24 Fuga sull’Arinelle

L’acqua sgocciolava in lontananza, con un’eco continua di schizzi sordi. Da ogni parte, ponti di pietra e rampe prive di ringhiera spuntavano da ampie guglie dal tetto piatto, lucide, lisce, striate di rosso e d’oro. Il labirinto si estendeva in alto e in basso nel buio, senza un chiaro inizio né fine. Ogni ponte portava a una guglia, ogni rampa a un’altra guglia e ad altri ponti. Da qualsiasi parte Rand guardasse, la scena era sempre uguale. La scarsa luce non consentiva di vedere bene e Rand ne fu quasi lieto. Alcune rampe portavano a piattaforme poste l’una sull’altra, ma di nessuna si scorgeva la base. Rand andò avanti cercando di fuggire da quel labirinto, pur sapendo che si trattava d’illusione.

Per quanto lontano andasse, da qualsiasi parte, c’era solo pietra lucida. Pietra, ma l’umidità di terra rivoltata di recente permeava l’aria, con l’odore dolciastro e nauseante di decomposizione: il lezzo di una tomba aperta fuori tempo. Rand cercò di trattenere il fiato, ma il lezzo gli riempiva le narici, gli restava appiccicato alla pelle come olio.

Con la coda dell’occhio scorse un movimento e si bloccò, acquattato contro il lucido muretto sulla sommità di una guglia. Non era un nascondiglio: l’avrebbero visto da mille altri punti. L’ombra riempiva l’aria, ma non c’erano ombre più fitte dove nascondersi. La luce non proveniva da lumi, lanterne, torce: pareva filtrare dall’aria stessa. Permetteva di vedere, alla meno peggio, e di essere visti. Ma l’immobilità offriva un po’ di protezione.

Il movimento si ripeté: un uomo risaliva una rampa lontana, incurante dell’abisso spalancato e della mancanza di ringhiera. Procedeva a passo frettoloso, col mantello svolazzante, e girava la testa a scrutare senza posa. A causa della distanza, Rand scorgeva solo la sagoma nella penombra, ma sapeva che il mantello aveva il colore del sangue appena sgorgato e che gli occhi ardevano come fornaci.

Cercò di seguire con lo sguardo il labirinto per scoprire quanti incroci Ba’alzamon dovesse superare prima di raggiungerlo e subito vi rinunciò. Le distanze erano ingannevoli: un punto all’apparenza lontano a volte si trovava appena dietro l’angolo e uno vicinissimo poteva rivelarsi irraggiungibile. Come sempre, l’unica cosa da fare era non fermarsi. Continuare a muoversi e non pensare. Pensare era pericoloso.

Eppure, mentre si allontanava dalla sagoma di Ba’alzamon, Rand non riuscì a non pensare a Mat. Anche Mat era sperduto nel labirinto? Oppure c’erano due labirinti, due Ba’alzamon?

Un paio di volte aveva rischiato d’incontrare Ba’alzamon, ma non ne aveva un ricordo chiaro; per moltissimo tempo aveva continuato a fuggire, sempre inseguito. Era un sogno come quello fatto a Baerlon, o un semplice incubo come quelli di chiunque?

Per un istante, allora, capì perché pensare era pericoloso: ogni volta che pensava di trovarsi in un sogno, l’aria luccicava e gli velava gli occhi, si mutava in gelatina, lo bloccava.

Il calore gli dava prurito e da un bel pezzo aveva la gola secca, mentre percorreva il labirinto di siepi spinose. Il sudore evaporava prima di raccogliersi in goccioline, gli occhi gli bruciavano. In alto ribollivano nuvole minacciose, grigie e striate di nero, ma non un filo d’aria sfiorava il labirinto.

Pietre lisce, chiare e arrotondate, formavano un vago lastricato quasi sepolto nella polvere che si alzava anche al passo più leggero. La polvere gli faceva prudere il naso, rischiava di farlo starnutire rivelando così la sua posizione. Rand cercò di respirare con la bocca, ma la polvere gli intasò la gola fino a soffocarlo.

