25 I Girovaghi

Bela procedeva con calma sotto il sole smorto, come se i tre lupi che le camminavano a fianco fossero cani di villaggio; ma ogni tanto roteava gli occhi nella loro direzione, mostrando di capire la differenza. Egwene, in groppa alla giumenta, era altrettanto a disagio. Con la coda dell’occhio continuava a tenere sotto controllo i lupi e a volte si girava a guardarsi intorno. Perrin era convinto che cercasse il resto del branco, ma quando vi accennò, Egwene negò con rabbia d’avere paura dei tre lupi che li accompagnavano e di preoccuparsi di quel che combinavano gli altri. Ma continuò a stare all’erta.

Il resto del branco era assai distante: Perrin avrebbe potuto dirglielo, ma non avrebbe risolto niente, anche se lei gli credeva; anzi, avrebbe peggiorato la situazione. Non intendeva scoperchiare il cesto di serpenti, finché non vi era costretto. E non voleva pensare a come lo sapeva. L’uomo vestito di pelli procedeva davanti a loro e a volte sembrava un lupo anche lui: non si guardava intorno, quando comparivano Dapple, Hopper o Wind, ma anche lui sapeva.

Quel primo mattino i due di Emond’s Field si erano svegliati all’alba e avevano trovato Elyas che li guardava, impassibile, e arrostiva altri conigli. A parte Dapple, Hopper e Wind, non c’erano lupi in vista. La scarsa luce mattutina non disperdeva le fitte ombre sotto la grande quercia e più in là gli alberi spogli sembravano dita scarnificate.

«Sono qui intorno» disse Elyas, quando Egwene domandò che fine avesse fatto il branco. «Abbastanza vicino da venirci in aiuto, in caso di bisogno, e abbastanza lontano da non lasciarsi coinvolgere nelle beghe degli esseri umani. Prima o poi nasce sempre qualche guaio, se due persone stanno insieme.»

Quando si misero in cammino, Egwene pretese che ciascuno facesse a turno a cavalcare e Perrin non si prese la briga di discutere.

«Fai tu il primo» le disse.

Egwene annuì. «E poi tocca a Elyas.»

«Le gambe mi bastano» replicò l’uomo. Guardò Bela e la giumenta roteò gli occhi come se vedesse in lui un lupo. «E poi non credo che le piacerebbe portarmi in groppa.»

«Sciocchezze» replicò Egwene, decisa. «Sei testardo e basta. Dobbiamo fare parecchia strada e mi sembra sensato cavalcare a turno.»

«Ho detto no, ragazza.»

Perrin si domandò se Egwene sarebbe riuscita a imporsi anche a Elyas come faceva con lui, finché non si accorse che era rimasta a bocca aperta, in silenzio. Elyas la guardava soltanto, con quei suoi occhi da lupo. Egwene arretrò d’un passo, si umettò le labbra, arretrò ancora. Prima che Elyas distogliesse lo sguardo da lei, era arrivata accanto a Bela ed era montata in sella. Mentre Elyas si girava a fare strada, Perrin pensò che anche il suo sorriso sembrava il ghigno di un lupo.

Per tre giorni viaggiarono a quel modo, a piedi e a cavallo, sempre diretti fra levante e meridione, fermandosi solo quando il crepuscolo s’infittiva. Elyas pareva disprezzare la fretta della gente di città, ma non sprecava tempo, se doveva andare da qualche parte.

I tre lupi si mostravano di rado. Ogni sera stavano per un po’ accanto al fuoco e a volte comparivano per breve tempo anche di giorno, quando loro meno se l’aspettavano, per poi scomparire nella stessa maniera. Ma Perrin sapeva quando erano nei pressi e quando esploravano il territorio più avanti o controllavano le tracce appena lasciate. Seppe quando lasciarono il consueto terreno di caccia e Dapple rimandò indietro il branco ad aspettarla. A volte i tre rimasti svanivano dalla sua mente, ma lui era consapevole del loro ritorno molto prima che si mostrassero. Anche quando gli alberi si ridussero a boschetti assai distanziati tra loro nella pianura coperta d’erba secca, i tre lupi si muovevano come spettri, se non volevano farsi scorgere; ma in qualsiasi momento lui poteva indicare dove si trovavano. Cercò di convincersi che si trattava solo di scherzi dell’immaginazione, ma non ci riuscì. Come Elyas, anche lui sapeva e basta.

