9 Racconti della Ruota

Con il cuore che gli batteva forte mentre correva, Rand guardò, disperato, le montagne brulle che lo circondavano. Quello non era soltanto un luogo dove la primavera tardava: lì non sarebbe mai giunta. Niente cresceva nel terriccio freddo che gli scricchiolava sotto gli stivali, nemmeno uri ciuffo di licheni. Rand oltrepassò massi alti il doppio di lui: la polvere velava la roccia come se non fosse mai stata toccata da goccia d’acqua. Il sole era una palla rosso sangue, più ardente che nel giorno più caldo d’estate e tanto vivida da fargli bruciare gli occhi, ma si stagliava contro un cielo plumbeo dove nuvole nere e argentee ribollivano all’orizzonte. Eppure non un filo d’aria si muoveva sul territorio e, nonostante il sole imbronciato, l’aria era gelida come nel cuore dell’inverno.

Rand si guardava spesso alle spalle, mentre correva, ma non riusciva a scorgere gli inseguitori. Solo colline brulle e montagne nere e accidentate, parecchie delle quali erano sormontate da alti pennacchi di fumo nero che si univano alle nubi in movimento. Se non scorgeva gli inseguitori, però ne udiva il rumore: ululati, voci gutturali che gridavano per il piacere della caccia e del sangue che fra poco sarebbe sgorgato. Trolloc. Che si avvicinavano, mentre lui aveva quasi esaurito le forze.

Rand si arrampicò disperatamente su di una cresta affilata e con un gemito cadde sulle ginocchia. Sotto di lui c’era una ripida parete di roccia, uno strapiombo di mille piedi che sprofondava in un ampio canalone. La nebbia velava il fondo e si frangeva in ondate sinistre contro la parete, ma più lentamente delle onde d’un oceano. Per un istante, chiazze di nebbia brillarono di rosso, come se grandi fuochi fossero divampati all’improvviso. Il tuono rombò nelle profondità della valle e il fulmine saettò nel grigiore.

Non era la vallata in sé a prosciugare Rand d’ogni forza e a fargli perdere ogni speranza. In mezzo ai vapori turbinanti spuntava un monte, più alto delle Montagne di Nebbia, nero come la disperazione. La brulla guglia di pietra, un pugnale che colpiva il cielo, era l’origine della sua afflizione. Non l’aveva mai visto, ma lo riconobbe, anche se il ricordo scivolava come argento vivo, quando lui cercava d’afferrarlo.

Dita invisibili lo sfiorarono, gli tirarono gambe e braccia, cercarono di attirarlo al monte. Il corpo gli si contorse, pronto a ubbidire. Le braccia e le gambe si irrigidirono come se lui potesse conficcare nella roccia le dita delle mani e dei piedi. Fili spettrali gli circondarono il cuore, lo tirarono, lo chiamarono alla guglia. Gli parve che la volontà colasse via da lui come acqua da un cesto di vimini. Ancora un istante, e avrebbe ubbidito, sarebbe andato dove lo chiamavano. A un tratto scoprì un’altra emozione: la collera. Spingi qui, tira là... non era una pecora sulla porta del recinto. La collera si rapprese in un nodo durissimo e lui vi si afferrò come a una zattera durante un’inondazione.

Servimi, gli bisbigliò una voce nel silenzio della mente. Una voce nota. Se l’avesse ascoltata con attenzione, l’avrebbe certamente riconosciuta. Servimi. Scosse la testa per liberarsi di quella voce. Servimi! Agitò i pugni contro la montagna nera. «La Luce ti consumi, Shai’tan!» gridò.

All’improvviso attorno a lui s’infittì il lezzo di morte. Una sagoma si stagliò su di lui, in un mantello del colore del sangue rappreso, una sagoma con una faccia... Non volle guardare il viso che lo fissava dall’alto. Non volle pensarci, gli faceva male, gli cambiava il cervello in braci. Una mano si tese verso di lui. Doveva allontanarsi. Si ritrasse di scatto. Precipitò nell’abisso, agitò le braccia, volle urlare, non trovò il fiato.

All’improvviso non era più in quelle terre desolate, non cadeva più. Calpestava erba resa marrone dall’inverno, simile a un tappeto di fiori. Quasi scoppiò a ridere, nel vedere che alberi sparsi e arbusti, per quanto spogli, punteggiavano la piana leggermente ondulata che ora lo circondava. In lontananza si ergeva una singola montagna, con la vetta tronca e spaccata in due; ma questa montagna non gli provocava né paura né disperazione. Era una semplice montagna, per quanto sembrasse fuori posto, lì, da sola.

Ai suoi piedi scorreva un ampio fiume; sull’isola in mezzo al fiume c’era una città circondata da alte mura che risplendevano di bianco e d’argento sotto il sole caldo. Con un misto di sollievo e di gioia lui si diresse a queste mura, perché in qualche modo sapeva che dietro di esse avrebbe trovato salvezza e serenità.

