Perrin s’irritò per i giorni trascorsi con i Tuatha’an a viaggiare ad andatura moderata tra meridione e levante. I Girovaghi non vedevano necessità d’affrettarsi. I carrozzoni colorati non si mettevano in movimento finché il sole non era alto e si fermavano anche a metà pomeriggio, se trovavano il posto adatto. I cani correvano agevolmente accanto ai carrozzoni, imitati spesso dai bambini. Ogni suggerimento a proseguire o ad andare più in fretta otteneva una risata o anche una frase del tipo: Ah, ma vorresti sfiancare quei poveri cavalli?
Perrin era sorpreso che Elyas non la pensasse come lui. Elyas non viaggiava sui carrozzoni, preferiva andare a piedi e a volte precedeva la colonna, ma non propose mai di lasciare i Tuatha’an, né di fare tappe più lunghe.
Quel bizzarro individuo barbuto e vestito di pelli era così diverso dai placidi Tuatha’an che risaltava dovunque andasse tra i carrozzoni. Anche dalla parte opposta dell’accampamento era impossibile scambiare Elyas per un Girovago, e non solo per i vestiti. Elyas si muoveva con l’indolente agilità d’un lupo, sottolineata dagli abiti e dal copricapo di pelliccia, e irradiava pericolo come il fuoco irradia calore; il contrasto con i Tuatha’an era assai netto. Giovani e vecchi, i Tuatha’an erano gente allegra. Non c’era senso di minaccia, nei loro movimenti, solo gioia. I bambini correvano da tutte le parti per il puro piacere di muoversi, certo, ma gli anziani dalla barba bianca e le nonnette camminavano ancora con agilità, in una sorta di danza maestosa ma non meno esuberante. Tutti i Girovaghi sembravano sempre sul punto di ballare, anche quando stavano fermi, anche nelle rare volte in cui nell’accampamento non c’era musica. Violini e flauti, dulcimeri e cetre e tamburelli tessevano intorno ai carrozzoni armonie e contrappunti a qualsiasi ora, in viaggio e durante le soste. Canti allegri, canti gioiosi, canti buffi, canti tristi: se qualcuno era sveglio, di solito nel campo c’era anche musica.
Elyas riceveva cenni di saluto e sorrisi da ogni carrozzone, parole allegre da ogni fuoco. Certo, questo era l’aspetto che i Girovaghi mostravano sempre agli estranei. Facce aperte, sorridenti. Ma Perrin aveva imparato che sotto quella patina c’era la diffidenza del cervo selvatico. C’era qualcosa di profondo, sotto i sorrisi rivolti ai due di Emond’s Field, qualcosa che si domandava se erano sicuri, qualcosa che si era affievolito solo un poco, col trascorrere dei giorni. Nei confronti di Elyas la cautela era maggiore, come il forte calore estivo che tremolava nell’aria e non svaniva. Quando Elyas non guardava, i Tuatha’an lo fissavano apertamente, come se fossero insicuri delle sue prossime azioni. Quando attraversava l’accampamento, i piedi pronti a ballare parevano anche pronti a fuggire.
Né d’altra parte Elyas era più a suo agio con la loro Via della Foglia di quanto i Tuatha’an non fossero col suo sistema di vita. Aveva sempre una smorfia sulle labbra, quando aveva intorno Girovaghi. Una smorfia non proprio di condiscendenza e certo non di disprezzo; ma dava l’impressione che Elyas avrebbe preferito essere altrove, da qualsiasi parte, anziché lì. Eppure, ogni volta che Perrin parlava di andare via, Elyas lo consolava dicendo che bisognava restare, solo qualche giorno ancora.
«Avete avuto giorni duri, prima d’incontrare me» disse Elyas, la terza o quarta volta che Perrin gli domandò. «E altri più duri vi aspettano, con Trolloc e Mezzi Uomini a darvi la caccia e le Aes Sedai per amiche.» Sogghignò, con la bocca piena di torta di mele preparata da Ila. Perrin trovava ancora sconcertanti i suoi occhi gialli, anche quando Elyas sorrideva. Forse ancora di più, se sorrideva: il sorriso non arrivava mai a quegli occhi da cacciatore. Elyas era sdraiato accanto al fuoco di Raen, rifiutando come al solito di sedersi sui tronchi sistemati a questo scopo. «Non avere tanta fretta di metterti da solo nelle mani delle Aes Sedai.»
