzamenti di terreno spoglio e polveroso disseminati per Four Kings. Stalle e recinti per cavalli fiancheggiavano le vie, tutte abbastanza ampie da consentire il passaggio dei carri e profondamente segnate da solchi di ruote. Non c’era un prato centrale e i bambini giocavano in strada, scansando i carri e le imprecazioni dei conducenti. Le donne del villaggio, con la testa coperta dalla sciarpa, tenevano gli occhi bassi e camminavano in fretta, a volte seguite dai commenti dei carrettieri, che facevano arrossire Rand e in certi casi perfino Mat. Nessuna donna spettegolava con le vicine da sopra la recinzione. Tetre case di legno stavano fianco a fianco, separate solo da stretti vicoli; l’intonaco, se qualcuno si era preso la briga d’intonacare le assi annerite dalle intemperie, era sbiadito come se non lo rinnovassero da anni. I robusti scuri alle finestre non venivano aperti da tanto di quel tempo che i cardini erano diventati solidi grumi di ruggine. Rumori aleggiavano dappertutto: martellate di fabbri, grida di carrettieri, risa rauche provenienti dalle locande.
All’altezza di una locanda dipinta a colori vistosi, verde e giallo che colpivano l’occhio da lontano, fra le case plumbee, Rand si lasciò cadere giù dal carro coperto di un mercante. La fila di carri continuò per la sua strada. Nessun conducente parve notare che Rand e Mat erano scesi; calava la sera e tutti pensavano solo a staccare i cavalli e raggiungere le locande. Rand incespicò in un solco e balzò rapidamente di lato per evitare un carro carico che proveniva nell’altro senso. Il carrettiere gli gridò un’imprecazione. Una paesana gli girò intorno e si allontanò frettolosamente, senza guardarlo in viso.
«Questo posto non m’ispira fiducia» disse Rand. Gli parve di udire musica, mescolata al frastuono, ma non sapeva da quale direzione proveniva. Forse dalla locanda. «Non mi piace. Avrei una mezza idea di proseguire.»
Mat gli diede un’occhiata sprezzante e alzò gli occhi al cielo. In alto si addensavano nubi nere. «Per dormire sotto una siepe, stanotte? Con la pioggia in arrivo? Mi sono di nuovo abituato ai letti.» Piegò la testa per ascoltare, poi brontolò: «Forse una delle locande non ha musicanti. E sono sicuro che nessuna ha un giocoliere.» Si appese in spalla l’arco e si diresse verso la porta d’un giallo brillante, esaminando con diffidenza ogni cosa. Dubbioso, Rand gli andò dietro.
Nella locanda c’erano musicanti e la musica di cetra e tamburello era quasi soffocata dalle risate rauche e dalle grida d’avvinazzati. Rand non si prese la briga di cercare il proprietario. Anche nelle altre due locande c’erano musicanti e la stessa cacofonia assordante. Uomini dagli abiti grossolani occupavano i tavoli e incespicavano nello spazio libero, agitavano boccali e allungavano le mani verso le cameriere che li evitavano con aria di sopportazione. L’edificio era scosso dal frastuono, puzzava di vino vecchio e di corpi non lavati. Di mercanti, con i loro vestiti di seta e di velluto guarniti di pizzo, non c’era traccia: stanze da pranzo riservate, al piano superiore, proteggevano il loro naso e le loro orecchie. Rand e Mat si limitarono a sbirciare l’interno e se ne andarono. Rand cominciava a pensare che non restasse altro che continuare il cammino.
Nella quarta locanda, il Carrettiere Danzante, c’era silenzio.
Il locale era vistoso come gli altri, dipinto di giallo bordato di rosso e d’un verde marcio che faceva male agli occhi, anche se la vernice era screpolata e si sfaldava. Rand e Mat entrarono.
Solo sei avventori sedevano ai tavoli della stanza comune, ingobbiti sul proprio boccale, persi nei propri pensieri. Lì gli affari non prosperavano, ma c’erano segni d’un passato migliore. Tante cameriere quanti erano i clienti si affaccendavano nella stanza. Da fare ce n’era... la polvere incrostava il pavimento, ragnatele pendevano dagli angoli del soffitto... ma le cameriere si limitavano ad andare avanti e indietro solo per non starsene impalate.
Un uomo ossuto, con capelli arruffati e lunghi fino alla spalla, si girò a guardarli di storto, appena entrarono. Il primo tuono brontolò sopra Four Kings. «Cosa volete?» disse l’uomo. Si puliva le mani nel grembiule bisunto che gli scendeva fino alle caviglie. Rand si domandò se in quel modo non le sporcava maggiormente. Era il primo locandiere magro che vedeva. «Allora?» proseguì l’uomo. «Parlate, comprate da bere o uscite! Vi sembro una bestia rara?»
Rand divenne rosso e si lanciò nel discorsetto perfezionato nelle locande precedenti. «Suono il flauto e il mio amico è un giocoliere. Non ne vedrai di migliori in un anno. Per una buona stanza e un buon pasto ti riempiremo il locale.» Ricordò le locande piene già viste quella sera e soprattutto l’uomo che gli aveva vomitato quasi sui piedi, nell’ultima: aveva dovuto fare un salto, per non sporcarsi gli stivali. Esitò, ma si riprese subito e continuò: «Ti riempiremo il locale di gente che ti ripagherà venti volte della spesa...»
«Ho uno che suona il dulcimero» disse acidamente il locandiere.
«Hai un ubriaco, Saml Hake» intervenne una cameriera. In quel momento passava davanti a lui, reggendo un vassoio con due boccali; si soffermò a rivolgere a Rand e a Mat un sorriso sfacciato. «Il più delle volte non riesce nemmeno a trovare la sala comune» confidò in un bisbiglio ad alta voce. «Non lo vedo da due giorni.»