Avvicinandosi, distinse torri altissime, collegate da fantastiche passerelle protese nel vuoto. Dalle rive, alti ponti scavalcavano il fiume e raggiungevano la città isola. Anche da lontano scorgeva le opere murarie in pietra traforata delle arcate, all’apparenza troppo fragili per resistere alla rapida corrente. Al di là di quei ponti c’era la salvezza. Asilo.

A un tratto un brivido gli percorse le ossa, un velo viscido e gelido gli coprì la pelle e l’aria divenne umida e fetida. Senza guardarsi alle spalle, si mise a correre, per sfuggire all’inseguitore le cui dita gelide gli sfioravano la schiena e gli tiravano il mantello: quell’essere che divorava la luce, con la faccia che... Non riusciva a ricordarne la faccia, se non come terrore. E non voleva ricordarla. Proseguì di corsa, mentre il terreno gli volava sotto i piedi, alture ondulate e piana monotona... e avrebbe voluto ululare come un cane impazzito. La città si allontanava da lui. Più correva, più rimpicciolivano le mura scintillanti e il rifugio. Alla fine furono solo un puntino all’orizzonte. La gelida mano dell’inseguitore lo afferrò per il colletto. Se quelle dita l’avessero toccato, lui sarebbe impazzito. O peggio. Nello stesso istante in cui se ne rendeva conto, inciampò e cadde.

«Noooo!» urlò.

E mandò un grugnito, perché l’urto sulle pietre del lastrico gli aveva tolto il fiato. Sorpreso, si rialzò. Era nelle vicinanze di uno dei fantastici ponti. Persone sorridenti lo sorpassavano, vestite in tanti di quei colori da far pensare a un campo di fiori selvatici. Alcune gli parlarono, ma lui non capì le parole, anche se gli pareva di conoscerle. Ma le facce erano amichevoli e la gente gli indicò di procedere, sopra il ponte di pietra traforata, verso le lucenti mura striate d’argento, verso le torri più in là. Verso la salvezza.

Si unì alla folla che percorreva il ponte e varcò le massicce porte della città, poste nelle mura alte e perfette. All’interno tutto era meraviglioso, l’edificio più misero pareva un palazzo. Come se i costruttori avessero ricevuto l’ordine di prendere pietra, mattoni, piastrelle, e creare bellezza da togliere il fiato ai mortali. Non c’era edificio né monumento che non lo lasciasse a occhi sgranati. La musica aleggiava nelle vie, centinaia di canti diversi che si fondevano con il clamore della folla e formavano un’unica armonia di gioia. La fragranza di profumi dolci e di spezie pungenti, di cibi meravigliosi e di miriadi di fiori, aleggiava nell’aria, come se ogni buon profumo della terra fosse lì raccolto.

La via da cui era entrato in città, ampia e lastricata di pietra liscia e grigia, si estendeva dritta davanti a lui, verso il centro; all’estremità si stagliava una torre più larga e alta di tutte, candida come neve appena caduta. In quella torre c’erano la salvezza e la conoscenza che cercava. Ma la città era uno spettacolo che mai aveva sognato d’ammirare. Certo non importava, se avesse tardato un poco nel recarsi alla torre. Svoltò in una via più stretta, dove giocolieri camminavano fra venditori ambulanti di frutti bizzarri.

Più avanti, in fondo alla via, c’era una torre candida come neve. La stessa torre. Solo un momento, si disse, e girò un altro angolo. Anche all’estremità di questa via c’era la torre bianca. Testardo, girò ancora un angolo, e un altro, e ogni volta vide la torre d’alabastro. Girò di scatto per allontanarsi dalla torre... e si bloccò. Davanti a lui, la torre bianca. Non osò guardarsi indietro, per paura di scoprirla anche lì.

Tutt’intorno le facce erano ancora amichevoli, ma gli occhi erano pieni di speranza infranta, per colpa sua. A gesti ora supplichevoli la gente lo invitava ancora a procedere. Verso la torre. Gli occhi mostravano una richiesta disperata che solo lui poteva esaudire. Solo lui poteva salvare quelle persone.

"E va bene” si disse. La torre, in fin dei conti, era il luogo dove voleva recarsi.

Appena mosse il primo passo, la delusione scomparve dalla faccia di quelli che lo circondavano e ricomparve il sorriso. La gente si mosse con lui e i bambini lanciarono petali davanti ai suoi piedi. Confuso, si guardò indietro, chiedendosi per chi fossero quei fiori, ma alle sue spalle c’era solo altra folla in movimento che lo invitava a procedere. “Sono certamente per me” si disse, stupito solo per un attimo di un comportamento che all’improvviso gli parve normale.

Un poco alla volta, la gente iniziò a cantare, finché ogni voce si levò in un coro glorioso. Lui continuava a non capire le parole, ma l’armonia parlava di gioia e di salvezza. Musicanti saltellavano tra la folla e aggiungevano all’inno la musica di flauti, arpe, tamburi d’ogni forma e dimensione. Ragazze danzavano intorno a lui, gli mettevano al collo ghirlande di fiori profumati, gli sorridevano e diventavano più allegre a ogni suo passo. Lui non poteva non rispondere ai sorrisi. Aveva voglia di unirsi a loro nella danza e subito si ritrovò a danzare, seguendo le figure come se le conoscesse dalla nascita. Gettò indietro la testa e rise: non aveva mai danzato con tanta leggerezza, quando ballava con... Non riuscì a ricordare il nome, ma non gli parve importante.