«E se i Fade ci trovano? Cosa glielo impedisce, visto che ce ne stiamo seduti in attesa? Tre lupi non possono tenerli a bada e i Girovaghi non ci saranno di nessun aiuto. Non difenderanno neppure se stessi. I Trolloc li macelleranno e sarà colpa nostra. In ogni caso, prima o poi dovremo lasciarli. Tanto vale farlo prima»
«Qualcosa mi dice di aspettare. Solo qualche giorno.»
«Qualcosa!»
«Tranquillo, ragazzo. Prendi la vita come viene. Scappa quando è ora, combatti all’occorrenza, riposa quando puoi.»
«Cosa significa, qualcosa?»
«Mangia una fetta di torta. Ila non mi ha in simpatia, ma certo mi tratta bene, quando sono in visita. C’è sempre del buon cibo negli accampamenti dei Girovaghi.»
«Quale “qualcosa"? Se sai cose che ci tieni nascoste...»
Elyas guardò, accigliato, la fetta di torta; la posò e si pulì le dita. «Qualcosa» dichiarò infine, con una scrollata di spalle, come se neppure lui capisse bene. «Qualcosa mi dice che è importante aspettare. Ancora qualche giorno. Non ho spesso sensazioni del genere, ma quando mi succede, ho imparato a fidarmene. In passato mi hanno salvato la vita. Stavolta è diverso, ma è importante. Senza ombra di dubbio. Se vuoi riprendere a scappare, scappa. Io no.»
E non diceva altro, per quante volte Perrin domandasse. Se ne stava sdraiato, parlava con Raen, si rimpinzava, dormicchiava col berretto sugli occhi, si rifiutava di parlare di congedo. Qualcosa gli diceva d’aspettare. Qualcosa gli diceva che era importante. Avrebbe saputo quand’era il momento di partire. Prendi una fetta di torta, ragazzo. Non ti agitare. Assaggia questo stufato. Stai tranquillo.
Perrin non riusciva a stare tranquillo. Di sera girava, preoccupato, fra i carrozzoni variopinti, più che altro perché nessuno pareva trovare motivo di preoccupazione. I Tuatha’an cantavano e ballavano, cucinavano e cenavano intorno ai fuochi — frutta e noci, bacche e verdure: niente carne — e si occupavano di mille faccende domestiche come se non avessero nessuna preoccupazione al mondo. I bambini correvano, giocavano a nascondino fra i carrozzoni, si arrampicavano sugli alberi intorno al campo, ridevano e si rotolavano per terra insieme con i cani. Nessuna preoccupazione al mondo, per nessuno.
Guardandoli, Perrin si sentiva prudere dalla voglia di andare via. Prima di attirare su quella gente i cacciatori. I Girovaghi li avevano accolti con amicizia e loro ripagavano tanta gentilezza mettendoli in pericolo. I Girovaghi, almeno, avevano ragione d’essere spensierati. Nessuno li inseguiva. Ma loro due...
Era difficile scambiare qualche parola con Egwene. O parlava con Ila, testa a testa, in un modo che lasciava chiaramente intendere che gli uomini non erano benvenuti, oppure ballava con Aram, volteggiando alla musica dei flauti e dei violini e dei tamburelli, alle musiche che i Tuatha’an avevano raccolto in tutto il mondo. I Girovaghi conoscevano molte canzoni: Perrin ne riconobbe alcune, anche se spesso avevano un titolo diverso. “Tre ragazze nel prato", per esempio, i Calderai la chiamavano “Belle ragazze danzanti"; e dicevano che “Il vento del settentrione” si chiamava “Cade la fitta pioggia” in alcuni paesi e “Il rifugio di Berin” in altri. Quando chiese, senza pensarci, di ascoltare “Il calderaio ha le mie pentole", si tennero la pancia dalle risate. La conoscevano, ma col titolo “Scuoti le piume".
Solo la seconda sera Perrin vide delle donne ballare al ritmo delle canzoni lente. I fuochi cominciavano a spegnersi, la notte si stringeva intorno ai carrozzoni e le dita battevano sui tamburelli un ritmo lento. Prima un tamburello, poi un altro, finché tutti i tamburelli del campo tennero lo stesso ritmo basso e insistente. Non c’era altra musica. Una ragazza in veste rossa cominciò a ondeggiare nel cerchio di luce, allentandosi lo scialle. Aveva fra i capelli fili di perline e si era tolta le scarpe. Il basso lamento d’un flauto iniziò la melodia. La ragazza cominciò a muovere i fianchi: a braccia tese, allargò dietro di sé lo scialle e con i piedi seguì il ritmo dei tamburelli. Fissò Perrin, con un sorriso lento quanto la danza. Descrisse piccoli cerchi e continuò a sorridergli da sopra la spalla.
