30 Figli dell’Ombra

Egwene restò seduta accanto al fuoco, a fissare il frammento della statua, ma Perrin andò alla pozza per stare da solo. Il giorno svaniva e da levante il vento notturno già increspava la superficie dell’acqua. Perrin staccò dalla cintura l’ascia e la rigirò fra le mani: il manico di frassino era lungo quanto il suo braccio, liscio e freddo al tocco. Sentì di odiarla. Si vergognò d’esserne stato orgoglioso, a Emond’s Field. Prima di sapere che cosa sarebbe stato disposto a fare, con essa.

«La odii fino a questo punto?» disse Elyas, dietro di lui.

Sorpreso, Perrin trasalì e quasi alzò l’ascia. «Sai... sai anche leggere la mente? Come i lupi?»

Elyas piegò la testa e lo guardò con aria perplessa. «Un cieco ti leggerebbe in viso, ragazzo. Su, parla. Odii la ragazza? La disprezzi? Ecco cos’è. Eri pronto a ucciderla perché la disprezzi, perché è sempre riluttante e ti tiene a freno con le sue maniere femminili.»

«Egwene non si è mai mostrata riluttante» protestò Perrin. «Fa sempre la sua parte. Non la disprezzo. Le voglio bene.» Lanciò a Elyas un’occhiata di fuoco, sfidandolo a ridere. «Non in quel senso. Voglio dire, non è come una sorella, ma lei e Rand... Sangue e ceneri! Se i corvi ci avessero assalito... Se... Non so.»

«Sì, invece. Se lei avesse potuto scegliere il tipo di morte, quale credi che avrebbe scelto? Un colpo della tua ascia o il modo in cui sono morti gli animali visti oggi? Io so quale sceglierei.»

«Non ho il diritto di scegliere per lei. Non le dirai niente, vero?» Strinse la presa sul manico dell’ascia; i muscoli delle braccia si gonfiarono, assai sviluppati per la sua età, frutto di lunghe ore di lavoro nella fucina di mastro Luhhan. Per un attimo pensò che la massiccia asta di legno si sarebbe spezzata. «Odio questa maledetta cosa» brontolò. «Non so cosa ci faccio, a portarla in giro impettito come uno sciocco. Non sarei riuscito a farlo, sai? Se è per finta, faccio lo spaccone e gioco come se fossi...» Sospirò. «È diverso, ora. Non voglio più usarla.»

«La userai.»

Perrin alzò l’ascia per gettarla nell’acqua, ma Elyas gli afferrò il polso.

«La userai, ragazzo; e finché odierai usarla, la userai più saggiamente di molti uomini adulti. Aspetta. Quando non la odierai più, allora sarà il momento di gettarla il più lontano possibile e di correre via dalla parte opposta.»

Perrin soppesò l’ascia, ancora tentato di gettarla in acqua. “Per lui è facile dire di aspettare” pensò. “E se aspetto e poi non posso più buttarla via?"

Aprì la bocca per girare a Elyas la domanda, ma si bloccò. Un messaggio dei lupi, così pressante che gli occhi gli si velarono. Per un attimo dimenticò che cosa stava per dire, dimenticò come si faceva a parlare, a respirare. Anche il viso di Elyas si afflosciò e i suoi occhi parvero scrutare dentro di sé e in lontananza. Poi il messaggio svanì, rapido com’era giunto. Era durato un istante, ma bastava.

Perrin si scosse e si riempì i polmoni. Elyas non esitò: appena si riprese, scattò verso il fuoco. Perrin lo seguì, muto.

«Spegni il fuoco!» gridò Elyas a Egwene. Gesticolò e parve voler gridare sottovoce. «Spegnilo!»

Egwene si alzò, lo fissò, incerta, poi si accostò al fuoco, ma lentamente; era chiaro che non capiva.

Elyas la scostò con rudezza, afferrò il bricco del tè e imprecò perché scottava. Lo passò da una mano all’altra e infine lo capovolse sul fuoco. Perrin arrivò in tempo per gettare a calci terriccio sulle braci sibilanti. Si fermò solo quand’ebbe cancellato le ultime tracce del fuoco.

Elyas gli lanciò il bricco e Perrin lo lasciò subito cadere, con un grido soffocato. Si soffiò sulle dita e guardò di storto Elyas, ma l’altro era troppo impegnato a controllare in fretta il campo.

«Impossibile nascondere che qui c’è stato qualcuno» disse. «Dovremo solo correre e sperare. Forse non ci baderanno. Sangue e ceneri, ero sicuro che fossero i corvi.»

Perrin sellò in fretta Bela e tenne l’ascia contro la coscia, quando si chinò a stringere il sottopancia.

«Cosa succede?» domandò Egwene. «Trolloc? Un Fade?»