È il tuo destino, gli bisbigliò una voce nella testa; e il bisbiglio era un filo del canto di gioia.

Trasportandolo come rametto sulla cresta dell’onda, la folla si riversò in una vasta piazza nel centro della città e per la prima volta lui vide che la torre bianca si alzava da un grande palazzo di marmo chiaro, scolpito più che edificato, con mura ricurve, cupole rigonfie, guglie delicate che toccavano il cielo. Rimase a bocca aperta, colto da stupore reverenziale. Un’ampia scalinata di pietra portava al palazzo; la folla si fermò ai piedi della scalinata, ma il canto crebbe d’intensità. Le voci incoraggiarono i suoi passi. Il tuo destino, bisbigliò la voce, ora insistente, ansiosa.

Lui non danzava più, ma neppure si fermò. Senza esitazione salì i gradini. Apparteneva a quel luogo.

I massicci battenti in cima alla scalinata erano coperti di volute ornamentali, intagli così complessi e delicati che lui non riusciva a immaginare una lama tanto sottile per eseguirli. I battenti si spalancarono e lui entrò. I battenti si chiusero alle sue spalle, con uno schianto che echeggiò come tuono.

«Ti aspettavamo» sibilò il Myrddraal.

Rand si rizzò a sedere, ansimante, scosso da brividi, con lo sguardo fisso. Tam continuava a dormire. Nel camino, sopra un bel letto di braci, i ceppi erano per metà consumati; qualcuno era entrato a curare il fuoco, mentre Rand dormiva. La barella di fortuna non c’era più; il mantello di Tam e il suo erano appesi accanto all’uscio.

Con mano incerta Rand si asciugò il sudore freddo; si domandò se nominare in sogno il Tenebroso ne richiamasse l’attenzione come nominandolo ad alta voce.

Il crepuscolo rabbuiava la finestra; la luna era alta, tonda e grassa, e le stelle della sera brillavano sopra le Montagne di Nebbia. Rand aveva dormito per tutto il giorno. Si massaggiò il fianco indolenzito a causa dell’elsa contro le costole. Lo stomaco vuoto e gli eventi della notte bastavano a giustificare l’incubo.

Lo stomaco gli brontolava. Rand si alzò, irrigidito, e andò al tavolo dove comare al’Vere aveva lasciato il vassoio. Scostò il tovagliolo: il brodo e il pane croccante erano caldi. Evidentemente comare al’Vere aveva sostituito il vassoio; se decideva che avevi bisogno di un pasto caldo, non era tranquilla finché non l’avevi mangiato.

Rand bevve un po’ di brodo, mise carne e formaggio fra due pezzi di pane e cominciò a mangiare a grandi bocconi. Si accostò al letto.

Comare al’Vere aveva pensato anche a Tam: gli aveva rimboccato le coperte e pulito i vestiti, ora ben piegati sul comodino. Quando Rand gli toccò la fronte, Tam aprì gli occhi.

«Ah, eccoti qui, figliolo. Marin mi aveva detto che c’eri, ma non sono riuscito nemmeno a mettermi a sedere per darti un’occhiata. Ha detto che eri stanco e che non ti avrebbe svegliato. Nemmeno Bran riesce a farle cambiare idea, quando ha preso una decisione.»

La voce di Tam era debole, ma lo sguardo era limpido e fermo. L’Aes Sedai aveva ragione, pensò Rand. Con il riposo sarebbe tornato quello di prima.

«Ti porto da mangiare? Comare al’Vere ha lasciato un vassoio pieno.»

«Me ne ha già dato... per così dire. Solo brodino. Come fa, un uomo, a evitare i brutti sogni se nella pancia ha solo brodo?» Tam allungò la mano e toccò la spada alla cintola di Rand. «Allora non era un sogno. Quando Marin mi ha detto che ero ammalato, ho pensato... Ma tu stai bene. Conta solo questo. E la fattoria?»

«I Trolloc hanno ucciso le pecore. Credo che abbiano preso anche la mucca e la casa ha bisogno di una buona pulizia.» Sorrise debolmente. «Abbiamo avuto più fortuna di altri. I Trolloc hanno incendiato mezzo villaggio.»

Raccontò a Tam quasi tutto l’accaduto. Tam ascoltò attentamente e gli rivolse domande acute; Rand fu costretto a dirgli d’essere tornato alla fattoria e d’avere ucciso un Trolloc; e gli disse pure che secondo Nynaeve lui sarebbe morto, per spiegare come mai a curarlo era stata una Aes Sedai anziché la Sapiente. Tam spalancò gli occhi, nell’udire che a Emond’s Field c’era una Aes Sedai. Ma Rand non vide la necessità di raccontargli le traversie per tornare al villaggio, né le proprie paure, né la presenza del Myrddraal lungo la strada. E certo non l’incubo che aveva appena avuto. Né, soprattutto, i vaneggiamenti di Tam durante la febbre. Ma non aveva modo di tenere per sé la storia di Moiraine.

