Con un acciottolio di marmitte il carro dell’ambulante percorse l’assito del Ponte Carraio e, sempre circondato dalla folla di paesani e di contadini giunti per la festa, si fermò davanti alla locanda. Da ogni parte altra gente si raccoglieva intorno al grande carro, le cui ruote erano più alte d’una persona; tutti tenevano gli occhi puntati sull’ambulante a cassetta.
L’uomo sul carro era Padan Fain, un tipo pallido e allampanato, con braccia ossute e un grosso naso a becco. Per quanto Rand ricordava, ogni primavera Fain, sempre sorridente come se fosse a conoscenza di uno scherzo che tutti ignoravano, aveva portato il carro a Emond’s Field.
Mentre il tiro a otto si fermava con un tintinnio di finimenti, la porta della locanda si spalancò e comparvero i componenti il Consiglio del Villaggio, guidati da mastro al’Vere e da Tam. Tutti vennero avanti con decisione, perfino Cenn Buie, fra le grida d’entusiasmo e le richieste di spilli, merletti, libri, decine d’altre cose. La folla si aprì con riluttanza per lasciarli passare, ma si affrettò a richiudere il varco. Tutti chiedevano qualcosa, ma soprattutto notizie recenti.
Per i paesani, aghi e tè e altre mercanzie erano solo la metà del carico del carro. Uguale importanza aveva ogni piccola novità da fuori, ogni notizia del mondo al di là dei Fiumi Gemelli. Alcuni ambulanti si limitavano a raccontare quel che sapevano, facendo di tutto un mucchio, per non perdere tempo; ad altri bisognava cavare di bocca ogni parola, perché parlavano di malavoglia e con malagrazia. Fain invece parlava volentieri, spesso in tono burlesco, e abbelliva il racconto tanto da rivaleggiare con i menestrelli. Gli piaceva essere al centro dell’attenzione, pavoneggiarsi come un galletto, con tutti gli occhi addosso. Forse ci sarebbe rimasto male, si disse Rand, scoprendo che a Emond’s Field c’era un vero menestrello.
Mentre si affannava a legare le redini, l’ambulante dedicò al Consiglio e ai paesani la stessa attenzione, ossia in pratica nessuna. Rivolse un generico cenno di saluto, sorrise in silenzio, salutò col braccio persone con cui aveva una certa amicizia, anche se la sua era sempre stata un’amicizia di tipo distaccato, cordiale ma non intima.
Gli inviti a raccontare divennero più rumorosi, ma Fain si gingillò con qualche lavoretto a cassetta e aspettò che la folla e la curiosità crescessero come voleva lui.
Solo il Consiglio rimase in silenzio e mantenne la dignità del rango, ma la nuvola di fumo sempre più fitta mostrò quanto fosse difficile fingere indifferenza.
Rand e Mat costeggiarono la folla per avvicinarsi il più possibile al carro. Rand si sarebbe fermato a metà strada, ma Mat si fece largo nella calca tirandoselo dietro, finché non si trovarono proprio dietro il Consiglio.
«Pensavo che saresti rimasto alla fattoria per tutta la festa» gridò a Rand Perrin Aybara, superando il frastuono. Di mezza testa più basso di Rand, il ricciuto apprendista del fabbro era così robusto da sembrare largo una volta e mezzo una persona normale, con braccia e spalle tanto massicce da rivaleggiare con quelle dello stesso mastro Luhhan. Avrebbe potuto con la massima facilità aprirsi la strada tra la folla, invece avanzò con cautela, chiedendo scusa a persone che badavano solo all’ambulante, e cercò di non spintonare nessuno, mentre si avvicinava a Rand e a Mat. «Pensa un po’» disse, quando alla fine li raggiunse. «Bel Tine e un ambulante, nello stesso giorno. Sono sicuro che ci saranno i fuochi d’artificio.»
«Non ne sai nemmeno un quarto» rise Mat.
Perrin lo guardò, diffidente, e si rivolse a Rand.
«È vero» gli gridò Rand; indicò la folla sempre più numerosa e vociante. «Dopo. Ti spiego dopo. Dopo, ho detto!»