«Andate a levante o a ponente» disse Elyas a Perrin. «Trovate un nascondiglio. Vi raggiungo appena possibile. Se vedono un lupo...» Si allontanò di corsa, tenendosi piegato come se volesse procedere a quattro zampe, e svanì nelle ombre della sera.

Egwene raccolse in fretta le sue cose, ma continuò a chiedere spiegazioni a Perrin, con voce insistente che divenne più spaventata perché lui restava zitto. Anche Perrin era spaventato, ma la paura li faceva muovere più in fretta. Attese finché non si mossero verso il sole calante. Camminando davanti a Bela e tenendo l’ascia contro il petto, disse a Egwene quel che sapeva, a spizzichi, senza girarsi e senza smettere di cercare un nascondiglio dove aspettare Elyas.

«Arrivano molte persone a cavallo. Erano dietro i lupi, ma non li hanno visti. Si dirigono alla pozza. Probabilmente non hanno niente a che fare con noi, qui c’è l’unica acqua nel giro di molte miglia. Ma Dapple dice...» Si lanciò un’occhiata alle spalle. Il sole al tramonto dipingeva ombre bizzarre sul viso di Egwene, ombre che nascondevano la sua espressione. «Dapple dice che non hanno l’odore giusto. Un po’ come... come un cane rabbioso rispetto a uno normale.» Dietro di loro, la pozza era scomparsa. Perrin distingueva ancora i massi, frammenti della statua di Artur Hawkwing, ma non al punto da dire sotto quale pietra avevano acceso il fuoco. «Ci terremo lontano da loro, troveremo un nascondiglio e aspetteremo Elyas.»

«Perché dovrebbero infastidirci?» domandò Egwene. «In teoria qui eravamo al sicuro. Luce santa, ci sarà pure un posto sicuro!»

Non si erano allontanati molto dalla pozza, ma il crepuscolo s’infittiva. Presto sarebbe stato troppo buio per muoversi. Una debole luce bagnava ancora le creste. Dalle depressioni, dove ci si vedeva appena, sembrava vivida per contrasto. Sulla sinistra una sagomi scura si stagliava contro il cielo, una pietra grossa e piatta che sporgeva di sbieco dal fianco della collina e ammantava di tenebra il pendio sottostante.

«Da questa parte» disse Perrin.

Si diresse in fretta verso la collina, guardandosi alle spalle in cerca di segni di gente in arrivo. Non c’era niente... per il momento. Più d’una volta fu costretto a fermarsi e ad aspettare Egwene e la giumenta che arrancavano dietro di lui. Egwene si teneva abbassata sul collo di Bela e la giumenta procedeva con cautela sul terreno ineguale. Perrin si disse che erano certo stanche più di quanto non pensasse. Si augurò che quello fosse un buon nascondiglio, perché non avrebbe potuto cercarne altri.

Ai piedi della collina esaminò la massiccia roccia piatta che si stagliava contro il cielo e sporgeva dal pendio quasi in prossimità della cresta. La sommità dell’enorme lastra sembrava formare gradini irregolari, tre in alto e uno in basso. Perrin salì per breve tratto e tastò la pietra, camminandovi sopra; nonostante l’erosione dei secoli riuscì ancora a sentire quattro colonne unite. Lanciò un’occhiata alla pietra che torreggiava su di lui come una enorme capanna a una falda. Dita. Si sarebbero riparati nella mano di Artur Hawkwing, pensò. Forse lì rimaneva un po’ della sua giustizia.

Segnalò a Egwene di raggiungerlo, ma lei non si mosse; allora scese alla base della collina e le disse che cosa aveva trovato.

Egwene scrutò in alto. «Come fai a vederci?»

Perrin aprì la bocca, la richiuse. Per la prima volta si rese davvero conto di quel che vedeva. Il sole era calato e le nuvole nascondevano la luna piena, ma a lui sembrava che ci fossero ancora le profonde frange violacee del crepuscolo. «Ho sentito al tatto la pietra» rispose infine. «Non può essere altro. Non ci vedranno, nell’ombra, anche se verranno fin qui.» Prese la briglia di Bela per guidarla al riparo della mano. Si sentiva nella schiena lo sguardo di Egwene.

Mentre l’aiutava a scendere di sella, dalle parti della pozza numerose grida infransero il silenzio della notte. Egwene posò la mano sul braccio di Perrin e lui intuì la domanda inespressa.