«Un racconto da rendere orgoglioso un menestrello» brontolò Tam, quando Rand terminò. «Cosa vorranno i Trolloc da voi ragazzi? O il Tenebroso?»

«Credi che Moiraine mi abbia mentito? Mastro al’Vere ha confermato che i Trolloc hanno assalito solo due fattorie. E incendiato la casa di mastro Luhhan e di mastro Cauthon.»

Per un momento Tam rimase in silenzio. Poi disse: «Riferiscimi le parole di Moiraine. Le parole esatte.»

Rand si strinse nelle spalle. Mai nessuno ricordava le parole esatte! Si morsicò il labbro e si grattò la testa; a poco a poco le ricostruì come le ricordava. «Non mi viene in mente altro» terminò. «Non sono sicuro che siano proprie le sue parole, ma il senso è esatto.»

«Va bene così, anche perché non c’è controprova. Vedi, figliolo, le Aes Sedai sono ingannatrici. Non dicono menzogne apertamente, ma la loro verità spesso non è quella che pensi. Stai attento, con lei.»

«Conosco le storie» replicò Rand. «Non sono un bambino.»

«No, non lo sei.» Tam sospirò, poi scrollò le spalle, irritato. «Dovrei accompagnarti lo stesso. Il mondo esterno è assai diverso dai Fiumi Gemelli e da Emond’s Field.»

C’era l’occasione per chiedere a Tam se aveva viaggiato fuori dei Fiumi Gemelli, ma Rand non la colse: rimase invece a bocca aperta. «Tutto qui? Non mi dici di restare? Credevo che avresti trovato cento motivi per non farmi andare via.» Capì in quel momento che aveva sperato davvero che ci fossero cento motivi per restare, e validi, anche.

«Cento forse no» sbuffò Tam «ma alcuni mi vengono in mente. Solo, non contano molto. Se i Trolloc ti danno la caccia, a Tar Valon sarai più al sicuro. Ma ricorda d’essere prudente. Le Aes Sedai non fanno niente, senza una ragione; e non sempre è quella che pensi.»

«Il menestrello mi ha detto più o meno la stessa cosa.»

«Allora ti ha parlato a ragion veduta. Tieni le orecchie tese, rifletti bene e frena la lingua. È un consiglio sempre valido, fuori dei Fiumi Gemelli, ma soprattutto nei confronti delle Aes Sedai. E dei Custodi. Se dici una cosa a Lan, è come se l’avessi detta a Moiraine. Se è un Custode, allora è legato a lei e non le nasconderà nulla.»

Rand sapeva poco del legame fra Aes Sedai e Custodi, anche se aveva parte importante in ogni storia. Era collegato al Potere, un dono al Custode o forse una sorta di scambio. I Custodi ottenevano ogni genere di benefici, a dar retta alle storie: guarivano più in fretta delle persone normali e resistevano più a lungo senza cibo, acqua, sonno. Si pensava che intuissero la presenza dei Trolloc e di altre creature del Tenebroso; questo spiegava come mai Lan e Moiraine avessero cercato di avvertire il villaggio prima dell’assalto. Sui benefici che le Aes Sedai ricavavano da quel legame, le storie tacevano; ma Rand era sicuro che qualcosa ricavassero anche loro.

«Sarò prudente» promise. «Mi piacerebbe solo sapere il perché. Non ha senso. Perché proprio io? Perché proprio noi?»

«Vorrei saperlo anch’io, figliolo. Sangue e ceneri, vorrei proprio saperlo.» Tam sospirò. «Be’, è inutile rimettere l’uovo nel guscio, una volta rotto. Quando parti? Fra un paio di giorni sarò in piedi e cercherò di procurarmi un nuovo gregge. Oren Dautry ha delle buone pecore di cui sarebbe disposto a liberarsi, vista la mancanza di pascoli, e anche Jon Thane.»

«Moiraine... l’Aes Sedai ha detto che devi restare a letto. Per alcune settimane. E ne ha parlato a comare al’Vere.»

«Oh. Be’, forse riuscirò a convincere Marin.» Ma non parve contarci molto. Rivolse a Rand un’occhiata penetrante. «Da come hai evitato di rispondere, significa che partirai presto. Domani? O stanotte?»

«Stanotte» disse Rand, piano.

Tam annuì, rattristato. «Già. Se non se ne può fare a meno, meglio non perdere tempo. Ma vedremo come andrà a finire, questa storia di “settimane".» Tormentò le coperte, irritato. «Forse tra qualche giorno ti seguirò comunque. Ti raggiungerò per strada. Vedremo se Marin riuscirà a tenermi a letto.»

Bussarono alla porta e Lan sporse la testa. «Saluta in fretta, pastore, e vieni via. Forse ci sono guai.»

«Guai?» ripeté Rand.

Il Custode brontolò d’impazienza. «Cerca solo di sbrigarti!»

Rand si affrettò a prendere il mantello e cominciò a sganciarsi il cinturone.

«Tienila» disse Tam. «Ne avrai bisogno più di me. Stai attento, figliolo. Hai sentito?»