Cercò di non pensare ai lupi, ma loro s’insinuavano ugualmente nei suoi pensieri. Da quando aveva incontrato Elyas, non aveva più sognato Ba’alzamon. I sogni, per quel che ricordava al risveglio, riguardavano cose di tutti i giorni, come quelli fatti a casa... prima di Baerlon... prima della Notte d’Inverno. Sogni normali... con un’aggiunta. In ogni sogno c’era un momento in cui si rialzava dal lavoro alla fucina di mastro Luhhan per asciugarsi il viso sudato, o abbandonava il ballo con le ragazze del villaggio nel Parco, o sollevava lo sguardo da un libro che leggeva davanti al camino e, fosse all’aperto o sotto un tetto, aveva vicino un lupo. E sempre il lupo gli girava la schiena e lui sapeva... nei sogni sembrava una cosa normalissima, anche al tavolo da cucina di Alsbet Luhhan... che gli occhi gialli del lupo guardavano quel che poteva giungere, che il lupo lo proteggeva da quel che poteva giungere. Solo da sveglio quei sogni gli parevano bizzarri.

Viaggiarono per tre giorni: Dapple, Hopper e Wind portavano conigli e scoiattoli, Elyas indicava le piante commestibili, poche delle quali erano note a Perrin. Una volta un coniglio balzò via quasi da sotto gli zoccoli di Bela; prima che Perrin usasse la fionda, Elyas lo aveva trafitto con il suo coltellaccio, a venti passi di distanza. Un’altra volta Elyas abbatté con l’arco un grasso fagiano in volo. Mangiavano molto meglio di quando erano da soli, ma Perrin avrebbe preferito tornare alle scarse razioni, in cambio di una compagnia diversa. Era incerto su come la pensasse Egwene, ma avrebbe sofferto volentieri la fame, se avesse potuto fare a meno dei lupi.

Il pomeriggio del terzo giorno videro più avanti un folto d’alberi, più esteso dei precedenti, circa quattro miglia. Il sole, basso nel cielo di ponente, spingeva ombre in diagonale alla loro destra e il vento cresceva d’intensità. Perrin intuì che i lupi abbandonavano la posizione alle loro spalle e passavano all’avanguardia, ma senza fretta. Non avevano fiutato pericoli. Egwene faceva il turno in groppa a Bela. Era il momento di trovare il posto dove accamparsi per la notte e il boschetto sarebbe andato benissimo.

Mentre si avvicinavano al bosco, dagli alberi sbucarono tre mastini, dal muso largo, alti quanto i lupi e anche più pesanti, che snudarono i denti in latrati forti e rumorosi. Si fermarono al limitare del bosco, ma distavano solo una trentina di passi; avevano negli occhi una luce omicida.

Bela, già nervosa per la presenza dei lupi, nitrì e rischiò di disarcionare Egwene; Perrin già roteava la fionda. Inutile usare l’ascia contro dei cani: una pietra nelle costole faceva scappare anche il più feroce.

Senza staccare lo sguardo dai cani, Elyas lo trattenne. «Fermo! Non è necessario!»

Perplesso, Perrin abbassò la fionda. Egwene riuscì a calmare Bela, ma tutt’e due guardarono con diffidenza i cani.

I mastini avevano il pelo ritto e le orecchie appiattite; il loro ringhio pareva rombo di terremoto. A un tratto Elyas alzò un dito ed emise un fischio prolungato e stridulo che divenne sempre più alto. I latrati cessarono di colpo. I cani indietreggiarono tra i guaiti e girarono la testa, come se volessero fuggire, ma fossero trattenuti. Non staccarono lo sguardo dal dito di Elyas.

Lentamente Elyas abbassò la mano e con essa calò il tono del fischio. Anche i cani si abbassarono, fino a stare distesi per terra, con la lingua penzoloni. Tutt’e tre scodinzolarono.

«Come vedi» disse Elyas, accostandosi ai cani «non c’è bisogno d’armi.» I mastini gli leccarono la mano e lui diede loro una grattatina dietro le orecchie. «Sembrano più feroci di quanto non siano. Volevano spaventarci e mandarci via: non ci avrebbero assalito, se non entravamo tra gli alberi. Comunque, ora non c’è più motivo di preoccuparci. Possiamo raggiungere il boschetto seguente, prima che sia buio fitto.»

Egwene era rimasta a bocca aperta, come Perrin, del resto.

Continuando ad accarezzare i cani, Elyas esaminò il boschetto. «Ci sono Tuatha’an, lì. I Girovaghi.» I due lo fissarono senza capire, e lui aggiunse: «Calderai.»

«Calderai?» esclamò Perrin. «Ho sempre desiderato vedere i Calderai. A volte si accampano a Taren Ferry, al di là del fiume, ma non vengono nei Fiumi Gemelli, per quanto ne so. Chissà perché.»