Senza distogliere lo sguardo da Rand e da Mat, Hake le rifilò con indifferenza un manrovescio. Lei mandò un grugnito di sorpresa e cadde pesantemente sul pavimento sporco; un boccale si ruppe e il vino si riversò in rivoletti sulla polvere. «Mi tratterrò il costo del vino e del boccale rotto» disse Hake. «Vai a prendere due boccali nuovi. Di corsa. La gente non paga per aspettare i tuoi comodi.» Il tono era sbrigativo come lo schiaffo. Nessuno dei clienti alzò lo sguardo dal proprio vino e le altre cameriere tennero gli occhi bassi.
La donna si fregò la guancia e lanciò a Hake un’occhiata omicida, ma mise sul vassoio il boccale vuoto e i pezzi dell’altro e si allontanò senza una parola.
Hake si succhiò i denti, pensieroso, guardando Rand e Mat. Si soffermò sull’elsa con l’airone. «Vi faccio una proposta» disse infine. «Vi darò un paio di pagliericci nel magazzino vuoto sul retro. Le stanze costano troppo, per regalarle. Mangerete quando tutti se ne saranno andati. Qualcosa rimarrà di sicuro.»
Rand rimpianse che a Four Kings non ci fosse ancora un’altra locanda. Da quando avevano lasciato Whitebridge, avevano incontrato freddezza, indifferenza e aperta ostilità, ma niente che gli avesse dato un senso di disagio come quell’uomo e quel villaggio. Ne attribuì la colpa alla sporcizia, allo squallore e al frastuono, ma questo non eliminò l’apprensione. Mat guardava Hake come se sospettasse una trappola, ma non mostrò di voler rinunciare al Carrettiere Danzante per dormire sotto una siepe. Il tuono scosse le finestre. Rand sospirò.
«I pagliericci andranno bene, se sono puliti e se ci sono coperte sufficienti. Però mangeremo due ore dopo il buio, non più tardi, e ci darai il meglio che hai. Ti mostreremo cosa sappiamo fare.» Allungò la mano verso l’astuccio del flauto, ma Hake scosse la testa.
«Non importa. Questi qui si accontenteranno di qualsiasi stridio che assomigli vagamente alla musica.» Con lo sguardo sfiorò di nuovo la spada di Rand; sorrise, solo con le labbra. «Mangiate quando volete, ma se non mi portate clienti, vi sbatto fuori.» Girò la testa per indicare i due dal viso duro seduti contro la parete. Non bevevano e avevano braccia grosse come cosce. Guardarono con indifferenza Rand e Mat.
Rand posò la mano sull’elsa, augurandosi di non mostrare in viso la torsione che provò allo stomaco. «Purché riceviamo quanto convenuto» replicò in tono piatto.
Per un istante Hake stesso parve a disagio. All’improvviso annuì. «L’ho detto, no? Bene, cominciate. Non farete venire nessuno, restando lì impalati.» Si allontanò a passo deciso, con occhiatacce e grida alle cameriere, come se trascurassero cinquanta clienti.
In fondo alla stanza c’era una piccola piattaforma rialzata, accanto alla porta posteriore. Rand vi portò una panca e dietro lo schienale depose il suo mantello, il rotolo di coperte e il fagotto di Thom, con la spada in cima al mucchio.
Si domandò se faceva bene a portarla apertamente. Le spade erano comuni, ma il marchio dell’airone attirava curiosità e congetture. Non da chiunque, certo; ma il fatto che la notassero lo metteva a disagio. Forse lasciava una pista chiara per il Myrddraal... ammesso che i Fade avessero bisogno di piste. Comunque, era riluttante a non portare la spada al fianco. Gliel’aveva data Tam. Suo padre. Finché la portava, c’era sempre una sorta di legame, fra Tam e lui, un filo che gli dava il diritto di chiamare ancora Tam suo padre. “Troppo tardi, ormai” si disse; e non era sicuro dell’esatto significato di quel pensiero.
Alle prime note del “Gallo del settentrione", i clienti alzarono la testa dal vino. Anche i due buttafuori si sporsero un poco per ascoltare meglio. Al termine, applaudirono tutti, compresi i due duri, e applaudirono di nuovo quando Mat fece girare in aria una manciata di palle multicolori. All’esterno, il cielo brontolò di nuovo. La pioggia resisteva, ma era questione di tempo: più tardava, più sarebbe stata forte.
La voce si diffuse; prima di buio, la locanda era piena di gente che rideva e parlava a voce così alta che Rand riusciva a malapena a sentire la propria musica. Solo il tuono vinceva il fracasso della stanza comune. I lampi illuminavano le finestre e nei momenti di calma si sentiva la pioggia tamburellare sul tetto. Chi entrava solo allora lasciava una scia di gocce sulla polvere del pavimento.
Appena Rand si fermava, gli avventori gridavano titoli di musiche. Rand non ne conosceva quasi nessuno, ma se gliene canticchiavano un brano, spesso lo riconosceva. La stessa cosa era già accaduta in altre locande. “L’allegro Jaim", che lì era “La pazza gioia di Rhea", era stato “Colori del sole” in una locanda precedente. Alcuni titoli erano sempre uguali, altri cambiavano nel giro di dieci miglia, e Rand aveva anche imparato canzoni nuove. “L’ambulante ubriaco” era una di queste, anche se a volte la chiamavano “Calderaio in cucina". “Due re vanno a caccia” era “Due cavalli al galoppo” e aveva anche altri titoli. Rand suonò le canzoni che conosceva e la gente batteva il pugno sul tavolo per chiederne ancora.