Senza badare a Lan, Rand si chinò ad abbracciare il padre. «Tornerò, te lo prometto.»

«Certo che tornerai» rise Tam. Restituì debolmente l’abbraccio e diede a Rand un colpetto sulla schiena. «Lo so. E avrò il doppio di pecore, quando tornerai. Adesso vattene, prima che lui perda la pazienza.»

Rand tentò di trattenersi ancora, di trovare le parole per la domanda che voleva rivolgergli, ma Lan entrò a prenderlo per il braccio e lo tirò nel corridoio. Il Custode aveva indossato una veste verdegrigia, opaca, di scaglie metalliche sovrapposte. Parlò con voce rauca per l’irritazione.

«Dobbiamo sbrigarci. Non capisci cosa significa guai

Nel corridoio c’era Mat, con giubba e mantello, arco in mano e faretra appesa alla cintura. Spostava il peso del corpo da un piede all’altro e continuava a dare occhiate verso le scale, con espressione che pareva metà d’impazienza e metà di paura. «Non sembra affatto una storia, vero, Rand?» disse con voce rauca.

«Guai di che tipo?» domandò Rand; invece di rispondere, il Custode lo precedette di corsa, scendendo gli scalini a due a due. Mat si precipitò dietro di lui, rivolgendo a Rand il gesto di seguirli.

Rand indossò il mantello e li raggiunse ai piedi delle scale. Solo una debole luce illuminava la stanza comune: le candele erano per metà spente e per metà quasi consumate. Non c’era nessuno, a parte loro tre. Mat, fermo accanto alla finestra, scrutava fuori cercando di non farsi scorgere. Lan socchiuse la porta e osservò il cortile della locanda.

Incuriosito, Rand si avvicinò al Custode. Lan gli mormorò di fare attenzione, ma socchiuse maggiormente la porta per consentirgli di guardare fuori.

Sulle prime Rand non capì che cosa accadeva. Una folla di paesani, una trentina di uomini, era raccolta intorno ai resti bruciati del carro dell’ambulante; alcuni avevano torce che disperdevano il buio della notte. Moiraine li confrontava, spalle alla locanda, appoggiata con noncuranza al bastone. Hari Coplin era in prima fila, insieme col fratello Darl e con Bili Congar. C’era anche Cenn Buie, che sembrava a disagio. Rand vide con stupore che Hari agitava il pugno in direzione di Moiraine.

«Vattene da Emond’s Field!» gridò il contadino, torvo in viso. Qualche voce, tra la folla, riprese il grido, ma nessuno venne avanti. Forse erano disposti ad affrontare tutti insieme una Aes Sedai, ma nessuno voleva mettersi in evidenza. Soprattutto nei confronti di una Aes Sedai che aveva ogni ragione di risentirsi.

«Hai portato quei mostri!» ruggì Darl. Agitò in alto la torcia e ci furono altre grida: «Li hai portati tu!» e: «Tutta colpa tua!» orchestrate da suo cugino Bili.

Hari diede di gomito a Cenn Buie, che mise il broncio e gli lanciò un’occhiata astiosa. «Questi... questi Trolloc sono comparsi solo dopo il tuo arrivo» borbottò Cenn, con voce che si udì appena. Mosse la testa da una parte e dall’altra, come se rimpiangesse di trovarsi lì e cercasse il modo di svignarsela. «Sei una Aes Sedai. Non vogliamo gente della tua risma, nei Fiumi Gemelli. Le Aes Sedai portano guai. Se resti, ne arriveranno altri.»

Il discorsetto non suscitò reazione nei paesani e Hari s’infuriò. Strappò a Darl la torcia e l’agitò in direzione di Moiraine. «Vattene!» gridò. «O ti scacceremo col fuoco!»

Nell’improvviso silenzio si udì chiaramente lo strusciare di piedi di chi si ritraeva. La gente dei Fiumi Gemelli sapeva combattere, se assalita, ma non conosceva la violenza né le minacce. Cenn Buie, Bili Congar e i Coplin rimasero da soli in prima fila. Anche Bili aveva l’aria di volersi ritirare.

Hari trasalì alla mancanza di sostegno, ma si riprese subito. «Vattene!» gridò di nuovo, imitato da Darl e, più piano, da Bili. Lanciò agli altri un’occhiataccia. Nella folla, molti evitarono il suo sguardo.

A un tratto dal buio emersero Bran al’Vere e Haral Luhhan; si fermarono a breve distanza dall’Aes Sedai e dalla folla. Il sindaco reggeva con noncuranza la pesante mazza di legno che usava per piantare lo zipolo nei barili. «Qualcuno ha suggerito di bruciare la mia locanda?» disse a voce bassa.

I due Coplin arretrarono d’un passo, Cenn Buie si scostò da loro, Bili Congar si mescolò alla folla.

«Questo no» rispose in fretta Darl. «Noi non l’abbiamo detto, Bran... ah... sindaco.»

«Allora avete forse minacciato ospiti della mia locanda?»

«Quella è una Aes Sedai» cominciò Hari con rabbia, ma si bloccò, al gesto di Haral Luhhan.