«Quegli uomini hanno scorto Wind» spiegò con riluttanza. Era difficile capire il significato dei pensieri dei lupi. Riguardavano il fuoco. «Hanno delle torce.» Spinse Egwene in fondo alle dita di pietra e si accovacciò accanto a lei. «Si dividono in gruppi di ricerca. Sono in molti. E tutt’e tre i lupi sono feriti.» Cercò di usare un tono più allegro. «Ma Dapple e gli altri dovrebbero riuscire a tenerli a distanza, anche se feriti; e quelli non si aspettano che ci siamo anche noi. Le gente non vede quello che non si aspetta di vedere. Presto lasceranno perdere e si accamperanno.» Elyas era con i lupi e non li avrebbe abbandonati, si disse. Ma perché c’erano tanti cavalieri? E perché erano così persistenti?

Egwene annuì, ma nel buio non si rese conto che lui l’aveva vista. «Andrà tutto bene, Perrin» disse.

"Luce santa” pensò lui. “Cerca di confortare me!"

Le grida continuarono. Gruppi di torce si mossero in lontananza, tremolanti puntini luminosi nelle tenebre.

«Perrin» disse piano Egwene «ballerai con me, il Giorno del Sole? Se per allora saremo a casa?»

Perrin scosse le spalle, in silenzio, senza sapere se rideva o piangeva. «Certo, te lo prometto» rispose. Strinse le dita sul manico dell’ascia, ricordando così che ancora l’impugnava. Continuò, in un bisbiglio: «È una promessa.» E si augurò di poterla mantenere.

Gruppi d’una decina di uomini muniti di torce cavalcavano ora tra le colline. Perrin non aveva modo di sapere quanti fossero: a volte erano visibili tre o quattro gruppi insieme, che perlustravano il terreno avanti e indietro. Continuavano a lanciarsi richiami e a volte c’erano anche grida nel buio... nitriti di cavalli e urla di persone.

Perrin li osservò da più d’un punto di vista. Acquattato con Egwene sul fianco della collina, guardò le torce muoversi nel buio come lucciole, ma con la mente correva con Dapple e Wind e Hopper. I lupi avevano riportato troppe ferite e non potevano muoversi con rapidità, perciò cercavano di spingere gli uomini al riparo dei fuochi. Gli uomini cercavano sempre, alla fine, la sicurezza dei fuochi, mentre i lupi giravano nella notte. Alcuni uomini conducevano file di cavalli senza cavaliere, che nitrivano e s’impennavano roteando gli occhi, mentre le sagome grigie saettavano in mezzo a loro e li disperdevano in ogni direzione, ringhiando e strappando le funi dalle mani degli uomini. Anche i cavalli montati nitrivano, quando le ombre grigie sbucavano dal buio, con zanne pronte a recidere i garretti, e a volte urlavano anche i cavalieri, l’attimo prima che le zanne squarciassero una gola. Anche Elyas era lì, per quanto Perrin lo percepisse molto confusamente: un lupo a due gambe che si aggirava nella notte, con un’unica zanna d’acciaio acuminato. Spesso le grida diventavano imprecazioni, ma gli uomini non rinunciarono alle ricerche.

A un tratto Perrin capì che gli uomini con le torce seguivano uno schema. Ogni volta che i gruppi comparivano, almeno uno era più vicino alla collina dove lui e Egwene si erano nascosti. Elyas aveva detto di trovare un nascondiglio, ma... E se fossero scappati? Forse il buio li avrebbe nascosti, se continuavano a muoversi. Era abbastanza fitto.

Furono le circostanze a prendere per lui la decisione. Una decina di torce girò alla base della collina, ondeggiando al trotto dei cavalli. Punte di lancia brillarono. Perrin s’immobilizzò, trattenendo il fiato, e strinse il manico dell’ascia.

I cavalieri oltrepassarono la collina, ma uno mandò un grido e le torce tornarono indietro. Perrin cercò disperatamente il modo di cavarsi dai pasticci. Ma se solo si muovevano, sarebbero stati visti, e una volta individuati, non avrebbero avuto possibilità alcuna, nemmeno con l’aiuto del buio.

I cavalieri si raccolsero alla base della collina, reggendo ciascuno una torcia e una lancia, guidando i cavalli con la pressione delle ginocchia. Perrin vide i mantelli bianchi dei Figli della Luce. Gli uomini alzarono le torce e si sporsero sulla sella per scrutare in alto nel buio sotto le dita di Artur Hawkwing.

«C’è qualcosa, lassù» disse uno, a voce un po’ troppo alta, come se avesse paura di quel che c’era al di là del cerchio di luce della torcia. «Vi avevo detto che era un buon nascondiglio. Quello non è un cavallo?»

Egwene posò la mano sul braccio di Perrin: la domanda inespressa era chiara. Cosa fare? Elyas e i lupi erano ancora lontano. In basso, i cavalli si mossero nervosamente. “Se scappiamo adesso, ci prenderanno subito” si disse Perrin.

Un Manto Bianco avanzò di qualche passo e gridò: «Se capite il linguaggio umano, venite giù e arrendetevi. Non vi faremo alcun male, se camminate nella Luce. Se non vi arrendete, vi uccideremo tutti. Avete un minuto.» Le lance si abbassarono e le lunghe punte di ferro scintillarono alla luce delle torce.