In quel momento Padan Fain si mise in piedi sul sedile e la folla si zittì di colpo. Le ultime parole di Rand esplosero nel silenzio improvviso, sorprendendo l’ambulante col braccio alzato in un gesto teatrale e la bocca aperta.
Tutti si girarono a guardare Rand. L’ometto ossuto in piedi sul carro, pronto a vedere tutti pendere dalle sue labbra, gli lanciò un’occhiataccia.
Rand arrossì e rimpianse di non essere piccolo come Ewin, anziché risaltare a quel modo. Anche i suoi amici si mossero a disagio. Solo l’anno precedente Fain aveva mostrato di accorgersi di loro, trattandoli da adulti. Di solito non sprecava tempo con chi non era in grado di comprare un bel po’ di roba. Rand si augurò che l’ambulante non l’avesse retrocesso al rango di bambino.
Fain si schiarì la gola e diede uno strattone al suo pesante mantello. «_ No, non dopo» declamò, sollevando di nuovo il braccio in un gesto grandioso. «Racconterò tutto ora.» Mentre parlava, faceva ampi gesti, lanciava le parole alla folla. «Pensate di avere avuto guai, nei Fiumi Gemelli, vero? Bene, tutto il mondo ha guai, dalla Grande Macchia al Mare delle Tempeste, dall’oceano Aryth al deserto dell’Aiel. Non avete mai visto un inverno così duro, un freddo da gelare il sangue e crepare le ossa? Ah! L’inverno è stato gelido e duro dappertutto. Il vostro lo chiamano primavera, nelle Marche di Confine. Ma la primavera non arriva, dite voi? I lupi vi sbranano le pecore? Forse hanno assalito anche persone? È così? Via! La primavera è in ritardo dappertutto. Dovunque ci sono lupi affamati di qualsiasi cosa riescano ad azzannare, pecora, vacca o uomo. Ma ci sono cose peggiori dei lupi o dell’inverno. C’è gente che sarebbe felice d’avere soltanto i vostri piccoli guai.» S’interruppe, in attesa.
«Cosa può esserci di peggio dei lupi che uccidono pecore e uomini?» disse Cenn Buie. Altri brontolarono un assenso.
«Uomini che uccidono uomini.» La risposta dell’ambulante, in tono apocalittico, provocò mormorii di stupore che crebbero man mano che lui continuava. «Mi riferisco alla guerra. C’è la guerra, nel Ghealdan, guerra e follia. Le nevi della foresta di Dhallin sono rosse di sangue. Corvi e gracidio di corvi riempiono l’aria. Eserciti marciano verso il Ghealdan. Nazioni, grandi casati e grandi uomini mandano in battaglia i propri soldati.»
«Guerra?» L’insolita parola uscì maldestramente dalle labbra di mastro al’Vere. Nessuno, nei Fiumi Gemelli, aveva mai avuto a che fare con la guerra. «Perché c’è una guerra?»
Fain sogghignò e Rand ebbe l’impressione che prendesse in giro il loro isolamento e la loro ignoranza. L’ambulante si sporse come se fosse sul punto di confidare al sindaco un segreto, ma il suo mormorio era destinato a tutti e tutti udirono. «Il vessillo del Drago si è alzato e gli uomini accorrono a combatterlo. E a sostenerlo.»
Un ansito percorse la folla. Rand rabbrividì, senza volerlo.
«Il Drago!» gemette uno. «Il Tenebroso è libero nel Ghealdan!»
«Il Drago non è il Tenebroso» brontolò Haral Luhhan. «E comunque si tratta di un falso Drago.»
«Ascoltiamo cosa ha da dire mastro Fain» intervenne il sindaco, ma non era facile zittire la folla. Da ogni parte c’erano esclamazioni, uomini e donne gridavano l’un con l’altro.
«Malvagio come il Tenebroso!»
«Il Drago distrusse il mondo, no?»
«Iniziò lui! Causò il Tempo della Follia!»
«Conosci le profezie! Quando il Drago rinasce, i tuoi peggiori incubi ti sembreranno i più piacevoli sogni!»
«È solo un altro falso Drago. Dev’essere così!»