Il fabbro si limitò a stiracchiarsi, sollevando le braccia sopra la testa e stringendo i pugni massicci fino a far scricchiolare le nocche; ma Hari lo guardò come se l’omaccione gli avesse agitato sotto il naso uno di quei pugni. Haral piegò le braccia sul petto. «Scusa, Hari, non volevo interromperti. Dicevi?»

Ma Hari, con le spalle ingobbite come se tentasse di ritrarsi in se stesso e scomparire, sembrava non avere più niente da dire.

«Mi meraviglio di voi» brontolò Bran. «Paet al’Caar, ieri notte tuo figlio si è rotto la gamba, ma oggi l’ho visto camminare... grazie a lei. Eward Candwin, eri disteso sulla pancia, con uno squarcio sulla schiena, come un pesce pronto a essere pulito, finché lei non ti ha curato. Se non sbaglio, adesso la cicatrice si vede appena. E tu, Cenn.» L’impagliatore cercò di ritrarsi maggiormente tra la folla, ma si fermò a disagio, bloccato dallo sguardo di Bran. «Sarei sconvolto nel vedere tra questa folla qualsiasi membro del Consiglio, ma te più d’ogni altro. Il braccio ti penderebbe ancora lungo il fianco, pieno di bruciature e di lividi, se non fosse per lei. Se non provi gratitudine, abbi almeno vergogna!»

Cenn sollevò quasi la destra, poi rabbiosamente scostò lo sguardo dalla mano. «Non posso negare quel che ha fatto» borbottò, e parve davvero vergognarsi. «Ha aiutato me e altri, ma è una Aes Sedai, Bran. Se quei Trolloc non sono venuti a causa sua, perché sono venuti? Non vogliamo avere a che fare con le Aes Sedai, nei Fiumi Gemelli. Tengano i loro guai lontano da noi.»

Alcuni, al sicuro tra la folla, si fecero sentire.

«Non vogliamo i guai delle Aes Sedai!»

«Mandala via!»

«Cacciala!»

«Perché sono venuti, se non per lei?»

Bran si accigliò, ma prima che potesse replicare, Moiraine alzò sopra la testa il bastone intagliato e lo fece girare in aria, reggendolo a due mani. L’ansito di Rand fu l’eco di quello dei paesani: dalle estremità del bastone sgorgò una fiamma bianca e sibilante. Perfino Bran e Haral si scostarono. Moiraine tese le braccia davanti a sé, con il bastone parallelo al terreno, ma le due lingue di fiamma continuarono a protendersi, più vivide delle torce. Gli uomini arretrarono schermandosi gli occhi da quel bagliore doloroso.

«Così si è ridotto il sangue di Aemon?» disse l’Aes Sedai, a voce bassa che però soffocò ogni altro suono. «Gentucola che si disputa il diritto di nascondersi come conigli selvatici? Avete dimenticato chi eravate, ma speravo che nel sangue e nelle ossa vi restasse almeno il ricordo. Un briciolo che vi desse forza per la lunga notte in arrivo.»

Nessuno parlò. I due Coplin avevano l’aspetto di chi non volesse più riaprire bocca.

«Dimenticato?» disse Bran. «Non siamo mai cambiati. Onesti contadini, pastori, artigiani. Gente dei Fiumi Gemelli.»

«A meridione» disse Moiraine «c’è il fiume che voi chiamate fiume Bianco; ma molto lontano da qui, a levante, gli uomini lo chiamano ancora col giusto nome. Manetherendrelle. Nella Lingua Antica, Acque della Montagna Patria. Acque scintillanti che un tempo scorrevano in una terra di coraggio e di bellezza. Duemila anni fa, il Manetherendrelle sfiorava le mura di una città montana così bella che i costruttori Ogier venivano a guardarla pieni di stupore. Fattorie e villaggi ricoprivano questa regione, e quella che chiamate la Foresta delle Ombre, e le terre più in là. Ma tutta questa gente si riteneva il popolo della Montagna Patria, il popolo di Manetheren.

«Il loro re era Aemon al Caar al Thorin, Aemon figlio di Caar figlio di Thorin, e Eldrene ay Elian ay Carlan era la regina. Aemon era un uomo che non conosceva la paura, tanto che, per fare a un coraggioso il migliore complimento, anche fra i suoi nemici si diceva che aveva il cuore di Aemon. Eldrene era così bella che si diceva che i fiori sbocciassero per farla sorridere. Coraggio e bellezza, sapienza e amore, che la morte non avrebbe separato. Piangete, se avete un cuore, per la loro perdita, per la perdita perfino del ricordo. Piangete, per la perdita del loro sangue.»

Moiraine tacque, ma nessuno parlò. Rand era prigioniero come gli altri dell’incantesimo da lei creato. Quando Moiraine riprese a parlare, Rand pendeva dalle sue labbra, come tutti gli altri.