«Probabilmente perché quelli di Taren Ferry sono ladroni quanto i Calderai» sbuffò Egwene. «Senza dubbio finiscono per derubarsi l’un l’alto. Mastro Elyas, se ci sono davvero Calderai nelle vicinanze, è saggio continuare? Non vogliamo che ci rubino Bela e... be’, non possediamo molto, ma tutti sanno che i Calderai rubano qualsiasi cosa.»

«Compresi i neonati?» disse Elyas, ironico. Sputò per terra e lei arrossì: aveva udito storie di bambini rapiti, ma in genere a raccontarle era Cenn Buie oppure uno dei Coplin o dei Congar. «A volte i Calderai mi fanno venire la nausea, ma rubano non più di molti e assai meno di alcuni che conosco.»

«Presto sarà buio, Elyas» disse Perrin. «Perché non ci accampiamo con loro, se ci accolgono?» Comare Luhhan aveva una pentola aggiustata dai Calderai e diceva sempre che era meglio di una nuova. Mastro Luhhan non era contento che sua moglie apprezzasse il lavoro dei Calderai e Perrin voleva vedere come lavoravano. Ma notò in Elyas una riluttanza che non riusciva a spiegarsi. «C’è qualche motivo per stare lontano da loro?»

Elyas scosse la testa, ancora riluttante. «Possiamo accamparci con loro. Ma non badate a quel che dicono. Un mucchio di sciocchezze. Di solito i Girovaghi si comportano normalmente, ma a volte attribuiscono grande importanza alle formalità, perciò fate come me. E tenete per voi i vostri segreti. Non occorre raccontare tutto a tutti.»

Elyas li guidò nel bosco e i cani li seguirono scodinzolando. Perrin sentì che i lupi rallentavano e capì che non sarebbero entrati nel bosco. Non avevano paura dei cani: li disprezzavano, perché avevano rinunciato alla libertà per dormire accanto al fuoco; però evitavano le persone.

Elyas procedette con sicurezza, come se conoscesse la strada; quasi al centro del bosco comparvero i carrozzoni dei Calderai, sparpagliati fra querce e frassini.

Come tutti a Emond’s Field, Perrin aveva sentito un mucchio di storie riguardanti i Calderai, anche se non ne aveva mai visto uno. Il loro campo era proprio come se l’aspettava. I carrozzoni erano piccole case su ruote, di legno laccato, dipinti a colori vivaci, rosso e blu, giallo e verde, e alcune tinte cui non sapeva dare il nome. I Calderai erano intenti nei tipici lavori d’ogni giorno: cucinavano, cucivano, badavano ai bambini, riparavano finimenti; ma i loro vestiti erano ancora più colorati dei carrozzoni e sembravano accostati a caso: a volte giubba e brache, a volte sottane e scialle, in un assortimento da far male agli occhi. Parevano farfalle in un campo di fiori selvatici.

Quattro o cinque, in punti diversi del campo, suonavano violini e flauti; alcuni ballavano, simili a colibrì dai colori dell’arcobaleno. Bambini e cani correvano per gioco intorno ai fuochi. I cani erano mastini come i tre al limitare del bosco, ma i bambini tiravano loro orecchie e coda e montavano a cavalluccio e i cani li lasciavano fare tranquillamente. I tre accanto a Elyas, lingua penzoloni, alzarono il muso a guardarlo come se fosse il loro migliore amico. Perrin scosse la testa. Erano abbastanza grossi da arrivare alla gola d’una persona alzando appena da terra le zampe anteriori.

All’improvviso la musica cessò e Perrin si accorse che i Calderai fissavano lui e i suoi due compagni. Anche i bambini e i cani si erano fermati e li fissavano, sospettosi, sul punto di darsela a gambe.

Per un momento il silenzio fu completo; poi un uomo brizzolato, basso e nerboruto, venne avanti d’un passo e con grande serietà rivolse a Elyas un inchino. Indossava una giubba rossa dal collo alto e ampie brache verde vivo, infilate negli stivali al ginocchio. «Siete i benvenuti al nostro campo. Conoscete il canto?»

Elyas restituì l’inchino, tenendo le mani sul petto. «Il tuo benvenuto mi scalda il cuore, Mahdi, come i tuoi fuochi scaldano il corpo, ma non conosco il canto.»

«Allora cercheremo ancora» disse l’uomo brizzolato. «Come fu, così sarà, se solo ricordiamo, cerchiamo e troviamo.» Con un sorriso indicò i fuochi e assunse un tono leggero e allegro. «La cena è quasi pronta. Unitevi a noi, prego.»