«Che differenza fa? Ricorda l’ultimo falso Drago. Anche lui diede inizio a una guerra. Morirono migliaia di uomini, vero, Fain? Assediò Illian.»
«Sono tempi funesti! Per vent’anni nessuno ha sostenuto d’essere il Drago Rinato, poi ne sono comparsi tre negli ultimi cinque anni. Tempi funesti! Guardate le stagioni!»
Rand scambiò occhiate con Mat e con Perrin. Gli occhi di Mat brillavano d’eccitazione, ma Perrin era preoccupato. Rand ricordava tutte le storie degli uomini che si erano proclamati il Drago Rinato: anche se, morendo o scomparendo senza far avverare alcuna profezia, si erano dimostrati falsi Draghi, avevano compiuto imprese orribili. Nazioni lacerate dalle guerre, città e paesi dati alle fiamme. I morti cadevano come le foglie in autunno e i profughi affollavano le strade come pecore l’ovile: così dicevano gli ambulanti e i mercanti, e nessuno con un po’ di cervello ne dubitava. Il mondo sarebbe finito, dicevano alcuni, quando il vero Drago fosse rinato.
«Basta!» gridò il sindaco. «Silenzio! Smettetela di agitarvi a furia di fantasticare. Lasciamo che mastro Fain ci parli di questo falso Drago.»
La folla cominciò a calmarsi, ma Cenn Buie si rifiutò di fare silenzio. «È davvero un falso Drago?» domandò, acido.
Mastro al’Vere batté le palpebre, come sorpreso, poi replicò, brusco: «Non fare lo sciocco, Cenn!» Ma intanto l’impagliatore aveva riattizzato l’umore della folla.
«Non può essere il Drago Rinato! La Luce ci protegge, non può esserlo!»
«Sei un vecchio sciocco, Buie! Vuoi davvero la malasorte, eh?»
«E ora nominerai pure il Tenebroso! Sei preso dal Drago, Cenn Buie! Cerchi di portare sventura a tutti noi!»
Cenn si guardò intorno, con aria di sfida, cercando di far abbassare gli occhi a chi lo guardava di storto, e alzò la voce. «Io non ho udito Fain dire che si tratta di un Falso Drago. E voi? Aprite gli occhi! Dove sono le piante che abbiamo seminato? A quest’ora dovrebbero essere alte fino al ginocchio e anche di più. Perché l’inverno dura ancora, quando la primavera dovrebbe essere arrivata da un mese?» Grida irate dissero a Cenn di tenere la lingua a freno. «Non sto zitto!» protestò lui. «Nemmeno a me piacciono questi discorsi, ma non nascondo la testa sotto un cesto finché uno di Taren Ferry non viene a tagliarmi la gola. E stavolta non intendo ballare alla musica di Fain. Parla chiaro, ambulante. Cosa hai udito? Eh? Costui è un falso Drago?»
Se Fain era turbato dalle notizie portate o dal subbuglio, non lo diede a vedere. Si limitò a scrollare le spalle e a grattarsi il naso. «Chi può dirlo, prima che tutto sia finito?» rispose. Esitò, con uno dei suoi sorrisi misteriosi; lasciò girare lo sguardo sulla folla come per immaginarne le reazioni e trovandole divertenti. «Io so solo» continuò, in tono fin troppo noncurante «che costui può usare l’Unico Potere. Gli altri non potevano, ma lui può incanalarlo. Il terreno si apre sotto i piedi dei suoi nemici e mura robuste crollano al suo ordine. Il fulmine accorre quando lui lo chiama e colpisce dove lui indica. Questo ho sentito, da persone a cui credo.»
Scese un silenzio pieno di sbalordimento. Rand guardò i suoi amici. Perrin aveva l’aria di chi vede cose spiacevoli, Mat invece sembrava ancora pieno d’entusiasmo. Tam, con il viso solo un po’ meno calmo del solito, si chinò verso il sindaco, ma prima che potesse parlare, Ewin Finngar saltò su.
«Diventerà pazzo e morirà!» disse. «Nelle storie, gli uomini che incanalano il Potere impazziscono sempre, deperiscono e muoiono. Solo le donne possono toccarlo. Costui non lo sa?» Si abbassò per schivare uno scappellotto di mastro Buie.