Altri chiedevano che Mat desse spettacolo. A volte scoppiavano zuffe fra chi voleva musica e chi preferiva giochi di prestigio. In un caso lampeggiò un coltello: una donna strillò e un uomo si ritrasse barcollando da un tavolo, con il viso macchiato di sangue; ma Jak e Strom, i due duri, intervennero subito e, con imparzialità assoluta, buttarono fuori, con un bozzo sulla testa, chiunque si fosse trovato coinvolto. Era la loro tattica per qualsiasi tipo di guaio. Nessuno si guardava intorno, a parte quelli spinti alla porta.
I clienti erano anche lunghi di mano, quando una cameriera non stava attenta. Più d’una volta Jak o Strom furono obbligati a salvare una ragazza, ma non ci mettevano troppa fretta. Da come Hake la sgridava e la insultava, la colpa era sempre della ragazza, che, a giudicare dalle scuse e dalle lacrime, pareva disposta ad accettare la sua opinione. Le cameriere trasalivano ogni volta che Hake marcava il sopracciglio, anche se guardava un altro. Rand si domandò come mai lo sopportassero.
Hake sorrideva, se guardava Rand e Mat. Dopo un poco Rand capì che il sorriso non era diretto a loro: il locandiere sorrideva quando con gli occhi scivolava al di là dei due e si posava sulla spada con il marchio dell’airone. Una volta, appena Rand posò il flauto accanto allo sgabello, anche lo strumento si beccò un sorriso.
Allora, mentre sul davanti della pedana si scambiava di posto con Mat, Rand si chinò a mormorargli all’orecchio. Anche così fu costretto a parlare a voce alta, ma con tutto il frastuono non credeva che altri lo udissero. «Hake cercherà di derubarci» gli disse.
Mat annuì, come se anche lui l’avesse sospettato. «Dovremo sbarrare la porta, stanotte.»
«Sbarrare la porta? Jak e Strom la butteranno giù con un pugno. Andiamocene via.»
«Aspettiamo almeno d’avere mangiato. Muoio di fame. Qui non possono farci niente.» Nella stanza si alzarono grida di protesta per l’interruzione. Hake li guardava di storto. «E poi, vuoi dormire all’aperto, stanotte?» Uno scoppio di fulmine particolarmente forte soffocò ogni altro rumore e per un istante la luce che entrò dalle finestre superò quella delle lampade.
«Voglio solo uscire con la testa ancora intera» disse Rand; ma Mat si era già lasciato cadere sullo sgabello per il suo turno di riposo. Con un sospiro Rand si lanciò nella “Strada per Dun Aren". Pareva che piacesse a molti: l’aveva già suonata quattro volte e continuavano a chiederla.
Il guaio era che Mat aveva ragione: anche lui moriva di fame. E non vedeva che cosa Hake potesse fare, mentre la stanza comune era piena e continuava ad arrivare gente. Per ogni persona che usciva, o veniva sbattuta fuori da Jak e Strom, ne entravano due. Gridavano per vedere lo spettacolo o chiedevano una particolare canzone, ma in genere erano interessati a bere e ad allungare le mani sulle cameriere. C’era un uomo, però, assai diverso dagli altri.
Dava subito all’occhio, tra gli avventori del Carrettiere Danzante. I mercanti, a quanto pareva, non frequentavano quella locanda di bassa categoria, dove non c’erano stanze da pranzo private. Gli avventori erano gente vestita alla buona, con la pelle scura di chi lavora al sole e al vento. Quell’uomo, lustro e bene in carne, con mani curate e giubba di velluto, portava sulle spalle un mantello di velluto verde scuro foderato di seta azzurra. I vestiti erano di taglio costoso e le calzature — morbide pantofole di velluto, non stivali — erano poco adatte alle vie piene di solchi di Four Kings e alle vie in genere, a dire il vero.
L’uomo entrò nella locanda a sera inoltrata, scuotendosi dal mantello la pioggia e guardandosi intorno con una smorfia di disgusto. Passò in esame la stanza una volta sola e parve sul punto di girarsi e uscire; poi all’improvviso trasalì alla vista di chissà cosa e si sedette al tavolo che Jak e Strom avevano appena reso libero. Una cameriera si fermò al tavolo, poi portò all’uomo un boccale di vino che lui spinse di lato e non toccò più. Tutt’e due le volte parve che la ragazza avesse fretta d’allontanarsi, anche se lui non allungò la mano e neppure la guardò.
Anche altri, avvicinatisi all’uomo, mostrarono la stessa sensazione di disagio della ragazza. Lo sconosciuto sedeva al tavolo come se nella sala non ci fosse nessuno tranne lui stesso... e Rand e Mat. Fissava i due ragazzi, da sopra le mani unite a punta, con un anello scintillante a ogni dito. Li osservava con un sorriso di soddisfazione per averli riconosciuti.
Rand lo indicò a Mat, quando cambiarono di nuovo posto, e Mat annuì. «L’ho visto» disse. «Chi sarà? Ho l’impressione di conoscerlo.»
Rand aveva avuto la stessa impressione, simile a un formicolio in fondo alla memoria. Eppure era certo di non avere mai visto quel viso.
Dopo due ore di spettacolo, ripose nell’astuccio il flauto e insieme con Mat raccolse le sue cose. Mentre scendevano dalla pedana, Hake accorse con una smorfia d’ira.
«È ora di mangiare» disse Rand, prevenendolo «e non vogliamo che qualcuno ci rubi le nostre cose. Ti dispiace avvertire la cuoca?» Hake esitò, ancora infuriato, e cercò di non fissare troppo la spada. Con noncuranza Rand spostò il fagotto in modo da posare la mano sull’elsa. «Altrimenti cerca pure di buttarci fuori» disse, con enfasi voluta. «C’è ancora buona parte della notte per tenere spettacolo.» Dobbiamo mantenerci in forze, se vogliamo esibirci in modo che la gente spenda ancora. Per quanto tempo credi che la sala resterà piena, se cadiamo morti di fame?