Come se fosse stato un segnale, la musica riprese e i bambini tornarono a ridere e a correre dietro i cani. Nell’accampamento ciascuno tornò al proprio lavoro, come se i nuovi venuti fossero amici di vecchia data.

Ma l’uomo brizzolato esitò e fissò Elyas. «Gli altri tuoi... amici? Resteranno lontano? Spaventano i nostri poveri cani.»

«Staranno lontano, Raen.» Elyas scosse la testa, con una lieve aria di disprezzo. «Ormai dovresti saperlo.»

L’altro allargò le mani come a dire che niente era mai sicuro. Si girò per guidarli nell’accampamento. Egwene smontò e si accostò a Elyas. «Voi due siete amici?» domandò. Un Calderaio sorridente venne a prendere Bela; dopo uno sbuffo ironico di Elyas, Egwene gli porse con riluttanza le redini.

«Ci conosciamo» fu la secca risposta.

«Si chiama Mahdi?» domandò Perrin.

Elyas borbottò qualcosa sottovoce. «Si chiama Raen. Mahdi è il titolo. Significa Cercatore. È il capo di questa tribù. Puoi chiamarlo Cercatore, se Mahdi ti sembra insolito. Non ci baderà.»

«Cos’è questa storia del canto?» domandò Egwene.

«Il motivo per cui viaggiano, almeno così dicono loro. Cercano un canto. È il compito del Mahdi. Dicono d’averlo perduto durante la Frattura del Mondo; se lo ritrovano, tornerà il paradiso dell’Epoca Leggendaria.» Diede un’occhiata all’accampamento e sbuffò. «Non sanno nemmeno quale canto sia. Dicono che lo riconosceranno, quando lo troveranno. Né sanno come farà a riportare il paradiso, ma cercano ormai da quasi tremila anni, dalla Frattura. E continueranno a cercare finché la Ruota non si fermerà.»

Raggiunsero il fuoco di Raen, nel centro dell’accampamento. Il carrozzone del Cercatore era giallo con bordi rossi; i raggi delle grosse ruote bordate di rosso erano alternativamente gialli e rossi. Una donna florida, brizzolata come Raen ma con le guance ancora lisce, uscì dal carrozzone e si soffermò sui gradini posteriori, sistemandosi lo scialle frangiato d’azzurro. Indossava abiti a colori viva ci, camicetta gialla e sottana rossa. L’accostamento indusse Perrin a battere le palpebre; Egwene emise un suono soffocato.

Nel vedere i tre in compagnia di Raen, la donna scese la scaletta, con un sorriso di benvenuto. Era Ila, moglie di Raen, di tutta la testa più alta del marito; e presto indusse Perrin a dimenticare i colori del suo abito. Aveva un fare materno che ricordava comare al’Vere e col primo sorriso l’aveva fatto sentire davvero il benvenuto.

Salutò Elyas come se fosse una vecchia conoscenza, ma con un distacco che parve addolorare Raen. Elyas rispose con un sorriso asciutto e un cenno. Perrin e Egwene si presentarono e Ila strinse loro la mano, con più calore di quanto aveva mostrato nei confronti di Elyas; arrivò perfino ad abbracciare Egwene.

«Sei bellissima, bambina mia» disse, accarezzandole il mento. «E gelata fino alle ossa. Siedi vicino al fuoco. Anche voi. La cena è quasi pronta.»

Alcuni tronchi posti accanto al fuoco fungevano da panche. Elyas rifiutò anche questa piccola concessione alla civiltà e si sdraiò per terra. Due treppiedi di ferro sorreggevano due piccole pentole e accanto alle braci c’era un piccolo forno. Ila se ne occupò.

Mentre Perrin e gli altri si accomodavano, giunse un giovanotto magro col vestito a strisce verdi. Abbracciò Raen e baciò Ila, poi esaminò freddamente Elyas e i due di Emond’s Field. Aveva all’incirca l’età di Perrin e si muoveva quasi a passo di danza.

«Bene, Aram» sorrise Ila, con tono amorevole «una volta tanto hai deciso di cenare con i vecchi nonni, eh?» Spostò il sorriso su Egwene e si chinò a rimestare il contenuto d’una pentola. «Chissà come mai.»

Aram si sedette dall’altra parte del fuoco, di fronte a Egwene, tenendo le braccia incrociate sulle ginocchia. «Mi chiamo Aram» disse a voce bassa, con tono sicuro di sé. Pareva avere dimenticato la presenza degli altri. «Aspettavo la prima rosa di primavera ed ecco che la trovo al fuoco di mio nonno.»