«Perrin» bisbigliò Egwene «non ce la faremo, a distanziarli. Se non ci arrendiamo, ci uccideranno. Perrin?»

Elyas e i lupi erano ancora liberi. Lontano, un grido gorgogliante indicò che un Manto Bianco si era avvicinato troppo a Dapple. “Se scappiamo..." pensò Perrin. Egwene lo guardava, aspettava che le dicesse che cosa fare. “Se scappiamo..." Scosse stancamente la testa e si alzò come in trance; scese a passo malfermo il pendio, verso i Figli della Luce. Egwene sospirò e lo seguì con riluttanza. “Perché i Manti Bianchi sono così insistenti, come se odiassero di cuore tutti i lupi? Perché hanno l’odore sbagliato?" Perrin credette quasi di fiutarlo, quell’odore sbagliato, quando il vento soffiò dalla sua parte.

«Butta via l’ascia» ringhiò il capo del drappello.

Perrin si mosse verso di lui, a passo malfermo, arricciando il naso per scacciare l’odore che credeva di sentire.

«Buttala via, zuccone!» Il capo mosse la lancia verso il petto di Perrin.

Per un istante Perrin fissò la punta di lancia, abbastanza affilata da passarlo da parte a parte, e all’improvviso gridò: «No!» Ma non si era rivolto al cavaliere.

Dal buio sbucò Hopper, e Perrin fu tutt’uno col lupo. Hopper, che da cucciolo guardava con invidia le aquile volteggiare nel cielo e avrebbe voluto imitarle; Hopper, che aveva imparato a saltare più in alto di ogni altro lupo e non aveva mai perso il desiderio di volare. Sbucò dal buio e spiccò un gran balzo, volando come le aquile. I Manti Bianchi ebbero solo un istante per imprecare, prima che le fauci di Hopper si chiudessero attorno alla gola di quello che puntava la lancia contro Perrin. L’urto mandò tutt’e due a terra, dall’altra parte del cavallo. Perrin sentì la gola lacerarsi, gustò il sapore del sangue.

Hopper atterrò con leggerezza, già lontano dall’uomo appena ucciso. Il sangue gli macchiava la pelliccia, suo e di altri. Uno squarcio sul muso gli attraversava l’orbita sinistra, ora vuota. Con l’occhio buono incrociò lo sguardo di Perrin, per un solo istante. Scappa, fratello! Girò su se stesso per spiccare un altro balzo, per volare un’ultima volta... e una lancia lo inchiodò al terreno. Una seconda gli trafisse le costole e si piantò nella terra. Hopper agitò le zampe e cercò di azzannare le aste che lo bloccavano.

Perrin si sentì invadere dal dolore e urlò, un urlo senza parole che aveva qualcosa del latrato d’un lupo. Senza riflettere, si lanciò all’attacco, continuando a urlare. Non pensava più a niente. I cavalieri erano troppo ammucchiati per usare le lance e nelle mani di Perrin l’ascia era una piuma, un’enorme zanna d’acciaio. Qualcosa gli si abbatté sulla testa e, nel cadere, Perrin non seppe se a morire era stato Hopper o lui stesso.

«...volare in alto come le aquile.»

Borbottando, Perrin aprì gli occhi e fu colto da un senso di vertigine. Aveva male alla testa e non ricordava perché. Batté le palpebre nella luce e si guardò intorno. Egwene era inginocchiata accanto a lui. Si trovavano in una tenda quadrata, ampia come una stanza di fattoria, con un telo di stoffa per pavimento. Lampade a olio su alti sostegni, una per angolo, illuminavano vivamente l’interno.

«La Luce sia ringraziata» mormorò Egwene. «Ho temuto che ti avessero ucciso.»

Invece di rispondere, Perrin fissò l’uomo dai capelli grigi, seduto sull’unica sedia. Un viso dagli occhi scuri e dall’aria paterna gli restituì lo sguardo, un viso che faceva a pugni con il tabarro bianco e oro indossato dall’uomo e con l’armatura brunita sopra la veste candida. Sembrava un viso gentile, franco e pieno di dignità, intonato all’austera eleganza dell’arredamento della tenda: un tavolo e un letto pieghevole, un portacatino con una bacinella bianca e una brocca, una cassapanca di legno decorata con semplici intarsi geometrici. Gli oggetti di legno erano tirati a cera e quelli metallici scintillavano, ma non esageratamente. Ogni cosa aveva l’impronta dell’abilità artigiana, ma solo chi avesse già visto il lavoro di artigiani, come mastro Luhhan o mastro Aydaer lo stipettaio, se ne sarebbe accorto.