Era un luogo pericoloso, sapeva anche questo. Più avanti c’erano tre aperture nell’alta muraglia di spine, poi la strada curvava fuori vista. In quel momento Ba’alzamon poteva trovarsi dietro uno di quegli angoli. Ansimando nel calore, Rand si fermò a esaminare la muraglia del labirinto. Cespugli spinosi fittamente intrecciati, morti, color marrone, pieni di spine nere e acuminate, simili a uncini lunghi quattro dita. Una siepe troppo alta per guardare da sopra, troppo fitta per scrutarvi attraverso. Rand la toccò cautamente e trasalì. Una spina gli punse il dito e bruciava come ago arroventato. Arretrò, inciampando nelle pietre; scosse la mano, schizzò gocce di sangue. Il bruciore si calmò, ma tutta la mano gli pulsava.

All’improvviso dimenticò il dolore. Con il tallone aveva scalzato una pietra. Vide le occhiaie vuote: era un teschio umano. Guardò il sentiero fatto di pietre chiare e lisce, tutte uguali. Si mosse in fretta, ma era costretto a camminare su quelle pietre. Un pensiero vagante gli disse che forse le cose non erano quelle che apparivano, ma lui si affrettò a scacciarlo. Pensare era pericoloso.

Sconvolto, cercò di calmarsi. Anche fermarsi in uno stesso posto era pericoloso. Era una delle nozioni confuse di cui era certo. Il fiotto di sangue si era mutato in uno sgocciolio e il dolore pulsante era quasi scomparso. Succhiandosi il dito, si avviò per il sentiero, dalla parte dove guardava. Una direzione valeva l’altra.

Per uscire da un labirinto, ricordò, bastava svoltare sempre dalla stessa parte. Alla prima apertura nella siepe di spine girò a destra, e poi ancora a destra all’apertura successiva. E si trovò a faccia a faccia col suo inseguitore.

Ba’alzamon mostrò in viso un lampo di sorpresa: si arrestò di colpo e il mantello smise di svolazzare; gli occhi emisero lingue di fiamma, ma Rand se ne accorse appena, nel calore del labirinto.

«Per quanto tempo credi di evitarmi, ragazzo? Per quanto tempo credi di evitare il tuo destino? Tu appartieni a me!»

Rand arretrò a passo malfermo e si domandò perché si toccava la cintola come se cercasse la spada. «La Luce mi aiuti» mormorò. «La Luce mi aiuti.» Ma non sapeva il significato di quelle parole.

«La Luce non ti aiuterà, ragazzo; e l’Occhio del Mondo non sarà al tuo servizio. Sei il mio cane. Se non accorri al mio ordine, ti strangolerò col cadavere del Gran Serpente!»

Ba’alzamon protese la mano e all’improvviso Rand seppe che c’era il modo di sfuggirgli, un vago ricordo che urlava pericolo, ma un pericolo minore del tocco del Tenebroso.

«È un sogno!» gridò. «È un sogno!»

Ba’alzamon cominciò a spalancare gli occhi, per la sorpresa, o per la collera; l’aria tremolò e i suoi lineamenti si confusero, divennero più vaghi.

Rand si girò e si trovò a fissare la propria immagine riflessa mille volte, diecimila volta. In alto c’era il buio, e il buio in basso, ma tutt’intorno c’erano specchi, specchi posti a ogni angolo, specchi fin dove arrivava la vista; e tutti riflettevano lui, acquattato, che continuava a girarsi, con occhi sgranati, atterrito.

Un’ombra rossa e confusa passò sugli specchi. Rand si girò, cercò di seguirla con lo sguardo; ma in ogni specchio l’ombra sgusciava dietro la sua immagine e spariva. Poi ricomparve, ma non confusa. Ba’alzamon percorse a gran passi gli specchi, diecimila Ba’alzamon che cercavano e attraversavano senza posa gli specchi argentei.

Rand si trovò a fissare l’immagine del proprio viso, livido e tremante. Dietro la sua, comparve l’immagine di Ba’alzamon, che lo fissava senza vederlo. In ogni specchio le fiamme scaturivano dal viso di Ba’alzamon e si alzavano alle spalle di Rand, lo avvolgevano, lo consumavano. Rand voleva gridare, ma aveva la gola di pietra. C’era un unico viso, in quegli specchi infiniti. Il suo. Quello di Ba’alzamon. Un unico viso.


Rand sobbalzò e aprì gli occhi: il buio era interrotto solo da una fioca luce. Respirando appena, mosse solo gli occhi. Avvolto fino al mento in una ruvida coperta di lana, teneva la testa appoggiata sul braccio. Sotto le dita sentiva la superficie liscia di assi di legno. Il ponte di un’imbarcazione. Scricchiolio di sartiame. Rand emise un lungo respiro. Era a bordo della Spray. L’incubo era terminato... per quella notte, almeno.