Perrin si aspettò che Egwene soffocasse una risatina, ma la ragazza fissava Aram. Anche lui guardò di nuovo il giovane Calderaio. Aram, riconobbe, era proprio un bel ragazzo. Gli ricordava Wil al’Seen, di Deven Ride: quando veniva a Emond’s Field, tutte le ragazze lo mangiavano con gli occhi e mormoravano fra loro, appena lui girava le spalle. Wil corteggiava ogni ragazza e riusciva a convincerla che con le altre era solo cortese.

«Questi vostri cani» disse Perrin ad alta voce, facendo trasalire Egwene «sembrano grossi come orsi. Sono sorpreso che permettiate ai bambini di giocare con loro.»

Aram divenne serio, ma quando guardò Perrin tornò a sorridere, con maggiore sicurezza di prima. «Non ti faranno niente. Fanno cagnara per spaventare le creature pericolose e per avvertirci, ma sono addestrati secondo la Via della Foglia.»

«La Via della Foglia?» disse Egwene. «Che cos’è?»

Aram indicò gli alberi, continuando a guardarla intensamente negli occhi. «La foglia vive il tempo che le spetta e non si oppone al vento che la porta via. La foglia non danneggia e alla fine cade per nutrire nuove foglie. Così dovrebbe essere, per tutti gli uomini. E le donne.» Egwene lo fissò, con un lieve rossore sulle guance.

«Ma cosa significa?» disse Perrin. Aram gli rivolse un’occhiata piena d’irritazione, ma fu Raen a rispondere.

«Significa che nessun uomo dovrebbe danneggiare un altro per nessun motivo.» Rivolse un fuggevole sguardo a Elyas. «Non ci sono scuse, per la violenza. Mai.»

«E se uno ti assale?» continuò Perrin. «Se ti colpisce o cerca di derubarti o di ucciderti?»

Raen sospirò, paziente, come se Perrin non vedesse quello che per lui era chiarissimo. «Se uno mi colpisse, gli chiederei perché l’ha fatto. Se volesse colpirmi ancora, scapperei, e farei lo stesso se volesse derubarmi o uccidermi. Preferirei lasciargli prendere quello che vuole, anche la mia vita, anziché ricorrere alla violenza. E mi augurerei che non riportasse grande danno.»

«Ma hai detto che non gli faresti male» obiettò Perrin.

«Infatti. La violenza fa male a chi la usa quanto a chi la riceve.» Perrin parve dubbioso. «Potresti abbattere un albero, con la tua ascia» continuò Raen. «L’ascia fa violenza all’albero e non ne resta ferita. È così che tu la vedi, no? Il legno è tenero, a confronto del ferro, ma anche l’ascia migliore perde il filo, a furia di tagliare, e la linfa degli alberi la farà arrugginire. La possente ascia usa violenza all’inerme albero, ma ne riporta danno. La stessa cosa vale per le persone, anche se il danno è spirituale.»

«Ma...»

«Basta» brontolò Elyas, interrompendo Perrin. «Raen, è già brutto che cerchi di convertire a simili sciocchezze i bambocci di paese... e la cosa ti mette sempre nei guai dappertutto, giusto? Non li ho portati qui per darti lavoro. Lasciali perdere.»

«Per lasciarli a te?» disse Ila, sminuzzando erbe aromatiche e lasciandole cadere in una pentola. La voce era calma, ma i gesti erano rabbiosi. «Gli insegnerai a modo tuo, uccidere o morire? Li condurrai al destino che cerchi per te stesso, morire in solitudine, con i corvi e i tuoi... amici a litigare sul tuo cadavere?»

«Calma, Ila» disse Raen, come se avesse ascoltato un centinaio di volte quella stessa discussione. «È stato accolto al nostro fuoco, moglie mia.»

Ila rimase in silenzio, ma, notò Perrin, non si era scusata. Guardò Elyas e scosse tristemente la testa; poi si pulì le mani e andò a prendere cucchiai e stoviglie di terracotta, da una cassa rossa posta contro il fianco del carrozzone.

Raen si rivolse a Elyas.

«Vecchio amico, quante volte ti devo ripetere che non vogliamo convertire nessuno? Se i paesani sono curiosi del nostro sistema di vita, rispondiamo alle loro domande. Certo, quasi sempre sono i giovani, a domandare, e talvolta uno di loro si unisce a noi nel viaggio, ma sempre per libera scelta.»

«Prova a dirlo a una contadina che ha appena scoperto che suo figlio o sua figlia sono andati via con voi Calderai» replicò Elyas, ironico. «Ecco perché le grandi città non vi permettono nemmeno di accamparvi nelle vicinanze. Nei villaggi siete tollerati perché riparate pentole e marmitte, ma nelle città non hanno bisogno di voi e a nessuno piace che convinciate i giovani ad andare via di casa.»