Assorto, l’uomo mosse col dito due mucchietti posti sul tavolo. In uno Perrin riconobbe il contenuto delle sue tasche e il coltello che portava alla cintura. La moneta d’argento avuta da Moiraine rotolò via e l’uomo la spinse di nuovo nel mucchietto. Sporse le labbra e alzò dal tavolo l’ascia di Perrin, soppesandola. Spostò l’attenzione sui due ragazzi.

Perrin cercò di alzarsi. Fitte dolorose gli percorsero le braccia e le gambe, bloccandolo. Solo allora si accorse d’essere legato mani e piedi. Con lo sguardo cercò Egwene. Lei scrollò le spalle, tristemente, e si spostò in modo da mostrargli la schiena. Vari giri di corda le avvolgevano i polsi e le caviglie, provocandole lividi arrossati. Un pezzo di corda teso fra i legacci le impediva di stare dritta, se si fosse messa in piedi.

Perrin sgranò gli occhi. Era già sconvolgente che li avessero legati, ma quelle funi bastavano a immobilizzare due cavalli. Per chi li avevano presi?

L’uomo dai capelli grigi li osservò, curioso e assorto, come mastro al’Vere quando cercava di risolvere un problema. Reggeva l’ascia come se si fosse dimenticato della sua esistenza.

Il lembo della tenda si spostò per lasciar entrare un uomo alto. Aveva viso affilato e magro, occhi cavernosi, non un filo di carne più del necessario né un’oncia di grasso superfluo.

Prima che il lembo ricadesse, Perrin riuscì a sbirciare fuori: buio, fuochi di campo e due sentinelle davanti alla tenda. Appena entrato, il nuovo venuto si fermò, rigido come un’asta di ferro, fissando la parete di fronte. L’armatura di piastra e di maglia brillava come argento, contro il mantello e la veste d’un bianco immacolato.

«Lord Capitano» disse l’uomo, con voce dura come la posizione assunta, e rauca, ma piatta e inespressiva.

L’uomo dai capelli grigi gli rivolse un gesto negligente. «Comodo, Figlio Byar. Hai calcolato quanto ci costa questo... incontro?»

L’uomo allargò i piedi, ma fu l’unico segno di rilassamento. «Nove morti, Lord Capitano, e ventitré feriti, sette dei quali gravemente. Ma tutti in grado di cavalcare. Abbiamo dovuto abbattere trenta cavalli. Tutti sgarrettati!» Lo sottolineò come se la sorte dei cavalli fosse peggiore di quella toccata agli uomini. «Molti cavalli di scorta sono fuggiti. All’alba forse ne troveremo alcuni, ma con i lupi a inseguirli occorreranno giorni per ricuperarli tutti. Gli uomini che li avevano in consegna sono stati assegnati alla guardia di notte, finché non saremo a Caemlyn.»

«Non abbiamo a disposizione giorni, Figlio Byar» disse piano l’uomo dai capelli grigi. «Partiamo all’alba. Niente può cambiare questa decisione. Dobbiamo essere a Caemlyn in tempo, no?»

«Agli ordini, Lord Capitano.»

L’uomo dai capelli grigi lanciò un’occhiata a Perrin e a Egwene. «E cosa abbiamo da mostrare, per giustificare le perdite, a parte questi due ragazzi?»

Byar inspirò a fondo ed esitò. «Ho fatto scuoiare il lupo che era con loro, Lord Capitano. La sua pelle diventerà un bel tappeto per la tenda.»

Hopper! Senza rendersene conto, Perrin ringhiò e si dibatté per liberarsi. Le corde gli penetrarono nelle carni — i polsi gli divennero scivolosi per il sangue — ma non si spezzarono.

Solo allora Byar guardò i due prigionieri. Egwene si ritrasse. Il viso dell’uomo era privo d’espressione come la voce, ma una luce crudele gli ardeva negli occhi infossati. Byar li odiava, come se fossero suoi nemici da anni e non persone mai viste prima di quella notte.

Perrin gli restituì lo sguardo, con aria di sfida. Arricciò le labbra in un sorriso, al pensiero di azzannargli la gola.

Di colpo perdette il sorriso e si scosse. Azzannargli la gola? Lui era un uomo, non un lupo! Quella storia doveva finire! Ma non distolse lo sguardo da Byar, odio per odio.

«Non m’interessano tappeti di pelle di lupo, Figlio Byar.» Il rimprovero fu pacato, ma Byar scattò di nuovo sull’attenti, sguardo fisso sulla parete opposta. «Concludi il rapporto sui risultati di stanotte. Se risultati ci sono.»