Senza riflettere, si mise in bocca il dito; sentì il sapore di sangue e smise di respirare. Lentamente accostò al viso la mano e nella fioca luce della luna notò la gocciolina di sangue sulla punta del dito. Sangue provocato da una puntura di spina.


La Spray proseguì lentamente lungo l’Arinelle. Il vento era forte, ma soffiava da una direzione che rendeva inutili le vele. Per quanto il capitano Domon volesse rapidità, la barca procedeva lentamente. Di notte, a luce di lanterna, un uomo a prua gettava lo scandaglio e gridava al timoniere la profondità, mentre la corrente spingeva controvento la barca con i remi tirati a bordo. Nell’Arinelle non c’erano scogli, ma abbondavano secche e banchi di sabbia: una barca poteva incagliarsi con la prua nel fango e restare lì finché non fossero giunti aiuti. Se erano gli aiuti, ad arrivare per primi. Di giorno, i remi erano in azione dall’alba al tramonto, ma il vento si opponeva al loro sforzo come se volesse spingere la barca nell’altra direzione.

Non scesero a riva, né di giorno né di notte. Bayle Domon spingeva duramente barca ed equipaggio, maledicendo il vento contrario e l’andatura lenta. Imprecava contro i rematori e li frustava a parole per ogni manovra mal riuscita, ricordando il rischio di finire sgozzati dai Trolloc. Per due giorni la paura bastò a far scattare tutti. Poi il ricordo dell’attacco dei Trolloc si affievolì e gli uomini cominciarono a brontolare che era giusto scendere a terra almeno un’ora per sgranchirsi le gambe e che era pericoloso navigare di notte.

Erano proteste fatte sottovoce, controllando con la coda dell’occhio che il capitano Domon non fosse a portata d’orecchio, ma lui pareva udire tutto ciò che si diceva sulla sua barca. E allora, senza parlare, tirava fuori la lunga spada dalla lama ricurva e l’ascia uncinata trovate sul ponte dopo l’assalto, e le appendeva per un’ora all’albero maestro; chi aveva riportato ferite si tastava le fasciature e le proteste cessavano... per un paio di giorni, almeno, finché qualcuno non si rimetteva a dire che ormai si erano lasciati alle spalle i Trolloc e il ciclo ricominciava.

Thom, notò Rand, si teneva lontano dagli uomini dell’equipaggio, quando iniziavano a parlottare fra loro e ad accigliarsi, anche se di solito non lesinava manate sulle spalle e storielle e punzecchiature che mettevano il sorriso sulle labbra anche ai lavoratori più accaniti. Osservava con occhio cauto i conciliaboli dell’equipaggio, fingendosi impegnato ad accendere la pipa o ad accordare l’arpa. Rand non capì il motivo di questo comportamento. Gli uomini non sembravano biasimare i tre giunti a bordo con i Trolloc alle calcagna, ma Floran Gelb.

Per i primi due giorni, era possibile vedere Gelb discutere con ogni marinaio che riusciva a prendere da parte e raccontare la propria versione degli avvenimenti di quella notte. Gelb passava dalle sfuriate ai lamenti e viceversa, e mostrava i denti, quando indicava Thom o Mat o soprattutto Rand, cercando di dare a loro tutta la colpa.

«Sono estranei» diceva in tono lamentoso, sottovoce, senza perdere d’occhio il capitano. «Cosa sappiamo, di loro? Che sono arrivati con i Trolloc, nient’altro. Sono in lega con quei mostri.»

«Per la miseria, Gelb, piantala» ringhiò un uomo con il codino e una piccola stella azzurra tatuata sulla guancia. Arrotolava una fune, aiutandosi con le dita dei piedi, e non guardò Gelb. Tutti i marinai erano scalzi, nonostante il freddo: sul ponte bagnato gli stivali scivolavano. «Diresti che tua madre è un Amico delle Tenebre, pur di lavorare meno. Stammi lontano!» Sputò ai piedi di Gelb e tornò a occuparsi della fune.