Perrin deglutì con forza. Si sentiva accaldato in viso, ma non per il fuoco. Un’altra ragazza si unì alla prima: la frangia degli scialli si agitava a tempo con i tamburelli e con il lento ondeggiare dei fianchi. Tutt’e due sorrisero a Perrin: lui si schiarì la gola, ma non osava guardarsi intorno; era rosso come un peperone e avrebbe giurato che chi non guardava le ballerine, di sicuro rideva di lui.
Con la massima noncuranza si lasciò scivolare dal tronco, come se volesse solo mettersi comodo, e distolse lo sguardo dal fuoco e dalle ballerine. Non c’era niente del genere, a Emond’s Field. Ballare con le ragazze, nei giorni di festa, al Parco, non era nemmeno paragonabile a questa esperienza. Una volta tanto Perrin si augurò che il vento aumentasse e gli facesse sbollire gli ardenti spiriti.
Le ragazze entrarono di nuovo nel suo campo visivo, e stavolta erano tre. Una gli strizzò l’occhio maliziosamente. Perrin non seppe più dove guardare.
Le ragazze risero piano e Perrin divenne ancora più rosso. Poi un’altra, di qualche anno più anziana, si unì alle tre per dare dimostrazione. Con un gemito, Perrin cedette del tutto e chiuse gli occhi. Ma le risate continuavano a stuzzicarlo. Aveva la fronte imperlate di sudore. Almeno si fosse alzato un po’ di vento!
Secondo Raen, le ragazze non danzavano spesso quel ballo, e le donne quasi mai; secondo Elyas, fu proprio perché Perrin arrossiva, che lo danzarono tutte le sere, da quella in poi.
«Devo ringraziarti» gli disse Elyas, in tono solenne. «Per voi giovani è diverso, ma alla mia età ci va più d’un fuoco, per scaldare le ossa.» Perrin si accigliò: qualcosa, in Elyas, gli diceva che tra sé stava ridendo.
Ben presto Perrin imparò a non distogliere lo sguardo dalle ragazze che ballavano, nonostante gli ammiccamenti e i sorrisini. Una, forse, l’avrebbe sopportata; ma cinque o sei, mentre tutti guardavano... Non riuscì mai a vincere del tutto il rossore.
Poi Egwene cominciò a imparare quel ballo. Due delle ragazze glielo insegnarono, battendo a tempo le mani, mentre lei ripeteva i passi, agitando dietro la schiena uno scialle preso in prestito. Perrin aprì la bocca per dire qualcosa, poi decise che era meglio farne a meno. Quando le ragazze arrivarono al movimento dei fianchi, Egwene iniziò a ridere e tutt’e tre si abbracciarono sghignazzando scioccamente. Ma Egwene perseverò, con occhi scintillanti e guance arrossate.
Aram la osservò ballare, con aria famelica. Le aveva regalato una collana di perline azzurre, che Egwene portava sempre. Adesso rughe di preoccupazione avevano sostituito i sorrisi con cui Ila guardava l’interesse del nipote per Egwene. Perrin decise di tenere d’occhio il giovane Aram.
Una volta riuscì a trovarsi faccia a faccia con Egwene, accanto a un carrozzone dipinto di verde e di giallo. «Ti diverti, eh?» le disse.
«Perché no?» Giocherellò con la collana di perline azzurre e sorrise. «Vuoi che tutti abbiano la tua aria sconsolata? Non c’è niente di male, in un po’ di divertimento.»
Aram era fermo non molto lontano... ronzava sempre intorno a Egwene. Teneva le braccia conserte e aveva un sorrisino metà di soddisfazione e metà di sfida. Perrin abbassò la voce. «Credevo che volessi andare a Tar Valon. Qui non imparerai a diventare Aes Sedai.»
Egwene agitò la testa. «E io credevo che questo non ti piacesse» replicò, con dolcezza eccessiva.
«Sangue e ceneri, credi che qui siamo al sicuro? Che questa gente non corra rischi, per la nostra presenza? Un Fade potrebbe trovarci da un momento all’altro.»