«Secondo la mia stima, il branco che ci ha assaliti contava cinquanta lupi o più, Lord Capitano. Ne abbiamo uccisi almeno venti, forse trenta. Ho pensato che non valesse la pena rischiare altri cavalli per raccogliere le carcasse. Domattina le farò raccogliere e bruciare. A parte questi due, c’era almeno una decina di uomini. Ne abbiamo uccisi quattro o cinque, ma non troveremo i cadaveri, visto che gli Amici delle Tenebre hanno l’abitudine di portare via i propri morti per nascondere le perdite. Si direbbe che ci abbiano teso un’imboscata, ma questo fa nascere la domanda...»

Perrin sentì un groppo in gola, mentre l’altro continuava. Elyas? Con cautela e riluttanza cercò un contatto mentale con i lupi... e non trovò niente. “O sono morti” si disse “o ci hanno abbandonato." Gli venne voglia di ridere amaramente. Alla fine il suo desiderio era stato esaudito, ma a caro prezzo.

Proprio allora l’uomo dai capelli grigi si mise a ridere: una risata piena e ironica, che provocò la comparsa di due chiazze rosse sulle guance di Byar.

«Così, Figlio Byar, secondo la tua attenta analisi, siamo caduti in un’imboscata tesa da cinquanta o più lupi e una decina di Amici delle Tenebre? Sì? Forse, quando avrai visto qualche altra operazione...»

«Ma, Lord Capitano Bornhald...»

«Io direi da sei a otto lupi, Figlio Byar, e forse nessun altro a parte questi due. Sei pieno di zelo, ma non hai esperienza fuori delle città. Portare la Luce è una cosa diversa, quando vie e case sono assai distanti. I lupi sembrano sempre più di quanti sono, di notte... e gli uomini anche. Sei, otto al massimo, ritengo.» Il rossore di Byar divenne più intenso. «Sospetto inoltre che fossero qui per la nostra stessa ragione: qui c’è la sola acqua nel raggio di una giornata di cavallo. Una spiegazione molto più semplice della presenza di spie o di traditori fra i Figli. E di solito le spiegazioni più semplici sono le più veritiere. Imparerai, con l’esperienza.»

Il viso di Byar divenne bianco come un cencio, mentre il Lord Capitano parlava; per contrasto, le due macchie rosse sulle guance in cavate passarono dal rosso al viola. L’uomo scoccò un’occhiata ai due prigionieri.

"Ora ci odia anche più di prima” pensò Perrin. “Ma perché ci odia tanto, in primo luogo?"

«Cosa te ne pare?» disse il Lord Capitano, sollevando l’ascia di Perrin.

Byar gli rivolse una muta richiesta e attese il cenno di risposta, prima di prendere l’ascia. La sollevò, con un grugnito di sorpresa, e la fece ruotare in uno stretto arco, al di sopra della testa, sfiorando il soffitto della tenda. La maneggiò come se fosse nato con un’ascia in mano. Negli occhi gli passò un lampo di riluttante ammirazione; ma, quando abbassò l’ascia, era di nuovo impassibile.

«Molto ben bilanciata, Lord Capitano. Di semplice fattura, ma eseguita da un ottimo armaiolo, forse da un mastro.» Rivolse ai prigionieri uno sguardo di fuoco. «Non un’arma da paesani, Lord Capitano. Né da contadini.»

«No.» L’uomo dai capelli grigi si girò verso Perrin e Egwene, con un sorriso stanco e un po’ ironico: pareva il nonno benevolo al corrente delle biricchinate dei nipotini. «Mi chiamo Geofram Bornhald» disse. «Tu sei Perrin, a quanto ho sentito. Ma tu, ragazza, come ti chiami?»

Perrin lo fissò con astio, ma Egwene scosse la testa. «Non fare lo sciocco, Perrin. Mi chiamo Egwene.»

«Solo Perrin, e solo Egwene» mormorò Bornhald. «Ma, se siete veri Amici delle Tenebre, vorrete di sicuro nascondere il più possibile la vostra identità.»

Perrin si alzò sulle ginocchia, il massimo, per come era legato. «Non siamo Amici delle Tenebre» protestò con rabbia.

Non aveva neppure terminato, che Byar lo assalì con la rapidità d’un serpente. Perrin vide calare su di sé il manico della sua stessa ascia e cercò di schivarlo, ma il pesante bastone lo colpì sopra l’orecchio. Solo il tentativo di sottrarsi evitò che il colpo gli spaccasse il cranio. Anche così, Perrin vide le stelle. Rimase senza fiato e crollò a terra. La testa gli rintronava e un filo di sangue gli colò sulla guancia.

«Non hai il diritto...» cominciò Egwene e strillò mentre il manico dell’ascia si avventava contro di lei. Si gettò di lato e il colpo sibilò nell’aria, mentre lei ruzzolava.