«Non so cosa permettono le città» replicò Raen, con pazienza che pareva inesauribile. «Ci sono sempre individui violenti, nelle città. E poi, non credo che il canto si trovi in una città.»

«Non intendo offenderti, Cercatore» disse lentamente Perrin. «Ma... be’, io non cerco la violenza. Saranno anni che non mi azzuffo con nessuno, se non nelle gare di lotta, durante le feste. Ma se uno mi colpisce, gli rendo il colpo. Se non lo facessi, lo incoraggerei a colpirmi quando vuole. Alcuni credono di poter approfittare degli altri e se non gli fai capire che si sbagliano, andranno in giro a fare i prepotenti coi più deboli.»

«Alcuni» disse Aram, in tono triste «non riescono mai a vincere i loro peggiori istinti.» La sua occhiata indicò chiaramente che non si riferiva ai prepotenti di cui parlava Perrin.

«Sono sicuro che sei sempre lì che scappi» ribatté Perrin; e il viso del giovane Calderaio si tese in una smorfia che aveva ben poco a che fare con la Via della Foglia.

«Mi sembra interessante» intervenne Egwene, con un’occhiataccia a Perrin «conoscere qualcuno che non sia convinto di risolvere con i muscoli qualsiasi problema.»

Aram riacquistò di colpo il buonumore; si alzò e con un sorriso le offrì la mano. «Lascia che ti mostri l’accampamento. Si balla anche.»

«Ne sarei felice» disse Egwene, rendendogli il sorriso.

Ila tolse dal forno alcune pagnotte e si alzò. «Ma, Aram... la cena è pronta.»

«Cenerò con mia madre» rispose Aram, girando solo la testa e conducendo per mano Egwene. «Tutt’e due.» Scoccò a Perrin un sorriso di trionfo. Egwene rideva, mentre si allontanavano.

Perrin scattò in piedi, ma si trattenne. Egwene non correva alcun pericolo, se l’accampamento seguiva davvero la Via della Foglia. Guardò Raen e Ila, che fissavano con aria depressa il nipote. «Scusatemi» disse. «Sono un ospite e non dovevo...»

«Non fare lo sciocco» lo consolò Ila. «La colpa è sua non tua. Siediti e fai onore alla cena.»

«Aram è un ragazzo inquieto» aggiunse tristemente Raen. «Un bravo figliolo, ma a volte credo che trovi difficile la Via della Foglia. A qualcuno accade, purtroppo. Prego, il mio fuoco è tuo.»

Perrin si sedette, impacciato. «Cosa accade a chi non riesce a seguire la Via?» domandò. «Se è un Calderaio, voglio dire.»

Raen e Ila si scambiarono un’occhiata. Raen disse: «Ci lascia. Il Perduto va a vivere nei villaggi.»

Ila guardò nella direzione presa dal nipote. «I Perduti non possono essere felici.» Sospirò, ma quando distribuì scodelle e cucchiai era di nuovo serena.

Perrin abbassò gli occhi e rimpianse d’avere fatto la domanda. Rimasero tutti in silenzio, mentre Ila distribuiva minestra di verdure e spesse fette di pane croccante, e in silenzio consumarono la cena.

Al termine, Raen caricò la pipa e offrì a Elyas la borsa del tabacco. Fumarono in silenzio e Ila si mise a lavorare a maglia. Il sole al tramonto era un bagliore rosso sopra le cime degli alberi. L’accampamento era pronto per la notte, ma il trambusto non diminuì: i musicanti erano cambiati e c’era più gente che ballava alla luce dei fuochi. Da qualche parte si alzò un coro di voci maschili. Perrin si lasciò scivolare a terra, schiena contro il ceppo, e quasi subito si sentì prendere dalla sonnolenza.

Dopo un poco Raen disse a Elyas: «Hai incontrato altri gruppi di Tuatha’an, da quando ci hai fatto visita la primavera scorsa?»

Perrin aprì gli occhi e tornò a socchiuderli.

«No» rispose Elyas, senza togliersi di bocca la pipa. «Non mi piace avere intorno tanta gente tutta insieme.»

Raen ridacchiò. «Soprattutto se segue un sistema di vita all’opposto del tuo, eh? No, vecchio amico, non preoccuparti. Già da anni ho rinunciato a sperare che tu cambi idea. Ma, dopo il nostro ultimo incontro, ho udito una storia che potrebbe interessarti, se non la sai già. L’ho sentita ripetere ogni volta che ho incontrato altri Girovaghi.»

«Ti ascolto.»