Hake guardò la sala stipata di gente che gli riempiva di denaro le tasche; si girò e sporse la testa nel retro della locanda. «Date loro da mangiare!» gridò. Si rivolse a Rand e Mat. «E non metteteci tutta la notte. Terrete spettacolo finché l’ultimo avventore non se ne sarà andato.»
Alcuni reclamarono a gran voce il musicante e il giocoliere; Hake si girò a calmarli. Anche l’uomo vestito di velluto si mostrava inquieto. Rand indicò a Mat di seguirlo.
Una robusta porta separava la cucina dalla parte anteriore della locanda; se non si apriva per lasciare entrare una cameriera, nella cucina il rumore della pioggia sul tetto era più forte del frastuono della stanza comune. La cucina era un locale ampio, caldo e pieno di vapore prodotto dai fornelli e dai forni, con un grande tavolo coperto di cibi in preparazione e di piatti pronti a essere serviti. Alcune cameriere sedevano su di una panca accanto alla porta posteriore; si massaggiavano i piedi e parlavano tutte insieme con la grassa cuoca, che rispondeva e agitava un grosso mestolo per sottolineare le parole. Tutte quante alzarono gli occhi, quando Rand e Mat entrarono, ma non rallentarono la conversazione né smisero di massaggiarsi i piedi.
«Andiamocene, finché ne abbiamo l’occasione» disse Rand a bassa voce. Mat scosse la testa, fissando due piatti che la cuoca riempiva di manzo con patate e piselli. La cuoca nemmeno li guardò, continuando a parlare con le altre, mentre con il gomito liberava una parte del tavolo, vi posava i piatti e aggiungeva le forchette.
«Dopo mangiato avremo tempo» disse Mat. Scivolò sopra una panca e cominciò a usare la forchetta a mo’ di pala.
Rand mandò un sospiro, ma imitò l’amico. Dalla notte precedente aveva mangiato solo un tozzo di pane e si sentiva vuoto come la scarsella d’un mendicante; e i profumi di cibo che riempivano la cucina non lo aiutavano certo. Cominciò a mangiare a quattro palmenti, ma era solo a metà, quando Mat si fece riempire ancora il piatto.
Senza volerlo ascoltava le chiacchiere delle donne; alcune frasi attirarono il suo interesse.
«Mi sembra una pazzia.»
«Pazzia o no, è quel che ho udito. Ha girato metà delle locande del paese, prima di entrare qui. È entrato, si è guardato intorno ed è uscito, senza dire una parola. Perfino alla Reale. Come se non piovesse affatto.»
«Forse ha pensato che qui stava più comodo.» Quest’ultima frase provocò uno scroscio di risate.
«Ho sentito dire che è arrivato a Four Kings solo a notte inoltrata e i suoi cavalli soffiavano come se li avesse spinti al massimo.»
«Da dove sarà venuto, per farsi sorprendere dalla notte fuori del villaggio? Solo sciocchi o pazzi fanno viaggi così mal programmati.»
«Sarà anche sciocco, ma è uno sciocco ricco. Dicono che ha perfino una seconda carrozza per i servi e i bagagli. Puzza di denaro, datemi retta. Avete visto il mantello? Piacerebbe anche a me averne uno uguale.»
«È un po’ ciccione, per i miei gusti, ma un uomo non è mai troppo grasso, se ha oro a sufficienza.» Si piegarono in due per il gran ridere e la cuoca gettò indietro la testa e rise anche più forte.
Rand lasciò cadere la forchetta. Gli venne un pensiero spiacevole. «Torno subito» disse. Mat annuì, a bocca piena.
Rand prese il mantello e si diresse alla porta, agganciandosi il cinturone con la spada. Nessuno gli badò.
Ora la pioggia cadeva a dirotto. Rand si mise il mantello, si calò sugli occhi il cappuccio e attraversò il cortile della stalla. Una cortina di pioggia nascondeva ogni cosa, tranne quando balenavano i lampi, ma lui trovò quel che cercava: i cavalli erano stati portati dentro la stalla, ma nel cortile le due carrozze dipinte di nero luccicavano per la pioggia. Il tuono brontolò e un fulmine striò il cielo sopra la locanda. Nel breve scoppio di luce, Rand distinse il nome scritto a lettere d’oro sulla portiera delle carrozze: Howal Gode.
Senza badare alla pioggia battente, rimase a fissare il nome ormai invisibile. Di recente aveva visto carrozze dipinte di nero con il nome del proprietario sulla portiera e uomini ben pasciuti e ben vestiti, in mantello foderato di seta e pantofole di velluto. A Whitebridge. In teoria un mercante di Whitebridge aveva motivi più che legittimi per andare a Caemlyn. Ma l’avrebbero indotto a esaminare metà delle locande del paese, prima di scegliere quella dove si trovavano Rand e Mat? E a guardarli come se avesse trovato quel che cercava?
Rand rabbrividì e all’improvviso si accorse che la pioggia gli colava lungo la schiena: il mantello, per quanto di tessuto pesante, non era fatto per sopportare un diluvio di quel genere. Tornò in fretta alla locanda, diguazzando nelle pozzanghere sempre più grosse. Trovò la porta bloccata da Jak.
«Bene bene bene. Fuori da solo nel buio. Il buio è pericoloso, ragazzo.»
Nel cortile c’erano soltanto loro due. Rand, con i capelli incollati sulla fronte, si domandò se Hake aveva deciso di impossessarsi a tutti i costi della spada e del flauto, rinunciando anche ad avere la sala piena.