Tutti ricordavano chi era di guardia, quella notte, e la risposta dell’uomo col codino fu la più educata. Nessuno voleva lavorare con Gelb e quest’ultimo si trovò a svolgere incarichi solitari, tutti spiacevoli, come pulire le pentole o strisciare nella sentina per cercare fessure tra fanghiglia vecchia d’anni. Ben presto smise di parlare con gli altri; ingobbì le spalle, come a proteggersi, e mantenne un silenzio offeso. Ma quando guardava Rand, o Mat o Thom, negli occhi gli passava un lampo omicida.

Rand disse a Mat che presto o tardi Gleb avrebbe provocato guai. Mat si guardò intorno e replicò: «Possiamo fidarci di loro? Anche di uno solo?» Poi andò a cercarsi un posto dove stare da solo, per quanto possibile in una barca che misurava meno di trenta passi dalla prua rialzata alla poppa dove era montato il remo che fungeva da timone. Secondo Rand, Mat trascorreva troppo tempo a rimuginare, dopo quella notte a Shadar Logoth.

«I guai, ragazzo» disse Thom «non verranno da Gelb, se verranno. Nessuno lo sostiene e lui non ha il coraggio di agire da solo. Ma gli altri? Domon sembra quasi convinto che i Trolloc diano la caccia a lui personalmente, ma gli altri cominciano a credere che il pericolo sia passato. Potrebbero decidere d’averne abbastanza. E non credo che ci manchi molto.» Si strinse addosso il mantello e Rand sospettò che controllasse i coltelli nascosti. «Se c’è un ammutinamento, ragazzo, non lasceranno passeggeri che possano raccontarlo. Le Ordinanze della Regina forse non avrebbero forza sufficiente, così lontano da Caemlyn, ma anche un sindaco di villaggio prenderebbe provvedimenti, in questo caso.» Da quel momento anche Rand cercò di non farsi notare, quando osservava l’equipaggio.

Thom fece la sua parte, nel tenere lontano dall’equipaggio l’idea di ammutinamento. Ogni mattina e ogni sera raccontava una delle sue storie e durante la giornata suonava le canzoni che gli chiedevano. Per confermare che Rand e Mat erano apprendisti, ogni giorno dedicava alle lezioni un po’ di tempo, con grande spasso dell’equipaggio. Ovviamente non permetteva ai due ragazzi di toccare l’arpa e le sessioni con il flauto producevano lamenti dolorosi, almeno all’inizio, e risate dei marinai, che si tappavano le orecchie.

Thom insegnò ai due ragazzi alcune semplici storie, qualche facile salto acrobatico e qualche gioco di destrezza. Mat si lamentò delle pretese di Thom, ma il menestrello sbuffò e lo guardò di storto.

«Non so giocare al maestro, ragazzo. O insegno, o non insegno. Allora, anche uno zuccone di campagnolo dovrebbe riuscire a stare ritto sulle mani. Su, in verticale!»

I marinai non impegnati si riunivano sempre a formare un cerchio intorno ai tre. Alcuni provavano perfino a mettere in pratica gli insegnamenti di Thom e ridevano della propria goffaggine. Gelb se ne stava da parte e li guardava, accigliato, odiandoli tutti.

Per buona parte della giornata Rand se ne stava appoggiato al parapetto e fissava la riva. Certo, non si aspettava di veder comparire all’improvviso Egwene o uno degli altri, ma la barca procedeva con tale lentezza che a volte ci sperava. Avrebbero potuto raggiungerla anche senza cavalcare a spron battuto. Se erano sfuggiti ai Trolloc. Se erano vivi.

Il fiume scorreva senza segno di vita, senza altre barche tranne la Spray. Ma questo non significava che non ci fosse niente da vedere. A metà del primo giorno, il corso dell’Arinelle passò fra due dirupi che si estendevano per mezzo miglio: le pareti erano scolpite con figure di uomini e di donne, alte cento piedi, le cui corone li proclamavano re e regine. Non ce n’erano due uguali e lunghi anni separavano la prima figura dall’ultima. Il vento e la pioggia avevano consumato quelle all’estremità settentrionale, rendendole quasi prive di lineamenti, ma i particolari diventavano più distinti man mano che procedevano verso meridione. Il fiume lambiva i piedi delle statue, ridotti a sporgenze levigate, se non mancanti del tutto. Rand si domandò da quanto tempo esistessero e quanti secoli avesse impiegato il fiume a corrodere la pietra. I marinai non alzarono nemmeno lo sguardo dal lavoro: avevano già visto un mucchio di volte quelle antiche sculture.