Le mani di Egwene tremarono sulle perline. La ragazza abbassò le mani e trasse un sospiro profondo. «Quel che deve accadere, accadrà; sia che ce ne andiamo oggi stesso, sia che aspettiamo la prossima settimana. Ecco come la penso. Cerca di divertirti, Perrin. Potrebbe essere la nostra ultima possibilità.»
Con aria triste, gli accarezzò la guancia. Poi Aram le tese la mano e Egwene si affrettò a raggiungerlo, ridendo di nuovo. Mentre correvano verso i violini, Aram rivolse a Perrin un sorriso di trionfo, girando solo la testa, come per dire: non è tua, ma sarà mia.
Siamo vittime dell’incantesimo dei Girovaghi, pensò Perrin. Elyas ha ragione. Non hanno bisogno di convertirci alla Via della Foglia: s’infiltra da sola dentro di noi.
Ila l’aveva visto stringersi nella braccia per il vento e gli portò un pesante mantello di lana... verde scuro, notò con piacere Perrin, dopo tutti quei rossi e quei gialli. Mentre se lo metteva sulle spalle, notando con stupore che il mantello era abbastanza ampio per uno della sua corporatura, Ila disse con tono cerimonioso: «Ti va bene, ma potrebbe andarti meglio.» Lanciò un’occhiata all’ascia appesa alla cintura e un’aria triste le velò il sorriso. «Potrebbe andarti molto meglio.»
Tutti i Calderai si comportavano in questo modo. Non perdevano mai il sorriso, non esitavano mai a invitarlo a bere un boccale o ascoltare la musica, ma con gli occhi sfioravano sempre l’ascia e Perrin intuiva il loro pensiero. Uno strumento di violenza. Non c’è mai scusa, per la violenza a un altro essere umano. La Via della Foglia.
A volte Perrin aveva voglia di gridare loro che c’erano Trolloc, nei boschi, e Fade. Creature che avrebbero tagliato ogni foglia. Là fuori c’era il Tenebroso: la Via della Foglia sarebbe bruciata, sotto lo sguardo di Ba’alzamon. Si ostinò a tenere l’ascia appesa alla cintura. Prese l’abitudine di tenere aperto il mantello, anche quando tirava vento, in modo che la lama a mezzaluna fosse sempre visibile. Di tanto in tanto Elyas guardava la pesante arma e sogghignava: i suoi occhi gialli sembravano leggere nella mente di Perrin e lo inducevano quasi a coprire l’ascia. Quasi.
Se il campo dei Tuatha’an era una fonte d’irritazione continua, almeno lì Perrin faceva sogni normali. A volte si svegliava, tutto sudato, da un incubo in cui Trolloc e Fade invadevano l’accampamento, incendiavano i carrozzoni multicolori, la gente cadeva in una pozza di sangue, uomini e donne e bambini correvano e gridavano e morivano, ma non facevano il minimo sforzo per difendersi dai colpi di scimitarra. Ogni notte scattava a sedere nel buio, ansimava e cercava di afferrare l’ascia, prima di capire che i carrozzoni non erano in fiamme, che nessuna sagoma alzava dai corpi massacrati il muso insanguinato e ringhiante. Ma quelli erano incubi ordinari e gli davano a modo loro un certo conforto. Sarebbero stati l’ideale, per il Tenebroso, eppure Ba’alzamon non vi compariva.
Però, da sveglio, Perrin era consapevole dei lupi. Si mantenevano a distanza dal campo e dalla carovana in movimento, ma erano sempre lì. Sentiva il loro disprezzo per i cani che facevano la guardia ai Tuatha’an, animali rumorosi che avevano dimenticato a che cosa servono le fauci, che avevano dimenticato il sapore del sangue caldo; potevano spaventare gli esseri umani, ma sarebbero fuggiti strisciando sulla pancia, se il branco si fosse presentato. Ogni giorno la consapevolezza di Perrin era più distinta, più chiara.