«Basta così, ragazzo. Mostra il giusto rispetto e lascia questa faccenda a chi è più anziano di te. Fila via!»
«Sta’ calmo, Cenn» brontolò Tam. «Il ragazzo è solo curioso. Non fare lo sciocco.»
«Comportati da adulto» aggiunse Bran. «E per una volta ricorda che fai parte del Consiglio.»
A ogni parola di Tam e del sindaco, il viso grinzoso di Cenn divenne più scuro, fin quasi a sembrare violaceo. «Sapete a quale sorta di donne si riferisce. Smettila di guardarmi di storto, Luhhan, e anche tu, Crawe. Questo è un onesto villaggio di gente onesta, ed è già abbastanza brutto che ci sia Fain a parlare di falsi Draghi che usano il Potere, senza che questo sciocco ragazzo tiri in ballo anche le Aes Sedai. Di certe cose non bisognerebbe parlare e basta; e non m’importa se lascerete che quello stupido menestrello racconti ogni sorta di storie. Non è giusto né onesto.»
«Parlare non ha mai fatto male a nessuno» disse Tam.
Ma Fain non aveva terminato. «Le Aes Sedai sono già intervenute» riprese. «Un gruppo è già partito da Tar Valon. Visto che lui può usare il Potere, alla fine soltanto le Aes Sedai possono sconfiggerlo e occuparsi di lui, una volta sconfitto Se sarà sconfitto.»
Qualcuno, nella folla, gemette ad alta voce. Perfino Tam e Bran si scambiarono occhiate di disagio. La gente formò piccoli gruppi e alcuni si strinsero nel mantello, anche se il vento era scemato.
«Sarà sconfitto senz’altro» gridò uno.
«Alla fine sono stati sempre sconfitti, i falsi Draghi.»
«Dovrà essere sconfitto anche lui, no?»
«E se vincesse lui?»
Finalmente Tam riuscì a confabulare col sindaco; Bran annuì di tanto in tanto, senza badare al trambusto, e aspettò che Tam finisse, prima di farsi sentire.
«Ascoltate, tutti quanti. Fate silenzio e ascoltatemi!» Le grida si ridussero di nuovo a un mormorio. «Questa non è una notizia qualsiasi. È necessario che il Consiglio ne discuta. Mastro Fain, se non ti spiace, vieni con noi nella locanda. Dobbiamo farti alcune domande.»
«Un buon boccale di vino caldo e speziato non sarebbe fuori luogo, al momento» ridacchiò l’ambulante. Con un salto scese dal carro, si pulì le mani sulla giubba e si sistemò il mantello. «Vi dispiace badare ai miei cavalli?»
«Voglio sentire cosa dice!» protestò più d’una voce.
«Non potete portarlo via! Mia moglie mi ha mandato a comprare degli spilli!» Quest’ultimo era Wit Congar; sotto lo sguardo astioso di alcuni, ingobbì le spalle ma non cedette.
«Anche noi abbiamo il diritto di fargli domande» gridò uno in fondo alla folla. «Io...»
«Piantatela!» ruggì il sindaco, provocando un silenzio pieno di stupore. «Quando il Consiglio avrà terminato di fargli domande, mastro Fain tornerà a raccontarvi tutte le notizie. E a vendervi spilli e pignatte. Hu! Tad! Portate nella stalla i cavalli di mastro Fain.»
Tam e Bran si posero ai fianchi dell’ambulante e gli altri membri del Consiglio si raccolsero dietro di loro; il gruppetto entrò nella locanda e chiuse la porta in faccia a quelli che cercarono di seguirli. Qualche pugno alla porta ottenne solo un grido del sindaco.
«Andate a casa!»
I paesani continuarono a girare davanti alla locanda, brontolando e chiedendosi cosa significassero le parole dell’ambulante e perché anche loro non potessero ascoltare e far domande. Alcuni scrutarono dalle finestre del pianterreno, altri interrogarono Hu e Tad, anche se non era affatto chiaro che cosa ne sapessero i due stallieri. Infatti i due risposero con un brontolio e continuarono metodicamente a togliere ai cavalli i finimenti; portarono nella stalla i cavalli di Fain e, dopo l’ultimo, non tornarono.