In un’altra occasione, quando la riva orientale era divenuta di nuovo una prateria piatta interrotta a volte da boschetti, il sole brillò su qualcosa in lontananza. «Cosa sarà?» si domandò Rand, a voce alta. «Sembra metallo.»

In quel momento passava il capitano Domon, che si fermò a fissare il riflesso. «È metallo» disse. «Una torre di metallo. L’ho vista da vicino e lo so. I mercanti fluviali la usano come punto di riferimento. Siamo a dieci giorni da Whitebridge, a questa velocità.»

«Una torre di metallo?» si stupì Rand; e Mat, seduto a gambe incrociate, con la schiena contro un barile, si scosse dai suoi pensieri per ascoltare.

Il capitano annuì. «Sì. Di acciaio lucente, ma senza un grano di ruggine. Alta duecento piedi e larga quanto una casa, senza il minimo segno d’aperture.»

«Scommetto che conterrà un tesoro» disse Mat. Si alzò a fissare la torre lontana, mentre la Spray l’oltrepassava. «Una torre del genere servirà di sicuro a proteggere qualcosa di prezioso.»

«Può darsi, ragazzo» borbottò il capitano. «Ma nel mondo ci sono cose anche più bizzarre di quella torre. Su Tremalking, un’isola del Popolo del Mare, c’è una mano di pietra alta cinquanta piedi, che sporge da una collina e stringe una sfera di cristallo grossa come questa barca. Se mai esistono tesori, ce n’è certo uno sotto quella collina, ma gli isolani non vogliono che si scavi e al Popolo del Mare interessa solo navigare e cercare il Coramoor, il Prescelto.»

«Io scaverei» disse Mat. «Quant’è lontana, questa... Tremalking?» Un folto d’alberi nascose la torre lucente, ma lui rimase a guardare come se la scorgesse ancora.

Il capitano scosse la testa. «No, ragazzo, non sono i tesori che ti spingono a vedere il mondo. Se trovi un pugno d’oro o di gioielli d’un re morto da tempo, bene; ma sono le cose nuove che ti spingono a vedere l’orizzonte successivo. A Tanchico, un porto dell’oceano Aryth, una parte del Palazzo del Panarca risale all’Epoca Leggendaria, così almeno si dice. Il fregio di una parete raffigura animali che nessun essere vivente ha mai visto.»

«Anche un bambino sa disegnare un animale che nessuno ha mai visto» disse Rand. Il capitano ridacchiò.

«Sì, certo. Ma sa anche fare le ossa di quell’animale? A Tanchico ci sono anche le ossa, unite insieme a formare lo scheletro. Si trovano in una parte del Palazzo del Panarca che tutti possono visitare. La Frattura ha lasciato migliaia di meraviglie e da quel tempo ci sono stati svariati imperi, alcuni in grado di rivaleggiare con quello di Artur Hawkwing; e ciascuno ha lasciato cose da vedere e da scoprire. Un graticcio di cristallo che ricopre un’isola e che ronza quando la luna è alta. Una montagna scavata come una ciotola, al cui centro s’innalza un’asta d’argento di cento spanne e chi si avvicina a meno d’un miglio da essa, muore. Rovine arrugginite e frammenti e cose trovate sul fondo marino, cose di cui nemmeno i libri più antichi sanno il significato. Io stesso ne ho raccolte alcune. Cose che nemmeno vi sognate, in più posti di quanti non ne vedreste in dieci vite. Sarà la bizzarria delle cose, ad attirarvi.»

«Andavamo fra le Colline Sabbiose a dissotterrare ossa» disse piano Rand. «Ossa insolite. Una volta abbiamo trovato i resti di un pesce, credo che fosse un pesce, grande come questa barca. Alcuni dicevano che portava male, fare scavi nelle colline.»

Il capitano gli rivolse un’occhiata penetrante. «Pensi già alla casa, ragazzo? E ti sei appena messo a girare il mondo! Ma il mondo ti prenderà all’amo. Darai la caccia al tramonto, aspetta e vedrai... e se mai torni, il tuo villaggio non sarà più sufficiente a contenerti.»

«No!» esclamò Rand, con un sobbalzo. Da quanto tempo non pensava a Emond’s Field? E a Tam? Da mesi, sembrava. «Tornerò a casa, un giorno, quando potrò. Alleverò pecore, come... come mio padre; e non mi muoverò più. Dico bene, Mat? Appena possibile, torneremo a casa e scorderemo tutto il resto.»