«Bada a come usi la lingua, quando parli con un Illuminato, o non avrai più lingua da usare» disse Byar. La cosa peggiore era che la voce non mostrò la minima emozione. Mozzare loro la lingua non gli avrebbe dato piacere né rammarico: era solo un’azione come un’altra.

«Calma, Figlio Byar.» Bornhald guardò di nuovo i prigionieri. «Mi aspetto che non sappiate niente degli Illuminati, né dei Lord Capitani dei Figli della Luce, vero? No, penso di no. Bene, per amore di Figlio Byar, almeno, cercate di non discutere né di gridare, d’accordo? Voglio solo che camminiate nella Luce; lasciare che la collera prenda il sopravvento non ci sarà d’aiuto.»

Perrin guardò l’uomo dal viso smunto che incombeva su di loro. “Per amore di Figlio Byar?" si disse. Notò che il Lord Capitano non aveva detto a Byar di lasciarli in pace. Byar incrociò lo sguardo di Perrin e sorrise: il sorriso toccò solo le labbra, ma la pelle del viso si tese, fino a dargli l’aspetto di un teschio. Perrin rabbrividì.

«Ho sentito parlare di persone che corrono insieme coi lupi» disse Bornhald, pensieroso «ma non ne ho mai viste. Persone che parlano ai lupi e ad altre creature del Tenebroso. Sporca faccenda. Mi fa ritenere che la Battaglia Finale si avvicini davvero.»

«I lupi non sono...» Perrin s’interruppe, vedendo che Byar si preparava a dargli un calcio. Inspirò a fondo e proseguì con tono più pacato. Deluso, Byar abbassò lo stivale. «I lupi non sono creature del Tenebroso» riprese Perrin. «Odiano il Tenebroso. Almeno, odiano Trolloc e Fade.» Notò con sorpresa che il magro annuiva come fra sé.

Bornhald inarcò il sopracciglio. «Chi te l’ha detto?»

«Un Custode» intervenne Egwene. Si ritrasse dallo sguardo ardente di Byar. «Disse che i lupi odiano i Trolloc e che i Trolloc hanno paura dei lupi.» Perrin fu lieto che non avesse fatto il nome di Elyas.

«Un Custode» sospirò Bornhald. «Una creatura delle streghe di Tar Valon. Cos’altro poteva dirti, uno di quella genia, dal momento che anche lui è Amico delle Tenebre e servo di Amici delle Tenebre? Non sai che i Trolloc hanno muso e zanne da lupo e pelliccia da lupo?»

Perrin cercò di schiarirsi il cervello. Al posto della testa aveva ancora una massa di dolore pulsante, ma intuiva che in quelle parole c’era qualcosa di sbagliato. Però non riusciva a riordinare i pensieri quanto bastava a definirlo.

«Non tutti» borbottò Egwene. Perrin diede a Byar un’occhiata cauta, ma il magro si limitò a osservare Egwene. «Alcuni hanno le corna, come arieti o capri, oppure becco di falco, oppure... oppure... ogni sorta di cose.»

Bornhald scosse tristemente la testa. «Vi do tutte le possibilità, ma voi a ogni parola vi scavate una fossa più profonda.» Alzò un dito. «Andate in giro con i lupi, creature del Tenebroso.» Ne alzò un secondo. «Ammettete d’essere amici di un Custode, altra creatura del Tenebroso. Non credo che vi avrebbe raccontato certe cose, se fosse stato solo un conoscente casuale.» Terzo dito. «Tu, ragazzo, tenevi in tasca un marco di Tar Valon. Molti, fuori di Tar Valon, se ne liberano il più rapidamente possibile. A meno che non siano al servizio delle streghe di Tar Valon.» Quarto dito. «Porti un’arma da guerriero, ma vesti come un contadino. Sei un tipo sospetto, quindi.» Quinto dito. «Conoscete Trolloc e Myrddraal. Da queste parti, solo alcuni studiosi e coloro che hanno viaggiato nelle Marche di Confine li ritengono qualcosa di più d’una leggenda. Per caso siete stati nelle Marche? In questo caso, ditemi dove. Vi ho girato parecchio e le conosco bene. No? Ah, bene.» Si guardò la mano aperta e la lasciò cadere con forza sul tavolo. La sua aria da nonno benevolo diceva che i nipoti ne avevano combinata una davvero grossa. «Perché non mi dite la verità e spiegate come mai giravate di notte in compagnia di lupi?»

Egwene aprì la bocca, ma Perrin capì subito che avrebbe raccontato una delle storie già preparate. Non andava bene, in quella circostanza. Se Bornhald li avesse sorpresi a mentire, non avrebbe più creduto alle loro parole e si sarebbe convinto che erano davvero Amici delle Tenebre.

«Veniamo dai Fiumi Gemelli» disse in fretta.