A ogni tramonto, Dapple diventava più impaziente: se Elyas voleva accompagnare a meridione i due umani, per lei andava bene, purché si sbrigasse e terminasse quel viaggio lentissimo. I lupi erano fatti per vagare e non le piaceva restare lontano dal branco per tanto tempo. Anche Wind era consumato dall’impazienza. In quel territorio la caccia dava scarsi frutti e a lui non piaceva vivere di topi di campo, cibo adatto agli anziani non più in grado di abbattere un cervo o di sgarrettare un bue selvatico. A volte Wind pensava che Burn avesse ragione: bisognava lasciare che gli esseri umani risolvessero da soli le proprie difficoltà. Ma ci andava cauto, con questi pensieri, se intorno c’era Dapple; e ancora di più se c’era Hopper. Hopper era un combattente segnato dalle cicatrici e dal pelo grigio, impassibile per la conoscenza che gli derivava dagli anni, con una scaltrezza che compensava qualsiasi cosa di cui l’età l’avesse derubato. Se ne fregava degli esseri umani, ma Dapple desiderava che questa storia terminasse e Hopper aspettava se lei aspettava, correva se lei correva. Lupo o uomo, toro o orso, qualsiasi cosa sfidasse Dapple avrebbe trovato le fauci di Hopper pronte a inviarlo al lungo sonno. Questa era tutta la vita, per Hopper, e rendeva cauto Wind; Dapple invece pareva non badare ai pensieri dei due maschi.
La situazione era chiara, nella mente di Perrin. Il ragazzo desiderava ardentemente Caemlyn, Moiraine, Tar Valon. Anche se non ci fossero state risposte, forse la storia si sarebbe conclusa. Elyas lo guardava e Perrin era sicuro che l’uomo dagli occhi gialli capiva.
I suoi sogni divennero più piacevoli. Era al tavolo di cucina di Alsbet Luhhan e con la cote affilava l’ascia. Comare Luhhan non permetteva che in casa si facessero lavori che assomigliassero anche lontanamente a quelli di fucina. Mastro Luhhan usciva addirittura di casa, se doveva affilare i coltelli. Ma nel sogno Alsbet badava ai fornelli e non faceva parola dell’ascia. Non disse niente neppure quando dalle stanze interne uscì un lupo che si distese fra Perrin e la porta sul cortile. Perrin continuò ad affilare la lama: presto avrebbe dovuto usarla.
All’improvviso il lupo si alzò con un ringhio basso e arruffò il pelo. Dal cortile Ba’alzamon entrò nella cucina. Comare Luhhan continuò le sue faccende.
Perrin si tirò in piedi e alzò l’ascia, ma Ba’alzamon non badò all’arma e si concentrò invece sul lupo. Fiamme danzarono dove dovevano esserci gli occhi. «Con questo ti proteggi? Bene, l’ho già affrontato. Molte volte.»
Piegò il dito; e il lupo ululò, mentre il fuoco gli sgorgava dagli occhi e dalle orecchie, dalle fauci e dalla pelle stessa. Il lezzo di carne bruciata riempì la cucina. Alsbet Luhhan sollevò il coperchio di una pentola e con un cucchiaio di legno rimestò il contenuto.
Perrin lasciò cadere l’ascia e cercò di spegnere le fiamme smanacciandole. Il lupo si ridusse a ceneri scure. Perrin fissò l’informe mucchietto carbonizzato sul pavimento pulito di comare Luhhan e arretrò. Avrebbe voluto togliersi dalle mani la fuliggine untuosa, ma il pensiero di pulirsi sui vestiti gli rivoltò lo stomaco. Afferrò l’ascia e serrò il manico fino a far scricchiolare le nocche.
«Lasciami in pace!» gridò. Comare Luhhan batté il cucchiaio contro il bordo della pentola e mise a posto il coperchio, canticchiando fra sé.
«Non puoi sfuggirmi» disse Ba’alzamon. «Non puoi nasconderti da me. Se sei quello, sei mio.» Il calore del fuoco nei suoi occhi costrinse Perrin ad arretrare nella cucina, fino a trovarsi con la schiena contro la parete. Comare Luhhan aprì il forno per controllare la cottura del pane. «L’Occhio del Mondo ti consumerà» disse Ba’alzamon. «Ti segno come mio!» Mosse il pugno come per scagliare qualcosa. Quando dischiuse le dita, un corvo si lanciò contro il viso di Perrin.
Perrin urlò, quando il becco nero gli trafisse l’occhio sinistro...