Con la mano si asciugò gli occhi e con l’altra strinse l’elsa. Anche bagnato, il cuoio di prima qualità consentiva una buona presa. «Hake crede che tutta quella gente si ferma solo per la sua birra e non perché c’è anche da divertirsi?» attaccò. «In questo caso, ci riterremo soddisfatti della cena e andremo via.»
All’asciutto nel vano della porta, l’uomo guardò la pioggia e sbuffò. «Con questo tempo?» Lasciò scivolare lo sguardo sulla mano di Rand. «Sai, io e Strom abbiamo fatto una scommessa. Lui dice che quella spada l’hai rubata a tua nonna. Io dico che tua nonna ti avrebbe sbattuto a calci nel recinto dei maiali e ti avrebbe appeso ad asciugare.» Sghignazzò. Aveva denti gialli e guasti; quando sorrideva, sembrava ancora più cattivo. «La notte è ancora lunga, ragazzo.»
Rand gli passò davanti e Jak lo lasciò entrare, ridacchiando.
Dentro la cucina, Rand gettò mantello e spada sulla panca da cui si era alzato solo qualche minuto prima. Mat aveva terminato il secondo piatto e aveva attaccato il terzo; ora mangiava più lentamente, ma con impegno, come se intendesse arrivare all’ultima briciola a costo di scoppiare. Jak si sistemò accanto alla porta del cortile e, appoggiato al muro, rimase a guardarli. Sembrava che persino la cuoca avesse perso la voglia di parlare, con lui lì dentro.
«Viene da Whitebridge» disse Rand sottovoce. Non c’era bisogno di precisare a chi si riferiva. Mat girò la testa e si bloccò nell’atto di portarsi alla bocca una forchettata di carne. Imbarazzato per la sorveglianza di Jak, Rand giocherellò col cibo: non riusciva più a mandar giù un boccone, ma finse d’interessarsi ai piselli, mentre parlava a Mat delle carrozze e ripeteva i discorsi delle cameriere, nel caso che l’amico non avesse ascoltato.
Manco a dirlo, Mat non li aveva ascoltati. Rimase sorpreso e fischiò piano; guardò di storto il pezzo di carne sulla forchetta e con un brontolio lasciò cadere nel piatto la posata. Rand avrebbe preferito che facesse almeno uno sforzo per non dare nell’occhio.
«Cerca noi» disse Mat, quando Rand terminò il racconto. Corrugò la fronte. «Un Amico delle Tenebre?»
«Forse. Non lo so.» Rand lanciò un’occhiata a Jak e il buttafuori si stiracchiò facendo scena e scrollò le spalle robuste come quelle d’un fabbro ferraio. «Riusciremo a passargli sotto il naso?»
«Farà tanto di quel fracasso da richiamare il suo amico e Hake. Lo sapevo che non dovevamo fermarci qui.»
Rand rimase di stucco, ma non ebbe il tempo di replicare, perché sulla soglia della sala comune comparve Hake. Dietro di lui c’era la sagoma robusta di Strom. Jak si mise davanti alla porta del cortile.
«Avete intenzione di mangiare per tutta la notte?» latrò Hake.
«Non vi mantengo per stare lì seduti a fare niente.»
Rand guardò Mat. Dopo, gli fece segno Mat. Sotto lo sguardo attento di Hake, Strom e Jak, presero la loro roba.
Appena comparvero nella sala comune, le grida che chiedevano giochi di prestigio e canzoni superarono il frastuono. L’uomo vestito di velluto, Howal Gode, pareva sempre non badare a quelli che lo attorniavano, ma si mostrava nervoso. Appena li vide, si rilassò contro la spalliera e ritrovò il sorriso.
Rand fece il primo turno sulla pedana e suonò distrattamente “Tira acqua dal pozzo". Nessuno parve notare qualche stonatura. Rand cercò di trovare il sistema per uscire di lì e anche di non guardare Gode. Se cercava loro, non aveva senso fargli capire che se n’erano accorti. In quanto a uscire dalla locanda...
Solo ora capiva quale ottima trappola fosse una locanda. Hake, Jak e Strom non dovevano nemmeno tenerli d’occhio di continuo: la folla stessa li avrebbe avvertiti, se lasciavano la pedana. Finché la sala comune era piena di gente, Hake non poteva far intervenire Jak e Strom, ma anche Mat e Rand non potevano andarsene senza che Hake lo sapesse. Banche Gode osservava ogni loro mossa. La situazione era così buffa che Rand si sarebbe messo a ridere, se non si fosse sentito sul punto di vomitare. Poteva solo tenere gli occhi aperti e aspettare l’occasione favorevole.
Quando Mat gli diede il cambio, Rand mandò un gemito. Mat guardava con odio Hake, Strom e Jak, senza preoccuparsi se quelli se ne accorgevano e si domandavano il motivo. Quando non faceva giochi di prestigio, teneva la mano sotto la giubba. Rand gli sibilò un avvertimento, ma lui non vi badò. Se Hake avesse visto il rubino, forse non avrebbe aspettato che gli avventori se ne andassero. E se l’avessero visto i clienti, metà di loro si sarebbe unita a Hake.
Peggio ancora, Mat fissava il mercante di Whitebridge — l’Amico delle Tenebre? — con sguardo più duro di ogni altro e Gode se n’era accorto. Non poteva farne a meno. Ma rimase imperturbato. Anzi, accentuò il sorriso e rivolse a Mat un cenno, come se si trattasse di una sua vecchia conoscenza, poi guardò Rand e inarcò il sopracciglio con aria interrogativa. Rand non voleva sapere quale fosse la domanda. Cercò di non guardare dalla parte di Gode, ma capì che ormai era troppo tardi.