Rand non badò alla folla. Si sedette sul bordo delle vecchie fondamenta di pietra, si strinse nel mantello e fissò la porta della locanda. Ghealdan. Tar Valon. I nomi stessi erano curiosi ed eccitanti. Indicavano luoghi che conosceva solo dai racconti degli ambulanti e delle guardie dei mercanti. Aes Sedai, guerre, falsi Draghi: erano l’argomento di storie narrate a tarda sera intorno al focolare, mentre una candela proiettava sulle pareti sagome bizzarre e il vento ululava contro gli scuri. Tutto sommato, preferiva affrontare tempeste di neve e lupi. Però tutto era certamente diverso, fuori dei Fiumi Gemelli: una vita d’avventure, come nelle storie dei menestrelli.
A poco a poco i paesani si dispersero, continuando a borbottare e a scuotere la testa. Wit Congar si soffermò a fissare il carro, come se potesse trovare un altro ambulante nascosto all’interno. Alla fine rimasero alcuni fra i più giovani. Mat e Perrin si avvicinarono a Rand.
«Meglio del menestrello» disse Mat, sulle ali dell’entusiasmo. «Chissà se riusciremo a vedere questo falso Drago.»
Perrin scosse la testa irsuta. «Non voglio vederlo. Da un’altra parte, forse, ma non nei Fiumi Gemelli. No, se significa guerra.»
«Nemmeno se significa avere qui le Aes Sedai» aggiunse Rand. «Hai dimenticato chi provocò la Frattura? Forse il Drago la iniziò, ma in realtà furono le Aes Sedai, a distruggere il mondo.»
«Una volta» disse Mat «ho udito una storia, da una guardia di un compratore di lana. Diceva che il Drago sarebbe rinato nell’ora dell’estremo bisogno e avrebbe salvato l’umanità.»
«Era uno sciocco, se ci credeva» replicò Perrin, deciso. «E sei stato sciocco ad ascoltarlo.» Non parve arrabbiato: era lento, ad arrabbiarsi. Ma a volte si esasperava per le mutevoli fantasticherie di Mat e nella sua voce c’era un tocco d’esasperazione. «Sosteneva, immagino, che dopo saremmo vissuti in una nuova Epoca Leggendaria.»
«Non ho detto d’avergli creduto» protestò Mat. «L’ho solo ascoltato. Anche Nynaeve l’ha ascoltato: ho creduto che volesse spellarci vivi, me e la guardia. Disse, la guardia, che molti ci credono, ma non lo ammettono per paura delle Aes Sedai e dei Figli della Luce. Non volle aggiungere altro, dopo che Nynaeve ci sorprese. Lei lo riferì al mercante e costui disse che non avrebbe più preso con sé quella guardia.»
«Così» disse Perrin «il Drago ci salverebbe? Mi sembrano discorsi da Coplin.»
«Cosa potrebbe richiedere l’intervento del Drago per salvarci?» disse Rand, pensieroso. «La minaccia del Tenebroso?»
«Non l’ha detto» rispose Mat, a disagio. «E non ha parlato di una nuova Epoca Leggendaria. Ha detto che l’avvento del Drago avrebbe distrutto il mondo.»
«Questo sì che ci salverebbe» commentò Perrin, asciutto. «Un’altra Frattura.»
«La Luce m’incenerisca!» brontolò Mat. «Ho solo riferito le parole di quella guardia.»
Perrin scosse la testa. «Mi auguro solo che le Aes Sedai e questo Drago, falso o vero che sia, rimangano dove sono. Forse così i Fiumi Gemelli saranno risparmiati.»
«Pensi che siano davvero Amici delle Tenebre?» disse Mat, preoccupato.
«Chi?» domandò Rand.
«Le Aes Sedai.»
Rand lanciò un’occhiata a Perrin, che si strinse nelle spalle. «Le storie...» cominciò lentamente; Mat lo interruppe.
«Non tutte le storie dicono che sono al servizio del Tenebroso, Rand.»