«Per quasi due secoli le Guerre Trolloc avevano devastato il mondo in lungo e in largo; dovunque infuriassero le battaglie, lo stendardo con l’Aquila Rossa di Manetheren era in prima fila. Gli uomini di Manetheren erano una spina nel piede del Tenebroso e un rovo nella sua mano. Cantate di Manetheren, che non avrebbe mai piegato il ginocchio davanti all’Ombra. Cantate di Manetheren, la spada che non si sarebbe mai spezzata.

«Erano molto lontano, gli uomini di Manetheren, nel Campo di Bekkar, detto il Campo di Sangue, quando seppero che un esercito di Trolloc si muoveva contro la loro casa. Non potevano fare altro che aspettare la notizia della morte della propria terra, perché le forze del Tenebroso intendevano distruggerli tutti, uccidere la possente quercia tagliandone le radici. Potevano solo piangere. Ma erano gli uomini della Montagna Patria.

«Senza esitare, senza pensare alla distanza da percorrere, partirono dal campo della vittoria, ancora coperti di polvere, sudore, sangue. Giorno e notte marciarono, perché avevano visto l’orrore che un esercito di Trolloc si lasciava alle spalle e nessuno poteva dormire, quando un simile pericolo minacciava Manetheren. Procedettero come se avessero le ali ai piedi, fecero più strada di quanto gli amici si augurassero o i nemici temessero. In qualsiasi altro momento, quella marcia, da sola, avrebbe ispirato poeti. Quando gli eserciti del Tenebroso sciamarono sulle terre di Manetheren, gli uomini della Montagna Patria li affrontarono, con la schiena al Tarendrelle.

«L’esercito che confrontò gli uomini di Manetheren bastava ad atterrire il cuore più coraggioso. Corvi oscuravano il cielo; Trolloc oscuravano la terra. Trolloc e i loro alleati umani. Trolloc e Amici del Tenebroso, a decine e decine di migliaia, sotto il comando di Signori del Terrore. Di notte i fuochi da campo superarono in numero le stelle e l’alba rivelò in prima linea lo stendardo di Ba’alzamon. Ba’alzamon, Cuore delle Tenebre. Un antico nome del Padre delle Menzogne. Il Tenebroso era ancora incatenato nella prigione di Shayol Ghul, altrimenti neppure tutte le forze dell’umanità avrebbero potuto contrastarlo, ma lì c’era potere. Signori del Terrore; e una sorta di male che faceva sembrare appena giusto quello stendardo distruttore di luce e che mandava un brivido di gelo nell’anima degli uomini che lo confrontavano.

«Eppure costoro sapevano che cosa bisognava fare. La loro terra natale si trovava appena al di là del fiume. Quell’esercito e il potere che lo accompagnava dovevano essere tenuti lontano dalla Montagna Patria. Aemon aveva inviato messaggeri e ricevuto promesse di aiuti, se avessero resistito almeno tre giorni sulla sponda del Tarendrelle, contro forze che avrebbero dovuto spazzarli via nella prima ora. Eppure, con sanguinosi assalti e difese disperate, resistettero per la prima ora e per la seconda e per le successive. Tre giorni combatterono e, anche se il terreno divenne simile a un mattatoio, non permisero la traversata del Tarendrelle. Ma la terza notte non giunse alcun aiuto, non giunsero messaggeri. Continuarono a combattere da soli. Per sei giorni. Per nove. E il decimo giorno Aemon conobbe l’amaro sapore del tradimento. Non avrebbero ricevuto aiuti e non potevano più impedire la traversata del fiume.»

«Cosa accadde allora?» domandò Hari. La fiamma delle torce tremolava nella gelida brezza della notte, ma nessuno si mosse per stringersi addosso il mantello.

«Aemon» continuò Moiraine «attraversò il Tarendrelle e distrusse i ponti. E ordinò al suo popolo in tutto il territorio di darsi alla fuga, perché i poteri che sostenevano i Trolloc avrebbero trovato il modo di trasportare l’orda al di là del fiume. Mentre l’ordine si spargeva, i Trolloc iniziarono la traversata e i soldati di Manetheren ripresero il combattimento per guadagnare tempo, pagando con la propria vita. Nella città di Manetheren, Eldrene organizzò la fuga del suo popolo nelle foreste più fitte e nei rifugi sulle montagne.

«Ma alcuni non fuggirono. Prima come rivolo, poi come fiume, poi come inondazione, corsero non verso la salvezza, ma ad unirsi ai soldati che combattevano per la loro terra. Pastori armati d’arco, contadini armati di forcone, boscaioli armati di scure. E anche donne, armate di quello che avevano trovato, marciarono a fianco a fianco con i loro uomini. Tutti sapevano d’intraprendere un viaggio senza ritorno. Ma quella era la loro terra, era stata dei loro padri e sarebbe stata dei loro figli. Andarono a pagare il prezzo. Non un palmo di terreno fu ceduto prima che fosse zuppo di sangue, ma alla fine l’esercito di Manetheren fu respinto fin qui, fino alla zona che oggi chiamate Emond’s Field. E qui le orde di Trolloc lo circondarono.