Una sola cosa parve scuotere l’equilibrio dell’uomo vestito di velluto: la spada di Rand. Il ragazzo non se l’era tolta. Un paio di persone si alzò a domandargli se suonava tanto male da avere bisogno di difendersi, ma nessuno di loro aveva notato l’airone sull’elsa. Gode lo notò. Serrò le mani, corrugò la fronte e fissò a lungo la spada, prima di riprendere il sorriso. Ma senza la sicurezza di prima.
"Ecco un lato positivo, almeno” pensò Rand. “Se mi crede degno del marchio dell’airone, forse ci lascerà in pace. Così dovremo preoccuparci solo di Hake e dei suoi scagnozzi." Era un pensiero ben poco confortante. Comunque, spada o non spada, Gode continuò a tenerli d’occhio. E a sorridere.
A Rand la notte parve durare un anno: Hake, Jak e Strom lo fissavano, simili ad avvoltoi che guatassero una pecora impantanata; e Gode aspettava, simile a una creatura anche peggiore. Rand cominciò a pensare che tutti, nella sala, avessero un motivo segreto per fissarlo. I fumi di vino agro e il puzzo di corpi sporchi e sudati gli facevano girare la testa; il frastuono di voci lo colpiva fino a offuscargli gli occhi; perfino il suono del flauto gli feriva le orecchie. Il rombo dei tuoni pareva risuonargli dentro la testa. La stanchezza lo opprimeva come un peso di ferro.
A poco a poco la necessità di alzarsi all’alba spinse la gente a lasciare con riluttanza la locanda. I contadini non dovevano rendere conto a nessuno, ma i conducenti erano pagati dai mercanti e notoriamente costoro non vedevano di buon occhio i postumi di sbronze. Passata la mezzanotte, la sala comune si vuotò e anche chi alloggiava al piano superiore andò a letto.
Gode rimase l’ultimo avventore. Quando Rand, sbadigliando, allungò la mano verso l’astuccio del flauto, Gode si alzò, mantello sul braccio. Le cameriere facevano pulizia e brontolavano per il vino versato e per le stoviglie rotte. Hake serrava con una grossa chiave la porta anteriore. Gode prese da parte Hake e il locandiere chiamò una cameriera per mostrare al cliente la stanza. Prima di scomparire al piano superiore, Gode rivolse a Rand e a Mat un sorriso saputo.
Hake guardava Rand e Mat. Jak e Strom erano al suo fianco.
Rand terminò in fretta di mettersi in spalla le sue cose, reggendole goffamente dietro la schiena, con la sinistra, in modo da avere la destra libera per la spada. Non fece il gesto d’impugnarla, ma voleva far sapere d’essere pronto a farlo. E soffocò uno sbadiglio per non far capire quanto fosse stanco.
Mat si mise in spalla l’arco e le altre cose, ma infilò la mano sotto la giubba. Hake e i due scagnozzi si avvicinarono.
Hake reggeva un lume a olio; con sorpresa di Rand, accennò un mezzo inchino e indicò una porta laterale. «I vostri giacigli sono da questa parte» disse. Solo una lieve contrazione delle labbra gli rovinò la recita.
Mat sporse il mento verso Jack e Strom. «Hai bisogno di quei due, per mostrarci il letto?»
«Quando si possiedono quattro soldi, la prudenza non è mai troppa» rispose Hake, lisciandosi il sudicio grembiule. Un rombo di tuono scosse le finestre. Hake lanciò un’occhiata significativa al soffitto, poi mostrò un sorriso tutto denti. «Volete vedere il vostro letto o no?»
Rand si domandò che cosa sarebbe accaduto se avesse detto che volevano andarsene. Rimpianse di non essere esperto nell’uso della spada. «Fai pure strada» disse, cercando di mostrare un tono duro. «Non mi piace avere gente alle spalle.»
Strom sghignazzò, ma Hake annuì placidamente e si diresse alla porta laterale, seguito dai due scagnozzi. Con un sospiro Rand lanciò un’occhiata alla cucina. Se Hake aveva già serrato la porta posteriore, tentare ora la fuga avrebbe soltanto iniziato lo scontro che lui si augurava d’evitare. Con aria tetra seguì il locandiere.
Sulla soglia della porta laterale esitò: adesso era evidente per quale motivo Hake portava il lume. La porta dava in un corridoio nero come la pece. Ma il lume metteva in risalto le sagome di Jak e di Strom e diede a Rand il coraggio di proseguire. Se si giravano, li avrebbe visti. Ma come avrebbe reagito?
Il corridoio terminava davanti a una porta di legno grezzo. Rand non aveva visto se ce n’erano altre, lungo il corridoio. Hake e i due scagnozzi la varcarono; Rand si affrettò a seguirli, prima che avessero l’opportunità di tendergli una trappola, ma Hake si limitò a sollevare il lume e a indicare la stanza.
«Ecco qui» disse.
Un vecchio magazzino, l’aveva definito; e a giudicare dall’aspetto, non era usato da un pezzo. Vecchi barili e casse rotte occupavano metà pavimento. Da più d’un punto il soffitto gocciolava e dalla finestra un vetro rotto lasciava entrare liberamente la pioggia spinta dal vento. Un assortimento d’oggetti non identificabili riempiva gli scaffali; uno strato di polvere copriva quasi ogni cosa. La presenza dei pagliericci promessi fu una sorpresa.
"La spada lo rende nervoso” pensò Rand. “Non tenterà niente, finché non dormiremo sodo." Ma non intendeva dormire sotto il tetto di Hake. Uscito il locandiere, sarebbero scappati dalla finestra. «Può andare» disse. Tenne gli occhi su Hake, per accorgersi subito di un eventuale segno ai due scagnozzi. Con uno sforzo riuscì a non tradire il nervosismo. «Lascia qui il lume.»