Egwene lo fissò apertamente, prima di controllarsi, ma Perrin continuò e raccontò la verità... una parte, almeno. Avevano lasciato i Fiumi Gemelli per vedere Caemlyn. Per strada avevano sentito parlare delle rovine di una grande città, ma quando avevano trovato Shadar Logoth, vi avevano scoperto i Trolloc. Erano riusciti a fuggire attraversando l’Arinelle, ma a quel punto si erano perduti. Si erano imbattuti in un uomo che si era offerto di guidarli a Caemlyn. Non si era presentato e non si comportava in modo amichevole, ma loro due avevano bisogno d’una guida. I lupi li avevano visti per la prima volta all’arrivo dei Figli della Luce. Loro due si erano nascosti per non farsi sbranare dai lupi o ammazzare dai cavalieri appena giunti.

«...Se avessimo saputo che eravate Figli della Luce» concluse «vi avremmo chiesto aiuto.»

Byar sbuffò, incredulo. Perrin non gli badò: se il Lord Capitano si fosse convinto, non avrebbero avuto niente da temere da Byar. Quello avrebbe smesso di respirare, se il Lord Capitano glielo ordinava.

«Non hai menzionato alcun Custode» disse Bornhald, dopo qualche istante.

Perrin non trovò risposta, ma Egwene intervenne. «L’abbiamo incontrato a Baerlon. La città era affollata di minatori; nella locanda lui si è seduto al nostro tavolo e abbiamo parlato durante il pasto.»

«Rendigli le loro cose, Figlio Byar, ma non le armi, è ovvio» disse Bornhald. Vedendo la sorpresa di Byar, aggiunse: «O sei uno di quelli che si sono messi a depredare i non illuminati? Brutto affare, questo. Non si può essere ladri e camminare nella Luce.» Byar parve lottare con incredulità all’insinuazione.

«Ci lasci andare?» Egwene parve stupita. Perrin alzò la testa per fissare il Lord Capitano.

«No, certo» disse Bornhald, con aria dispiaciuta. «Forse è vero che venite dai Fiumi Gemelli, visto che sapete di Baerlon e delle miniere. Ma Shadar Logoth? Un nome che pochissimi conoscono, quasi tutti Amici delle Tenebre; e chi ne sa tanto da conoscere il nome, sa anche di starne lontano. Vi consiglio di pensare una storia migliore, durante il viaggio a Amador. Avrete tempo, dal momento che dobbiamo fermarci a Caemlyn. Preferibilmente la storia vera. C’è libertà, nella verità e nella Luce.»

Byar vinse in parte la timidezza verso l’uomo dai capelli grigi. Girò le spalle ai prigionieri e parlò con tono brusco e offeso. «Non puoi! Non è permesso!» Bornhald inarcò il sopracciglio e Byar si riprese. «Scusa, Lord Capitano. Mi sono lasciato andare e ti chiedo perdono. Accetterò la punizione. Ma dobbiamo arrivare in tempo a Caemlyn; senza cambi di cavalli, sarà meglio non accrescere le nostre difficoltà portandoci dietro prigionieri.»

«E cosa suggeriresti?» replicò con calma Bornhald.

«La pena per gli Amici delle Tenebre è la morte.» Il tono neutro rese più terribile la dichiarazione, quasi fosse il suggerimento di calpestare uno scarafaggio. «Non c’è tregua, con l’Ombra. Non c’è pietà, per gli Amici delle Tenebre.»

«Lo zelo è ammirevole, Figlio Byar; ma, come spesso ripeto a mio figlio Dain, lo zelo eccessivo può essere un grave errore. Ricorda che i Dogmi dicono anche: “Nessuno è tanto perduto da non poter essere riportato alla Luce". Questi due sono giovani. Possono ancora essere guidati alla Luce, se solo permettono che l’Ombra venga sollevata dai loro occhi. Dobbiamo dare loro questa possibilità.»

Per un attimo Perrin provò quasi un senso d’affetto per quella figura paterna che si frapponeva tra loro e Byar. Poi Bornhald rivolse a Egwene il suo sorriso paterno.

«Se rifiuti di venire alla Luce, una volta giunti a Amador dovrò affidarti agli Inquisitori, al cui confronto lo zelo di Byar è come candela a paragone del sole.» Sembrava dispiaciuto, ma deciso a fare comunque il suo dovere. «Rinuncia al Tenebroso, vieni alla Luce, confessa i tuoi peccati, rivela quel che sai di questa abiezione con i lupi e l’Inquisizione ti sarà risparmiata.» Fissò Perrin e sospirò con aria triste. Perrin si sentì gelare il sangue. «Ma tu, Perrin senza cognome, venuto dai Fiumi Gemelli... tu hai ucciso due Figli.» Toccò l’ascia ancora in mano a Byar. «Per te, purtroppo, c’è in serbo la forca, a Amador.»

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