«Ha inizio nella primavera di due anni fa. Una tribù di Girovaghi attraversava il Deserto seguendo la strada settentrionale...»

Perrin aprì subito gli occhi. «Il Deserto? Il Deserto dell’Aiel?»

«Alcuni possono entrarvi senza essere infastiditi» disse Elyas. «Menestrelli. Venditori ambulanti, se onesti. I Tuatha’an vi entrano quando vogliono. Anche mercanti di Cairhien solevano farlo, prima dell’Albero e della Guerra Aiel.»

«Gli Aiel ci evitano» disse Raen, in tono triste «anche se molti di noi hanno cercato di parlare con loro. Ci osservano da lontano, ma non si avvicinano né si lasciano avvicinare. A volte penso che forse conoscono il canto, per quanto sia improbabile. Non è curioso? Da quando un Aiel diventa uomo, canta solo canti di battaglia o lamenti funebri per i caduti. Li ho uditi cantare in onore dei propri morti e dei nemici uccisi. Un canto da far piangere le pietre.»

Perrin riconsiderò quella gente. Si era fatto l’idea che i Calderai fossero paurosi, con tutte quelle chiacchiere di scappare, ma nessun pauroso avrebbe mai pensato di attraversare il Deserto dell’Aiel. Da quanto aveva udito, solo i pazzi potevano provarci.

«Se è la storia di un canto...» cominciò Elyas, ma Raen scosse la testa.

«No, vecchio amico mio, non riguarda un canto. Però non saprei con esattezza che cosa riguardi.» Si rivolse a Perrin. «I giovani Aiel spesso viaggiano nella Macchia. Alcuni vanno da soli, pensando per qualche ragione d’essere stati chiamati a uccidere il Tenebroso. La maggior parte va in piccoli gruppi. A caccia di Trolloc.» Raen scosse la testa, con aria triste. «Due anni fa, una tribù di Girovaghi attraversava il Deserto, cento miglia a meridione della Macchia, e incontrò uno di questi gruppi.»

«Formato di giovani donne» intervenne Ila, rattristata quanto il marito. «Poco più che bambine.»

Perrin mandò un’esclamazione di sorpresa e Elyas sogghignò ironicamente.

«Le donne Aiel non devono accudire alla casa e alla cucina, se non vogliono, ragazzo. Possono unirsi a una società di guerriere, Far Dareis Mai, le Fanciulle della Lancia, e combattono a fianco degli uomini.»

Perrin scosse la testa. Nel vedere la sua espressione, Elyas rise.

Raen riprese a raccontare, con tono tra il perplesso e il disgustato. «Quelle ragazze erano tutte morte, tranne una, anche lei moribonda. Strisciò fino ai carrozzoni. Sapeva che erano dei Tuatha’an. Il suo ribrezzo superava il dolore, ma lei aveva un messaggio che considerava tanto importante da doverlo trasmettere a qualcuno, perfino a noi, prima di morire. Alcuni andarono a guardare se potevano aiutare le altre ragazze... bastava seguire la scia di sangue lasciata dalla moribonda... ma trovarono solo cadaveri e un numero triplo di Trolloc uccisi.»

Elyas si drizzò a sedere, lasciando quasi cadere la pipa. «Cento miglia nel Deserto? Impossibile. Djevik K’Shar, così i Trolloc chiamano il Deserto. La Terra Morente. Non entrerebbero di cento miglia nel Deserto nemmeno se tutti i Myrddraal della Macchia li spingessero.»

«Sai un mucchio di cose dei Trolloc, Elyas» disse Perrin.

«Continua la storia» disse Elyas a Raen, in tono sgarbato.

«Dai trofei che le Aiel avevano con sé, era evidente che tornavano dalla Macchia. I Trolloc le avevano seguite, ma, a giudicare dalle tracce, solo pochi erano sopravvissuti, dopo avere fatto strage delle Aiel. In quanto alla ragazza, non permise a nessuno di toccarla, nemmeno di pulirle le ferite. Ma afferrò per la giubba il Cercatore di quella tribù e disse, sono le sue parole: “Perduto, Seccafoglie intende accecare l’Occhio del Mondo. Intende uccidere il Gran Serpente. Perduto, avverti il Popolo. Arriva Bruciaocchi. Di’ al Popolo di prepararsi per Colui che Viene con l’Alba. Di’ al..." E morì. Seccafoglie e Bruciaocchi» spiegò a beneficio di Perrin «sono nomi Aiel per indicare il Tenebroso; ma del resto non capisco un accidente. Eppure la ragazza riteneva importantissimo il messaggio, tanto da rivolgersi a coloro che chiaramente aborriva, pur di trasmetterlo con il suo ultimo respiro. Ma a chi? Noi Girovaghi siamo il Popolo, ma non credo proprio che lei si riferisse a noi. Gli Aiel? Non ci darebbero l’opportunità di riferirlo, nemmeno se tentassimo.» Sospirò. «Ci ha chiamato Perduti! Non sapevo fino a che punto ci disprezzassero.» Ila lasciò cadere in grembo il lavoro a maglia e accarezzò la testa al marito.