Hake brontolò, ma posò il lume sopra uno scaffale. Esitò, li guardò. Rand fu sicuro che stesse per dare l’ordine di assalirli. Invece, dopo un’occhiata calcolatrice alla spada, il locandiere rivolse un cenno a Jak e Strom. I due scagnozzi parvero sorpresi, ma lo seguirono fuori della stanza, senza guardarsi indietro.
Rand aspettò che il rumore di passi svanisse; contò fino a cinquanta e sporse la testa nel corridoio. Il buio era interrotto solo da un rettangolo di luce che pareva lontano quanto la luna: la porta della sala comune. Mentre ritraeva la testa, notò un movimento in fondo: Jak o Strom erano rimasti di guardia.
Un rapido esame rivelò che la porta era fatta di assi robuste, ma non aveva chiavistello né sbarra. Però si apriva verso l’interno.
«Credevo che ci avrebbero assaliti» disse Mat. «Cosa aspettano?» Aveva estratto il pugnale e lo stringeva con forza. La lama brillò. Arco e faretra giacevano dimenticati per terra.
«Che dormiamo» rispose Rand. Si mise a frugare tra i barili e le casse. «Cerchiamo qualcosa per bloccare la porta.»
«E perché? Non vorrai dormire qui, no? Usciamo dalla finestra e filiamocela. Meglio bagnati che morti.»
«Uno di loro è in fondo al corridoio. Se facciamo rumore, li avremo addosso in un batter d’occhio. Hake preferirà affrontarci da svegli che lasciarci andare.»
Brontolando, Mat si mise a cercare, ma non c’era niente di utile, nel ciarpame che ingombrava il pavimento. Solo barili vuoti e casse squinternate. Anche ammucchiandoli davanti alla porta, chiunque avrebbe aperto senza difficoltà. Poi Rand notò, su di uno scaffale, due cunei per spaccare legna, coperti di ruggine e di polvere. Li prese, con un sogghigno.
Li infilò in fretta sotto l’uscio e, al primo tuono, li conficcò con due rapidi colpi di tallone. Il tuono si affievolì e Rand trattenne il respiro, con l’orecchio teso. Udì solo la pioggia sul tetto. Niente cigolio di assi sotto piedi in corsa.
«La finestra» disse.
Nessuno l’apriva da anni, a giudicare dalle incrostazioni di sporco. Si misero a tirate insieme, con tutte le forze. Rand si sentì cedere le ginocchia, prima che il telaio scorresse, protestando con riluttanza. Quando l’apertura fu abbastanza ampia da lasciarli passare, Rand si chinò per uscire e subito si bloccò.
«Sangue e ceneri!» esclamò Mat. «Ecco perché Hake era sicuro che non ce la saremmo svignata!»
La finestra era protetta da sbarre di ferro, luccicanti per la pioggia, fissate a un’intelaiatura, anch’essa di ferro. Rand provò a spingere le sbarre: erano solide come un macigno.
«Aspetta un momento» disse Mat. Frugò in fretta negli scaffali e tornò con un palanchino arrugginito. Lo vibrò con forza contro l’intelaiatura. Rand fece una smorfia.
«Niente rumore, Mat.»
Mat brontolò sottovoce, ma aspettò. Rand impugnò il palanchino e piantò i piedi nella pozza d’acqua sotto la finestra. Al primo tuono, i due fecero leva. Con uno stridio di chiodi, l’intelaiatura si mosse... di mezzo dito. Approfittando dei tuoni e degli schianti dei fulmini, continuarono a fare leva sul palanchino. Niente. Mezzo dito. Niente. Un capello. Niente. Niente.
All’improvviso Rand scivolò sul pavimento bagnato e caddero tutt’e due per terra. Il palanchino urtò contro le sbarre, con un rintocco da campana.
Rand, disteso nella pozza d’acqua, trattenne il fiato e tese l’orecchio. Silenzio, a parte la pioggia.
Mat si succhiò le nocche scorticate e gli lanciò un’occhiataccia. «A questo ritmo, non usciremo mai» disse. L’intelaiatura lasciava spazio sufficiente a far passare forse due dita.
«Continuiamo a provare» disse Rand, rialzandosi. Ma mentre infilava il palanchino sotto il bordo dell’intelaiatura, la porta scricchiolò perché qualcuno cercava di aprirla. I cunei la tennero chiusa. Rand scambiò con Mat uno sguardo di preoccupazione. Mat estrasse di nuovo il pugnale. La porta cigolò di nuovo.
Rand trasse un profondo respiro e cercò di usare un tono fermo. «Vattene, Hake. Lasciaci dormire.»
«Temo che mi abbiate scambiato per il locandiere» rispose una voce melliflua e tronfia che poteva essere solo quella di Howal Gode. «Mastro Hake e i suoi... tirapiedi non ci daranno fastidio. Dormono della grossa e domattina potranno solo domandarsi dove siete scomparsi. Fatemi entrare, miei giovani amici. Dobbiamo discutere.»
«Non abbiamo niente da discutere con te» disse Mat. «Vattene e lasciaci dormire.»
Gode emise una risatina sgradevole. «Ne abbiamo, eccome. Lo sapete quanto me. Ve l’ho letto negli occhi. So che cosa siete, forse meglio di voi stessi. Già appartenete per metà al mio padrone. Smettetela di fuggire e accettatelo. Tutto sarà più facile, per voi. Se le streghe di Tar Valon vi trovano, rimpiangerete di non esservi tagliati la gola da soli, prima che abbiano terminato. Solo il mio padrone può proteggervi da loro.»
«Non sappiamo di cosa parli» replicò Rand. «Lasciaci in pace.» Le assi del corridoio cigolarono. Gode non era da solo. Quanti uomini si era portato, in due carrozze?