«Santa Luce, Mat! Hanno causato la Frattura. Cosa vuoi di più?»
«Già» sospirò Mat. Ma ritrovò subito il sorriso. «Il vecchio Bili Congar dice che non esistono Aes Sedai amiche delle Tenebre. Che sono solo storie. E che lui non crede neppure al Tenebroso.»
Perrin sbuffò. «Discorsi da Coplin sulla bocca di un Congar. Cos’altro t’aspettavi?»
«Il vecchio Bili ha pronunciato il nome del Tenebroso. Scommetto che tu non lo sai.»
«Luce santa!» mormorò Rand.
Il sorriso di Mat si allargò. «L’ho udito io, la primavera scorsa, prima che la nottua delle messi invadesse i suoi campi e non quelli degli altri. Proprio prima che tutti in casa sua prendessero l’itterizia. Lui dice ancora di non crederci, ma ora, se gli chiedo di fare il nome del Tenebroso, mi tira tutto quello che ha sottomano.»
«E tu sei tanto stupido da chiederglielo, vero, Matrim Cauthon?» Nynaeve al’Meara avanzò tra loro, con la treccia scura gettata sulla spalla, sbuffando di collera. Rand scattò in piedi. La Sapiente, snella e una spanna più bassa di Mat, in quel momento sembrava dominarli dall’alto; e non importava che fosse giovane e graziosa. «Quella volta ho sospettato che Bili Congar avesse nominato il Tenebroso, ma ti ritenevo tanto assennato da non provocarlo ancora. Forse avrai già l’età per prendere moglie, Matrim Cauthon, ma meriteresti di stare attaccato alle sottane di tua madre. Ancora un poco sarai tu stesso a nominare il Tenebroso.»
«No, Sapiente» protestò Mat, con l’aria di chi vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte. «È stato il vecchio... voglio dire, mastro Congar! Sangue e ceneri, io non...»
«Modera l’espressione, Matrim!»
Rand raddrizzò la schiena, anche se l’occhiataccia non era diretta a lui. Perrin era altrettanto imbarazzato. Più tardi, l’uno o l’altro si sarebbe certo lamentato perché a sgridarli era stata una donna poco più anziana di loro... quando Nynaeve non era a portata d’orecchio, è ovvio; a faccia a faccia con lei, la differenza d’età sembrava sufficiente. Soprattutto se Nynaeve era arrabbiata. Portava un bastone nodoso in cima e sottile come una verga in fondo; e non si faceva scrupolo a usarlo... testa, mani, gambe... su chiunque secondo lei si comportava da stupido, senza badare a età o a posizione.
Impegnato a tenerla d’occhio, Rand non si rese subito conto che la Sapiente non era da sola. Accortosi dell’errore, pensò di svignarsela senza badare alle conseguenze.
Egwene, ferma qualche passo dietro la Sapiente, fissava proprio lui. Della stessa statura di Nynaeve e come lei di carnagione scura, in quel momento, con le braccia conserte e le labbra strette in una smorfia di disapprovazione, sembrava il riflesso dell’umore di Nynaeve. Il cappuccio del morbido mantello grigio le metteva in ombra il viso; nei suoi grandi occhi castani non c’era traccia di divertimento.
Se al mondo c’era giustizia, pensò Rand, il fatto d’avere due anni più di lei avrebbe dovuto dargli un certo vantaggio, ma non era questo il caso. Lui non aveva la parlantina sciolta, con le ragazze; e quando Egwene lo guardava con quello sguardo assorto, con gli occhi sgranati, lui proprio non riusciva a trovare le parole giuste.
«Se hai finito di guardare come uno scemo, Rand al’Thor» disse Nynaeve «forse mi spiegherai perché parlavate di un argomento che perfino tre teste di rapa come voi dovrebbero avere il buon senso di non toccare.»
Rand trasalì e staccò gli occhi da Egwene; alle parole della Sapiente, la ragazza aveva messo in mostra un sorriso sconcertante. Nynaeve aveva usato un tono aspro, ma anche aveva sulle labbra un sorrisino saputo... finché Mat non sbottò a ridere. La Sapiente tornò subito seria e lanciò a Mat uno sguardo che gli mutò la risata in un gracidio soffocato.