«I cadaveri di Trolloc e di rinnegati formarono alti cumuli, ma sempre nuovi nemici scavalcavano i mucchi di vittime, in ondate di morte che non avevano fine. Una sola conclusione era possibile. Non un uomo né una donna, di coloro che all’alba di quel giorno avevano combattuto sotto lo stendardo dell’Aquila Rossa, al calare della notte sopravviveva. La spada che non si sarebbe mai spezzata era stata fatta a pezzi.

«Nelle Montagne di Nebbia, rimasta da sola nella città deserta di Manetheren, Eldrene sentì Aemon morire e il suo cuore morì con lui. E al posto del cuore le rimase soltanto sete di vendetta, vendetta per l’amato, vendetta per il suo popolo e la sua terra. Spinta dal dolore, Eldrene attinse alla Vera Fonte e scagliò l’Unico Potere contro l’esercito Trolloc. E i Signori del Terrore morirono lì dove si trovavano, mentre tenevano consigli di guerra o esortavano i soldati. In un batter di ciglio i Signori del Terrore e i generali del Tenebroso furono avvolti dalle fiamme. Il fuoco consumò il loro corpo e il terrore consumò l’esercito vittorioso.

«Tutti fuggirono come animali davanti all’incendio della foresta, senz’altro pensiero che la salvezza. Fuggirono a settentrione e a meridione. A migliaia annegarono nel tentativo di attraversare il Tarendrelle senza l’aiuto dei Signori del Terrore; e, varcato il Manetherendrelle, distrussero i ponti, per paura di quel che potesse inseguirli. Dove trovarono gente, uccisero e incendiarono, ma pensarono soprattutto alla fuga. Finché, in conclusione, nessuno di loro rimase sulle terre di Manetheren. Furono dispersi come polvere davanti ai turbini di vento. La vendetta finale giunse più lentamente, ma giunse, quando furono inseguiti da altri popoli, da altri eserciti in altre regioni. Nessuno sopravvisse, degli autori del massacro di Aemon’s Field.

«Ma il costo fu alto, per Manetheren. Eldrene aveva attinto l’Unico Potere in quantità superiore a quanto un essere umano possa usare senza aiuto. Come morirono i generali nemici, così morì anche lei; e le fiamme che la consumarono, incenerirono anche la città deserta di Manetheren, perfino le sue pietre, fino alla roccia stessa delle montagne. Tuttavia il popolo era stato salvato.

«Niente rimase delle loro fattorie, dei loro villaggi, della loro grande città. Alcuni avrebbero detto che rimaneva loro soltanto la fuga in altre terre. Loro la pensarono diversamente. Per la loro terra avevano pagato, in sangue e speranza, un prezzo mai pagato prima; e adesso erano legati a quella terra da legami più robusti dell’acciaio. Altre guerre li avrebbero distrutti negli anni a venire; alla fine dimenticarono il loro angolo di mondo e le guerre e il modo di fare guerra. Manetheren non si risollevò mai più. Le sue altissime guglie e le fontane zampillanti divennero un sogno che piano piano svanì dalla mente del suo popolo. Ma loro, e i loro figli, e i figli dei loro figli, conservarono la terra che era stata loro, anche quando i secoli ne cancellarono dal ricordo i motivi. La conservarono finché, oggi, ci siete voi. Piangete per Manetheren. Piangete per ciò che è perduto per sempre.»

Le fiamme alle estremità del bastone di Moiraine si spensero; la donna lo abbassò come se pesasse cento libbre. Per un lungo momento si udì solo il gemito del vento. Poi Paet al’Caar scostò i Coplin e venne avanti.

«Non so niente del tuo racconto» disse. «Non sono una spina nel piede del Tenebroso e non penso d’esserlo mai. Ma il mio Wil cammina grazie a te e per questo mi vergogno d’essere qui. Non so se mi perdonerai, ma anche senza perdono, me ne vado. E per me resta pure a Emond’s Field finché ne hai voglia.»

Con un rapido cenno, quasi un inchino, si aprì la strada tra la folla. Altri borbottarono parole di scusa e a uno a uno si allontanarono, pieni di vergogna. I Coplin, scuri in faccia, si guardarono intorno e senza dire niente scomparvero nella notte. Bili Congar era già sparito prima dei suoi cugini.

Lan tirò indietro Rand e chiuse la porta. «Andiamo, ragazzo» disse. Si diresse verso il retro della locanda. «Venite, tutt’e due. Presto!»

Rand esitò, scambiò con Mat un’occhiata di stupore. Mentre Moiraine raccontava la storia, nemmeno i cavalli dhurrani di mastro al’Vere sarebbero riusciti a tirarlo via; ma ora qualcosa d’altro gli bloccava i piedi. Questo era il vero inizio: lasciare la locanda e seguire il Custode nella notte... Si scosse e cercò di rafforzare la propria decisione. Non aveva scelta. Ma sarebbe tornato a Emond’s Field, per quanto lungo fosse il viaggio.

«Che cosa aspettate?» disse Lan, dalla porta in fondo alla sala comune. Con un sobbalzo Mat si affrettò a raggiungerlo.

Cercando di convincersi che era l’inizio di una grandiosa avventura, Rand li seguì nella cucina buia e fuori nel cortile della stalla.

Загрузка...