«Qualcosa che hanno appreso nella Macchia» rifletté Elyas. «Ma quelle parole non hanno senso. Uccidere il Gran Serpente, cioè il Tempo stesso? E accecare l’Occhio del Mondo? Come dire che farà morire di fame una pietra. Forse la ragazza vaneggiava, Raen. Ferita, moribonda, avrà perso il contatto con la realtà. Forse non sapeva nemmeno chi fossero, quei Tuatha’an.»

«Sapeva benissimo cosa diceva e a chi lo diceva. Per lei era una cosa più importante della sua stessa vita... e noi non ne comprendiamo il significato. Quando ti ho visto entrare nell’accampamento, ho pensato che forse avremmo trovato finalmente la risposta, poiché sei stato...» Elyas mosse la mano in un rapido gesto e Raen cambiò il seguito della frase. «Poiché sei un amico e conosci molte cose bizzarre.»

«Non a questo proposito» disse Elyas, in un tono che poneva fine alla discussione. Intorno al fuoco il silenzio fu rotto solo dalla musica e dalle risate che giungevano da altre parti dell’accampamento.

Disteso con la schiena contro uno dei ceppi disposti intorno al fuoco, Perrin cercò di decifrare il messaggio della donna Aiel, ma le parole risultavano incomprensibili anche per lui. L’Occhio del Mondo. Era comparso nei suoi sogni, più d’una volta, ma lui non voleva pensare a quei sogni. E poi, Elyas. A proposito di quell’uomo, c’era una domanda di cui gli sarebbe piaciuto conoscere la risposta. Raen era stato sul punto di rivelare qualcosa, ma Elyas l’aveva interrotto.

Che cosa? E perché? Non riuscì a spiegarsi neanche questo. Allora cercò d’immaginare che aspetto avessero le ragazze Aiel... ragazze che andavano nella Macchia, dove si avventuravano solo i Custodi, a combattere i Trolloc... quando sentì tornare Egwene, canticchiando sottovoce.

Si alzò e andò a incontrarla al limitare del cerchio di luce del fuoco. Lei si fermò di colpo e lo guardò, con la testa inclinata. Nel buio Perrin non riuscì a leggere la sua espressione.

«Sei stata via parecchio» disse. «Ti sei divertita?»

«Abbiamo cenato con sua madre» rispose Egwene. «E poi abbiamo ballato... e abbiamo riso. Mi sembravano anni che non ballavo.»

«Quello lì mi ricorda Wil al’Seen. Hai sempre avuto il buon senso di non lasciarti menare per il naso da Wil.»

«Aram è un ragazzo gentile e di piacevole compagnia» replicò lei, con voce dura. «E divertente.»

Perrin sospirò. «Scusa. Sono contento che ti sia divertita a ballare.»

All’improvviso lei gli gettò le braccia al collo e si mise a piangere. Impacciato, Perrin le diede dei colpetti sui capelli. Rand saprebbe cosa fare, pensò. Rand ci sapeva fare, con le ragazze. Non come lui, che non sapeva mai cosa dire. «Ti ho chiesto scusa, Egwene. Davvero, sono contento che ti sia divertita. Sul serio.»

«Dimmi che sono vivi» mormorò lei, contro il suo petto.

«Eh?»

Egwene lo scostò e lo guardò in viso. «Rand e Mat. Gli altri. Dimmi che sono vivi.»

Perrin si guardò intorno, incerto. «Sono vivi» affermò alla fine.

«Bene.» Rapidamente Egwene si asciugò le guance. «Volevo sentirlo dire. Buonanotte, Perrin.» Si alzò in punta di piedi e con un bacio gli sfiorò la guancia; prima che lui potesse parlare, gli passò davanti.

Perrin si girò a guardarla. Ila si alzò e andò incontro a Egwene; parlottando, le due donne entrarono nel carrozzone. Rand capirebbe il motivo del suo comportamento, pensò Perrin; lui non ne aveva la minima idea.

In lontananza i lupi ulularono alla sottile falce di luna nuova e Perrin rabbrividì. L’indomani avrebbe avuto tempo di preoccuparsi di nuovo dei lupi. Ma si sbagliava. Aspettavano di dargli il benvenuto nei suoi sogni.

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