... e balzò a sedere, stringendosi il viso, circondato dai carrozzoni silenziosi dei Girovaghi. Lentamente abbassò le mani. Non sentiva dolore, non c’era sangue. Ma ricordava la sofferenza, la fitta acuta. A un tratto vide accanto a sé Elyas, accovacciato sui talloni, nella penombra che precede l’alba; protendeva la mano come per scuoterlo e svegliarlo. Al di là degli alberi i lupi ulularono: un solo ululato acuto, emesso da tre fauci. Perrin condivise le loro sensazioni. Fuoco. Dolore. Fuoco. Odio. Odio! Uccidi!
«Sì» disse piano Elyas «è tempo. In piedi, ragazzo. Ce ne andiamo.»
Perrin gettò da parte le coperte e si alzò. Mentre le arrotolava, Raen uscì dal carrozzone strofinandosi gli occhi, assonnato. Lanciò uno sguardo al cielo e si fermò di colpo sugli scalini. Mosse solo gli occhi, mentre scrutava il cielo, ma Perrin non capì che cosa guardasse. A oriente c’erano alcune nuvole già arrossate dal sole non ancora sorto, ma nient’altro. Raen pareva anche tendere l’orecchio e fiutare l’aria: l’unico rumore era quello del vento fra gli alberi; l’unico odore, quello di fumo, rimasto dai fuochi della sera precedente.
Elyas tornò portando con sé le poche cose che possedeva. Raen scese gli ultimi scalini. «Dobbiamo cambiare direzione di viaggio, amico mio.» Il Cercatore, turbato, diede ancora uno sguardo al cielo. «Oggi andiamo in un’altra direzione. Venite con noi?» Elyas scosse la testa; Raen annuì, come se l’avesse saputo. «Bene, stai attento, amico mio. Oggi c’è qualcosa, in giro... Penso che i carrozzoni andranno a levante. Forse fino alla Dorsale del Mondo. Forse troveremo uno stedding e ci fermeremo lì per un poco.»
«I guai non entrano negli stedding» convenne Elyas. «Ma gli Ogier non sono molto ospitali con gli estranei.»
«Tutti sono ospitali con i Girovaghi» ribatté Raen. Sorrise. «E poi, perfino gli Ogier hanno pentole e marmitte da aggiustare. Vieni, facciamo colazione e discutiamone.»
«Non c’è tempo. Partiamo anche noi. Al più presto possibile. È giorno di partenze, a quanto pare.»
Raen provò a convincerlo ad aspettare almeno d’avere fatto colazione; dal carro uscì Ila, seguita da Egwene; anche lei cercò di convincerlo, ma con meno forza del marito. Disse tutte le frasi appropriate, ma con una cortesia poco spontanea: era chiaro che avrebbe visto con piacere la partenza di Elyas, se non di Egwene.
Quest’ultima non notò le occhiate furtive, piene di rimpianto, che Ila le rivolse. Domandò che cosa era accaduto e Perrin si preparò a sentirsi dire che lei voleva restare con i Tuatha’an; ma quando Elyas spiegò che stavano per partire, Egwene si limitò ad annuire con aria pensierosa e tornò subito nel carrozzone a prendere le sue cose.
Alla fine Raen rinunciò. «D’accordo. Non ho mai permesso che un ospite lasciasse il campo senza un pranzo d’addio, ma...» Incerto, alzò di nuovo gli occhi al cielo. «Be’, anche per noi è meglio partire di buon’ora, penso. Mangeremo strada facendo. Ma almeno lascia che tutti vi salutino.»
Elyas cominciò a protestare, ma Raen già passava da un carrozzone all’altro e bussava alla porta per svegliare chi dormiva ancora. Quando un Calderaio condusse per la briglia Bela, erano usciti tutti, nel loro abito migliore: una massa di colori sgargianti che faceva sembrare quasi normali i rossi e gialli di Raen e di Ila. I grossi cani girarono tra la folla, con la lingua penzoloni, in cerca di carezze, mentre Perrin e gli altri si scambiavano abbracci e strette di mano. Le ragazze che avevano ballato per lui ogni sera non si accontentarono di una stretta di mano e i loro abbracci indussero Perrin a rimpiangere la partenza... finché non ricordò che tutti lo guardavano e allora diventò rosso come il carrozzone di Raen.
Aram prese Egwene un po’ in disparte. Perrin non udì che cosa aveva da dirle, ma lei continuò a scuotere la testa, prima lentamente, poi con forza, quando lui le rivolse gesti di supplica. L’espressione di Aram passò dalla supplica alla discussione, ma Egwene continuò a scuotere caparbiamente la testa, finché Ila non la tolse dall’imbarazzo rivolgendo al nipote qualche parola di rimprovero. Accigliato, Aram si allontanò tra la piccola folla, senza salutare gli altri. Ila esitò, sul punto di richiamarlo. “Anche lei pare sollevata” pensò Perrin. “Temeva che Aram venisse con noi... con Egwene."