«Allora, Rand?» disse Nynaeve.
Con la coda dell’occhio Rand vide Egwene sorridere ancora. Che cosa ci trovava, di tanto divertente? «Era naturale parlarne» rispose in fretta. «L’ambulante, Padan Fain... ah... mastro Fain... ha portato notizie di un falso Drago nel Ghealdan, e di una guerra, e di Aes Sedai. Il Consiglio ha pensato che fosse abbastanza importante da discuterne con lui. Logico che ne parlassimo anche noi.»
Nynaeve scosse la testa. «Ecco perché il carro dell’ambulante è rimasto abbandonato. Ho udito la gente corrergli incontro, ma non potevo lasciare comare Ayellin prima che la febbre le calasse. Il Consiglio interroga l’ambulante su quel che accade nel Ghealdan, eh? Se li conosco bene, quelli faranno tutte le domande sbagliate e nessuna giusta. Occorre la Cerchia delle Donne, per scoprire qualcosa di utile.» Si raddrizzò il mantello e sparì dentro la locanda.
Mentre la porta si chiudeva alle spalle di Nynaeve, Egwene si fermò di fronte a Rand. Non era più accigliata, ma lo guardò con un’intensità che metteva a disagio. Rand lanciò un’occhiata ai due amici, che però si allontanarono sorridendo apertamente.
«Non dovresti farti coinvolgere da Mat in queste stupidaggini» disse Egwene, con la stessa solennità della Sapiente; poi ridacchiò. «Non hai più fatto questa faccia da quando Cenn Buie ti sorprese con Mat tra i suoi meli... e a quel tempo avevi dieci anni.»
Rand strusciò i piedi e guardò i due amici. Non si erano allontanati di molto; Mat parlava e gesticolava con entusiasmo.
«Ballerai con me, domani?» le domandò. Non era quello che intendeva dire. Voleva davvero ballare con lei, ma nello stesso tempo temeva la sensazione di disagio che di sicuro avrebbe provato a stare con lei. La stessa di quel momento.
Egwene piegò le labbra in un lieve sorriso. «Nel pomeriggio» disse. «Avrò da fare, la mattina.»
Udirono l’esclamazione d’entusiasmo di Perrin: «Un menestrello!»
Egwene si girò verso i due poco distante, ma Rand le mise la mano sul braccio. «Da fare? Che cosa?»
Nonostante il freddo, Egwene gettò indietro il cappuccio e con finta noncuranza si tirò sul petto i capelli. L’ultima volta, le scendevano sulle spalle in onde scure, trattenuti da un nastro rosso; adesso erano acconciati in una lunga treccia.
Rand fissò la treccia come se vedesse una vipera, poi lanciò di soppiatto un’occhiata all’Albero della Primavera, tutto solo nel Parco, pronto per l’indomani. Al mattino le donne nubili in età da marito avrebbero ballato intorno all’Albero. Rand deglutì con forza: non gli era mai venuto in mente che anche lei sarebbe cresciuta.
«Solo perché si ha l’età per sposarsi» brontolò «non significa che ci si debba sposare. Immediatamente.»
«No, certo. Né subito, né mai, se è per questo.»
«Mai?» ripeté Rand, sorpreso.
«Le Sapienti si sposano assai di rado. Nelle ultime settimane Nynaeve mi ha dato lezioni, sai? Dice che ho talento, che posso imparare ad ascoltare il vento. Secondo lei, non tutte le Sapienti ne sono in grado, anche se dicono di riuscirci.»
«Sapiente!» protestò Rand, senza notare il lampo minaccioso negli occhi di lei. «Nynaeve sarà la Sapiente del villaggio per altri cinquant’anni. Forse di più. Vuoi passare la vita come apprendista?»
«Ci sono altri villaggi» rispose Egwene, con calore. «Nynaeve dice che i villaggi a settentrione del Taren prendono sempre una Sapiente da fuori. Secondo loro, così si evitano favoritismi nel villaggio.»
Il sorriso di divertimento di Rand svanì con la rapidità con cui era spuntato. «Fuori dei Fiumi Gemelli? Non ti vedrò mai più.»