«Non fate gli sciocchi, miei giovani amici. Lo sapete fin troppo bene. Il Signore delle Tenebre vi ha segnati. È scritto che quando si desterà, i nuovi Signori del Terrore saranno qui a salutarlo. Di certo siete due di loro, altrimenti non sarei stato mandato a cercarvi. Pensateci. Vita eterna e potere superiore a ogni sogno.» La sua voce era piena di bramosia per quel potere.
Rand diede un’occhiata alla finestra, proprio mentre un fulmine squarciava il cielo, e si lasciò scappare un gemito. Il breve lampo aveva mostrato uomini all’esterno, incuranti della pioggia, di guardia alla finestra.
«Mi avete stancato» riprese Gode. «O vi sottometterete al mio padrone... al vostro padrone... o vi costringeremo a farlo. E per voi non sarà piacevole. Il Signore delle Tenebre comanda la morte e può dare vita nella morte o morte nella vita, a suo piacimento. Aprite la porta. In un modo o nell’altro, la vostra fuga è alla fine. Aprite, ho detto!»
Un pesante stivale colpì con fracasso la porta. Il battente tremò e i cunei scivolarono di mezzo dito, con uno stridore di ruggine contro l’assito del pavimento. La porta tremò ancora, sotto le spinte. A volte i cunei reggevano, a volte scivolavano d’un capello, ma a poco a poco la porta si spostava inesorabilmente verso l’interno.
«Sottomettetevi» ordinò Gode, dal corridoio «o rimpiangerete per l’eternità di non averlo fatto.»
«Se non abbiamo altra scelta...» Mat si umettò le labbra, sotto lo sguardo fisso di Rand. Muoveva gli occhi da tutte le parti, come un tasso in trappola; era pallido in viso e ansimava. «Diciamo di sì e più tardi ce la filiamo. Sangue e ceneri, Rand, non c’è via d’uscita!»
A Rand parve che le parole gli giungessero attraverso batuffoli di lana infilati nelle orecchie. Il tuono brontolò, subito soffocato dallo schianto di un fulmine. Non c’era via d’uscita. Bisognava trovarne una! Gode li chiamò, deciso, suadente; la porta si schiuse di un altro mezzo dito.
La luce invase la stanza, accecandoli; l’aria ruggì, ardente. Rand si sentì sollevato e sbattuto contro la parete. Scivolò per terra, con le orecchie che gli ronzavano e i capelli dritti. Intontito, si tirò in piedi barcollando. Si sentì mancare le ginocchia e posò la mano contro la parete per sostenersi. Si guardò intorno, sbigottito.
Il lume si era rovesciato sul fianco, ma non si era spento. I barili e le casse, alcuni anneriti e fumanti, erano stati scagliati tutt’intorno. La finestra e buona parte della parete erano svanite lasciando un foro frastagliato. Il tetto aveva ceduto; fili di fumo lottavano contro la pioggia intorno all’apertura. La porta, scardinata, pendeva di sghembo nel corridoio.
Con un senso d’irrealtà, Rand raddrizzò il lume, come se fosse importante che non si rompesse.
Una pila di casse si spostò all’improvviso e Mat si alzò tra i pezzi di legno. Barcollò e si tastò da tutte le parti, quasi a controllare d’essere ancora tutto intero. Scrutò dalla parte di Rand. «Rand? Sei tu? Sei vivo. Credevo che tutt’e due...» S’interruppe, mordendosi le labbra e tremando. A Rand occorse un istante, per capire che rideva, sull’orlo dell’isterismo.
«Cos’è accaduto? Mat? Mat! Cos’è accaduto?»
La crisi isterica passò. «Un fulmine, Rand» disse Mat. «Guardavo proprio da quella parte, quando ha colpito le sbarre. Un fulmine...» S’interruppe, con un’occhiata alla porta di sghembo. «Dov’è finito Gode?»
Nel corridoio buio niente si muoveva. Non c’era traccia di Gode e dei suoi compagni. Ma il buio poteva nascondere qualsiasi cosa. Rand si augurò che fossero morti, ma nemmeno per un regno avrebbe sporto la testa per accertarsi della loro sorte. Niente si muoveva nemmeno all’esterno, ma dal piano superiore della locanda provenivano grida confuse e rumori di piedi in corsa.
«Andiamo via, finché possiamo» disse Rand.
Raccolse in fretta le loro cose, afferrò per il braccio Mat e lo tirò attraverso il foro spalancato nella notte. Mat si aggrappò a lui e gli barcollò al fianco, allungando il collo per guardare.
Quando le prime gocce di pioggia colpirono in viso Rand, un fulmine saettò sopra la locanda. Rand si bloccò di colpo: gli uomini di Gode erano ancora lì fuori, lunghi e distesi per terra. La pioggia li colpiva, ma loro fissavano a occhi sbarrati il cielo.
«Cosa c’è?» disse Mat. «Sangue e ceneri! Riesco appena a vedere la mia mano!»
«Niente» rispose Rand. Con prudenza guidò Mat intorno ai cadaveri. «Solo il fulmine.»
L’unica luce era quella dei fulmini. Correndo a passo malfermo via dalla locanda, Rand inciampò nei solchi e, con Mat quasi appeso al braccio, a ogni inciampo ne rischiò di cadere; ma continuò a correre.
Solo una volta si guardò indietro, prima che la pioggia diventasse una fitta cortina e cancellasse il Carrettiere Danzante. Il fulmine mise in risalto la sagoma di un uomo, sul retro della locanda: un uomo che agitava il pugno contro di loro, o contro il cielo. Rand non capì se si trattava di Gode o di Hake, ma l’uno valeva l’altro. La pioggia sembrava un diluvio, li isolava con una muraglia d’acqua. Rand corse nella notte e tese l’orecchio nel ruggito della tempesta, per scoprire rumori d’inseguimento.