Con uno sforzo visibile Mat smise di fissare la riva dove la torre era ormai scomparsa. «Come? Ah, sì, certo. Torneremo a casa. Certo.» Si girò per andare a sedersi e Rand lo udì mormorare sottovoce: «Non vuole che nessun altro vada alla ricerca di quel tesoro, mi ci gioco la testa.» Parve non accorgersi che gli altri l’avevano udito.

Il quarto giorno di viaggio, Rand se ne stava in cima all’albero maestro, seduto sulla punta smussata e con le gambe negli stragli. La Spray rollava piano, ma a cinquanta piedi dall’acqua il rollio faceva ondeggiare in un ampio arco la cima dell’albero maestro. Rand gettò indietro la testa e rise a squarciagola nel vento che gli soffiava in pieno viso.

I remi erano in funzione e da lassù la barca sembrava un ragno a dodici zampe che strisciasse lungo l’Arinelle. Non era la prima volta che Rand saliva a certe altezze, perché spesso si arrampicava sugli alberi, nei Fiumi Gemelli; ma ora non c’erano rami a bloccargli la vista. Ogni cosa sul ponte, i marinai e i rematori, gente in ginocchio a sfregare con la pomice il tavolato, gente impegnata con funi e portelli... tutto sembrava bizzarro, visto dall’alto, piatto e tozzo, tanto che Rand aveva passato un’ora solo a guardare e a ridacchiare.

In quel momento fissava le rive che correvano via. Sembrava proprio che corressero, mentre lui stava fermo, a parte l’ondeggiamento, certo; le rive correvano, alberi e alture marciavano ai lati. Lui stava fermo e il mondo intero lo oltrepassava.

Agendo d’impulso, tolse le gambe dagli stragli fissati all’albero e allargò le braccia per tenersi in equilibrio nonostante il dondolio. Ci riuscì per tre archi completi, poi di colpo si sbilanciò. Mulinando gambe e braccia, cadde in avanti e si afferrò allo straglio di trinchetto. Con le gambe allargate ai lati dell’albero, senza niente a trattenerlo in quella precaria posizione se non le mani che stringevano lo straglio, scoppiò a ridere. Inspirò grandi boccate di vento fresco e si sentì esilarato.

Gli giunse la voce roca di Thom. «Ragazzo, se vuoi romperti l’osso del collo, cerca almeno di non travolgermi.»

Rand guardò in basso. Thom si reggeva alle griselle, proprio sotto di lui, e lo guardava con aria torva. Anche lui aveva lasciato sul ponte il mantello. «Thom» esclamò Rand, allegro. «Thom, quando sei salito?»

«Quando non rispondevi ai richiami. Tutti ti credono impazzito.»

Rand guardò giù e fu sorpreso nel vedere che tutti lo fissavano. Solo Mat, seduto a prua, dava la schiena all’albero maestro e non guardava. Anche i rematori avevano alzato gli occhi e perso il ritmo. E nessuno li rimproverava. Rand girò la schiena per guardare da sotto il braccio, a poppa. Il capitano Domon, fermo accanto al remo del timone, pugni sui fianchi, gli lanciava occhiate torve. Rand sogghignò a Thom. «Vuoi che scenda, allora?»

Thom annuì con vigore. «Te ne sarei molto grato.»

«D’accordo.» Cambiò presa sullo straglio di trinchetto e saltò giù dalla cima dell’albero maestro. Thom soffocò un’imprecazione, quando lui rimase appeso allo straglio di trinchetto. Il menestrello gli scoccò un’occhiata truce e protese la mano per afferrarlo al volo. Rand gli rivolse di nuovo un sogghigno. «Ora scendo.»

Dondolò in alto le gambe e agganciò col ginocchio la robusta fune che correva dall’albero maestro alla prua, poi vi passò il braccio e lasciò scorrere le mani. Dapprima lentamente, poi sempre più in fretta, scivolò giù. A poca distanza dalla prua si lasciò cadere sul ponte, in piedi davanti a Mat; mosse un passo per conservare l’equilibrio e si girò verso la barca, a braccia spalancate, come faceva Thom dopo un difficile esercizio.