Strinse almeno una volta la mano a tutti e abbracciò almeno due volte ogni ragazza; poi la piccola folla si ritrasse e lasciò un piccolo spazio intorno a Raen, Ila e i tre ospiti.
«Siete venuti in pace» disse formalmente Raen, con un inchino. «E ora partite in pace. I nostri fuochi vi accoglieranno sempre, in pace. La Via della Foglia è pace.»
«La pace vi accompagni sempre» rispose Elyas. «E accompagni tutti i Girovaghi.» Esitò, poi aggiunse: «Troverò il canto, o lo troverà un altro; ma il canto sarà cantato, quest’anno o l’anno a venire. Come era un tempo, così sarà di nuovo, mondo senza fine.»
Raen rimase sorpreso e Ila parve addirittura sbalordita, ma tutti gli altri Tuatha’an mormorarono in risposta: «Mondo senza fine. Mondo e tempo senza fine.» Raen e sua moglie si affrettarono a rispondere allo stesso modo.
E fu davvero il momento di partire. Gli ultimi addii, gli ultimi ammonimenti alla prudenza, gli ultimi sorrisi e strizzatine d’occhio, e lasciarono il campo. Raen li accompagnò al limitare degli alberi, con un paio di cani che gli saltellava al fianco.
«Davvero, amico mio, stai molto attento. Questo giorno... C’è il male, libero nel mondo. E per quanto tu finga, non sei così cattivo da non esserne ingoiato.»
«La pace sia con te» disse Elyas.
«E con voi» rispose Raen, in tono triste.
Quando Raen si fu allontanato, Elyas si accigliò nel vedere che gli altri due lo fissavano. «Tanto non ci credo, al loro sciocco canto» brontolò. «Ma era inutile addolorarli rovinando la cerimonia, no? Vi avevo detto che a volte attribuiscono molta importanza alle cerimonie.»
«Certo» disse piano Egwene. «Non sarebbe stato bello.» Elyas si girò, brontolando tra sé.
Dapple, Wind e Hopper vennero a fargli festa, non saltellando come i cani, ma con l’aria dignitosa di chi saluta un proprio pari. Perrin percepì i pensieri che si scambiavano. Occhi di fuoco. Dolore. Cuore zannuto. Morte. Cuore zannuto. Perrin capì che si riferivano al Tenebroso. Gli raccontavano il suo sogno. Il loro sogno.
Represse un brivido, mentre i lupi li precedevano allargandosi a ventaglio per esplorare il percorso. Toccava a Egwene cavalcare Bela e Perrin le camminò al fianco. Elyas, come al solito, apriva la strada a passo costante che divorava le miglia,
Perrin non voleva pensare al sogno. Credeva che con i lupi sarebbero stati al sicuro.
Non completo. Accetta. Con tutto il cuore. Con tutta la mente. Ancora ti opponi. Solo completo quando accetti.
Perrin si sforzò di scacciare dalla mente i lupi e rimase sorpreso: non aveva creduto di riuscirci. Decise di non lasciarli più entrare.
Anche nei sogni?
Non fu sicuro che il pensiero fosse suo o loro.
Egwene portava ancora la collana di perline azzurre, regalo di Aram, e nei capelli aveva un rametto con minuscole foglie rosso vivo, dono anch’esso del giovane Tuatha’an. Aram aveva cercato di convincerla a restare con i Girovaghi, Perrin ne era certo. Ed era lieto che lei non avesse ceduto; ma avrebbe preferito che non accarezzasse con tanto amore le perline.
Alla fine disse: «Come mai passavi un mucchio di tempo a parlottare con Ila? Se non ballavi con quel gambelunghe, eri sempre lì con lei a confabulare di chissà quali segreti.»
«Ila mi consigliava su come essere donna» rispose Egwene, con aria assente. Perrin cominciò a ridere e non si accorse che lei gli scoccava un’occhiata torva e pericolosa.
«Consigli! A noi nessuno dice come essere uomini. Lo siamo e basta.»
«Forse è proprio questo il motivo per cui tu ci riesci così male.»
Elyas sghignazzò rumorosamente.