«Non sei contento? Ultimamente non m’è parso che t’importasse molto della mia presenza.»
«Nessuno lascia i Fiumi Gemelli» continuò Rand. «Forse qualcuno di Taren Ferry, ma tanto quelli sono strani comunque.»
Egwene sospirò d’esasperazione. «Be’, forse anch’io sono strana. Forse voglio vedere i luoghi di cui parlano le storie. Ci hai mai pensato?»
«Certo. A volte sogno a occhi aperti, ma conosco la differenza fra sogno e realtà.»
«Mentre io non la conosco?» replicò lei, furibonda. Gli girò le spalle.
«Parlavo di me stesso. Egwene?»
Con gesto brusco lei si strinse nel mantello, una muraglia per tenerlo lontano, e si scostò di qualche passo. Rand si grattò la testa, esasperato. Come spiegarglielo? Non era la prima volta che lei traeva dalle sue parole significati che lui non aveva inteso dare. Visto l’umore attuale, un passo falso avrebbe solo peggiorato le cose; e lui era sicuro che qualsiasi commento sarebbe stato un passo falso.
Proprio allora Mat e Perrin si avvicinarono di nuovo. Egwene non badò a loro. I due esitarono, poi si strinsero intorno a Rand.
«Moiraine ha dato una moneta anche a Perrin» disse Mat. «Uguale alla nostra.» Esitò, prima di aggiungere: «Pure lui ha visto il cavaliere.»
«Dove?» domandò Rand. «Quando? L’hanno visto anche altri? Ne hai parlato a qualcuno?»
Perrin alzò le mani. «Una domanda alla volta. L’ho visto al limitare del villaggio, ieri al crepuscolo. Osservava la fucina. Ha fatto venire i brividi anche a me. L’ho detto a mastro Luhhan, ma quando lui si è girato, non c’era nessuno. Ha detto che vedevo le ombre. Però ha sempre tenuto a portata di mano il martello più grosso, mentre coprivamo col terriccio il fuoco della forgia e mettevamo a posto gli utensili. Non l’aveva mai fatto.»
«Allora ti ha creduto.»
Perrin si strinse nelle spalle. «Non so. Gli ho chiesto perché portava il martello, se avevo visto sole ombre; lui ha brontolato che i lupi sono diventati arditi ed entrano anche nel villaggio. Forse ha pensato che avessi visto un lupo, ma so distinguere un lupo da un uomo a cavallo, anche nel crepuscolo, e nessuno mi farà cambiare idea.»
«Io ti credo» disse Rand. «E poi, l’ho visto anch’io.» Perrin emise un brontolio di soddisfazione, come se non fosse stato sicuro di quest’ultimo particolare.
«Di cosa parlate?» domandò a un tratto Egwene.
Rand rimpianse di non avere tenuto più bassa la voce, ma non pensava che lei ascoltasse. Mat e Perrin, ridacchiando come due scemi, fecero a gara per raccontare il loro incontro col cavaliere nero, ma Rand rimase in silenzio. Era sicuro di sapere che cosa avrebbe detto Egwene alla fine.
«Nynaeve aveva ragione» annunciò Egwene al cielo, quando gli altri due tacquero. «Dovreste ancora camminare col girello. La gente va a cavallo, sapete. Questo non vuol dire che ogni cavaliere sia un mostro uscito dalle storie dei menestrelli.» Rand si complimentò con se stesso: non si era sbagliato. Egwene si girò dalla sua parte. «E tu diffondi queste storie! A volte non hai proprio sale in zucca, Rand al’Thor. L’inverno è stato già abbastanza spaventoso, senza che tu vada in giro a spaventare i bambini.»
Rand le rivolse una smorfia acida. «Non ho diffuso un bel niente. Ma l’ho visto. E non era un contadino in cerca di una mucca dispersa.»
Egwene inspirò a fondo e aprì la bocca, ma qualsiasi cosa volesse dire andò persa, perché la porta si spalancò e un uomo dai capelli bianchi e arruffati uscì di corsa dalla locanda, come se qualcuno gli corresse dietro.