Dall’equipaggio provenne qualche applauso, ma Rand, sorpreso, guardava Mat e l’oggetto che l’amico teneva in mano, nascosto dal suo stesso corpo alla vista degli altri. Un pugnale ricurvo con un fodero d’oro lavorato in simboli bizzarri. Un filo d’oro fino avvolgeva l’elsa sormontata da un rubino grosso come il pollice di Rand e i bracci della guardia erano due serpenti dalle scaglie d’oro, a zanne snudate.

Per un momento Mat continuò a muovere avanti e indietro nel fodero il pugnale. Sempre giocherellando con l’arma, sollevò lentamente la testa; negli occhi aveva uno sguardo remoto. All’improvviso si accorse di Rand, trasalì e nascose in fretta il pugnale sotto la giubba.

Rand si sedette sui talloni, a braccia incrociate sulle ginocchia. «Dove l’hai preso?» domandò. Mat non rispose, ma controllò rapidamente che non ci fosse nessuno nelle vicinanze. Erano da soli, una volta tanto. «Non l’avrai preso a Shadar Logoth, eh?»

Mat lo fissò. «La colpa è tua. E di Perrin. Mi avete tirato via dal tesoro prima che potessi posare il pugnale. Non me l’ha dato Mordeth. L’ho preso io, perciò l’ammonimento di Moiraine non vale. Non dirlo a nessuno, Rand. Potrebbero tentare di rubarmelo.»

«Non lo dirò a nessuno. Il capitano Domon mi sembra onesto, ma non mi fido degli altri, soprattutto di Gelb.»

«Nessuno» ripeté Mat. «Né Domon, né Thom, nessuno. Di quelli di Emond’s Field siamo rimasti solo noi due, Rand. Non possiamo fidarci di nessuno.»

«Sono vivi, Mat. Egwene e Perrin. So che sono vivi.» Mat parve imbarazzato. «Però manterrò il segreto. Solo noi due. Almeno, ora non dobbiamo preoccuparci di denaro. Lo possiamo vendere: ne ricaveremo di che viaggiare da re fino a Tar Valon.»

«Certo» convenne Mat, dopo un minuto. «Se sarà necessario. Ma non parlarne a nessuno, finché non te lo dico io.»

«Ti ho già detto che manterrò il segreto. Senti, hai fatto altri sogni, da quando siamo a bordo? Come a Baerlon? È la prima volta che ho l’occasione di chiedertelo senza che ci sia gente ad ascoltare.»

Mat girò la testa e lo guardò di sottecchi. «Forse.»

«Cosa significa, forse? O hai sognato, o non hai sognato.»

«Va bene, va bene, ho sognato. Non voglio parlarne. Non voglio nemmeno pensarci. È inutile.»

Prima che potessero continuare, arrivò Thom, mantello sul braccio. Il vento gli scompigliava i capelli e i baffoni sembravano arruffati. «Sono riuscito a convincere il capitano che non siete pazzi» annunciò. «Che fa parte dell’addestramento.» Afferrò lo straglio di trinchetto e lo scosse. «La tua stupida bravata di scivolare lungo la fune è servita, ma sei stato fortunato a non romperti l’osso del collo.»

Rand guardò lo straglio di trinchetto, su fino alla cima dell’albero maestro. Rimase a bocca aperta. Era scivolato lungo quella gomena. E si era seduto sulla cima del...

All’improvviso si vide lassù, a braccia e gambe spalancate. Si sedette di colpo e rischiò di finire a gambe levate. Thom lo guardava, pensieroso.

«Non soffri certo di vertigini, ragazzo. Potremo tenere spettacolo a Illian, a Ebou Dar, perfino a Tear. Nelle grandi città del meridione alla gente piacciono gli equilibristi che camminano sopra una fune tesa o un cavo allentato.»

«Noi andiamo a...» All’ultimo minuto ricordò di controllare se qualcuno ascoltava. Diversi marinai li guardavano, compreso Gelb, torvo come al solito, ma nessuno era a portata d’orecchio. «A Tar Valon» concluse. Mat scrollò le spalle, come se per lui una destinazione valesse l’altra.

«Per il momento, ragazzo» disse Thom, sedendosi accanto a lui. «Ma domani... chissà. Questa è la vita dei menestrelli.» Dalle maniche tirò fuori una manciata di palle colorate. Visto che sei sceso dall’aria, proveremo il gioco delle tre palle.

Rand lasciò vagare lo sguardo verso la cima dell’albero maestro e represse un brivido. Cosa gli era preso? Doveva scoprirlo. E doveva giungere a Tar Valon, prima d’impazzire sul serio.

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