60 ANELLO EQUATORIALE

Rotolando con Calibano nel buio del terrazzo, a Daeman parve che il mostro cercasse di strappargli il braccio. In realtà, il mostro cercava davvero di strappargli il braccio. Solo le fibre metalliche della termotuta e la risposta automatica dell’indumento a chiudere ogni strappo impedivano ai denti di Calibano di strappare la carne dal braccio di Daeman e poi staccare le ossa l’una dall’altra. Ma la termotuta non avrebbe salvato ancora a lungo Daeman.

L’uomo e la belva in forma umana urtarono tavoli, rotolarono fra cadaveri di post-umani, andarono a sbattere contro una trave maestra e nella microgravità rimbalzarono su una parete di vetro. Calibano non mollava la presa e stringeva a sé Daeman, con le lunghe dita delle mani e quelle, palmate e prensili, dei piedi. A un tratto, sbavando, mollò la presa dei denti, tirò indietro la testa e si tuffò di nuovo verso il collo di Daeman. Di nuovo Daeman parò con l’avambraccio destro, di nuovo fu azzannato fino all’osso e gemette forte, mentre rimbalzavano contro la ringhiera del terrazzo. Malgrado il sistema automatico sigillante della termotuta, il sangue schizzò in globuli separati che scoppiavano nell’urto con la tuta di Daeman o con la pelle squamosa di Calibano.

Per un secondo i due rimasero incuneati contro la ringhiera del terrazzo e Daeman fissò Calibano negli occhi gialli, a solo qualche centimetro dai suoi. Se non ci fosse stato di mezzo l’avambraccio, capì, Calibano avrebbe squarciato con un morso la maschera osmotica e gli avrebbe strappato la faccia in un secondo; ma ciò che passò in realtà nella mente di Daeman in quel momento fu una semplice frase e un fatto sorprendente: "Non ho paura".

Non c’era spedale al quale faxare il suo cadavere e ripararlo in quarantott’ore o anche meno, non c’erano più vermi blu in attesa: qualsiasi cosa fosse accaduta, sarebbe stata permanente.

"Non ho paura."

Vide le orecchie da animale, il muso sbavante, le spalle squamose e pensò di nuovo che Calibano era fatto di carne e di ossa. Ricordò un particolare visto nella grotta, il rosa ripugnante dello scroto e del pene di quella creatura animalesca.

Quando Calibano staccò i denti per un altro tentativo, Daeman capì di non poter bloccare per la terza volta l’affondo verso la giugulare; allora protese in basso la mano libera, trovò due rotondità cedevoli e strinse come non aveva mai stretto nulla in vita sua.

Anziché terminare l’affondo, il mostro tirò indietro di scatto la testa, ruggì con tale forza che il rumore echeggiò nello spazio quasi privo d’aria e si dibatté per liberarsi. Daeman si chinò ancora di più, spostò in basso anche l’altra mano (il braccio destro gli sanguinava, ma le dita di quella mano gli funzionavano ancora) e strinse di nuovo, senza mollare la presa, lasciandosi trascinare da Calibano che si contorceva e scalciava per liberarsi. Immaginò di schiacciare pomodori, immaginò di spremere arance, di farne schizzare la polpa, e non allentò la presa (il suo mondo si era ridotto alla volontà di tenere duro e di strizzare) e Calibano ruggì di nuovo, mosse in un arco il lungo braccio e colpì Daeman, con tanta forza da farlo volare giù, sul terrazzo sottostante.

Per vari secondi Daeman, stordito, non pensò a difendersi, non capì neanche dove si trovasse. Ma Calibano non sfruttò quei secondi, era troppo impegnato ad agitare le braccia e a ululare e a piegarsi in due, sollevando le ginocchia squamose nel tentativo di accucciarsi e ingobbirsi. Proprio quando la vista di Daeman cominciò a schiarirsi, il mostro tornò sul terrazzo, afferrò la ringhiera e si lanciò per superare i cinque metri che lo separavano da Daeman. Le lunghe braccia e gli artigli erano già quasi pronti a ghermirlo.

Daeman tastò alla cieca fra sedie e tavoli intorno a sé, ritrovò il tubo di ferro, lo alzò a due mani e colpì selvaggiamente di lato la testa di Calibano. Il rumore del colpo fu molto soddisfacente. La testa di Calibano si spostò di lato e le braccia e il tronco andarono a sbattere contro Daeman, ma quest’ultimo spinse da parte la belva (ora cominciava a sentire che il braccio destro si intorpidiva), lasciò cadere il tubo, balzò verso la ringhiera del terrazzo e con un calcio si diede la spinta verso l’apertura semipermeabile nove metri più in alto.

Troppo lentamente.

Più avvezzo alla bassa gravità, alimentato da un odio ora al di là di misura umana, Calibano usò mani piedi, gambe e momento cinematico per rimbalzare dalla parete del terrazzo, afferrare con le dita palmate la ringhiera, accucciarsi, scattare e superare Daeman a mezz’aria nella corsa al pannello segnato, più in alto.

Vedendo che non ce l’avrebbe fatta, Daeman afferrò una trave maestra che sporgeva cinque metri sotto il pannello e si arrestò. Calibano atterrò sull’aggetto e allargò le braccia per bloccare l’accesso al riquadro bianco. Daeman non aveva modo di girare intorno alle braccia spalancate, di oltrepassare gli artigli pronti ad agguantarlo. Sentì all’improvviso il dolore del braccio azzannato e forato giungergli al cervello e al tronco come una scarica elettrica, poi avvertì il crescente intorpidimento come un preavviso della debolezza e dello shock che sarebbero presto seguiti.

Calibano gettò indietro la testa, ruggì di nuovo, mostrò i denti e cantilenò: «Ciò che odio, Lui consacra… ciò che mangio, Lui esalta! Non più compagno per te… carne in più per me!». Era pronto a balzare verso Daeman non appena questi si fosse girato per fuggire.

Vedendo le cicatrici vive sul petto di Calibano, Daeman si ritrovò a sorridere torvamente. "Savi l’ha ferito" pensò. "Non è morta senza lottare. E io neppure."

Anziché girarsi e fuggire, si tirò su in orizzontale sulla trave maestra, si accoccolò, raccolse le forze che gli restavano nelle gambe, abbassò la testa e si lanciò dritto contro il petto di Calibano.

Impiegò due o tre secondi ad attraversare lo spazio che li separava. Per un istante il mostro parve troppo sorpreso per reagire. In teoria il cibo non si comportava con quell’impertinenza, in teoria la preda non andava alla carica. Poi Calibano si rese conto che il pranzo veniva a lui e in pratica gli portava la tanto desiderata termotuta; allora mostrò tutti i denti in un sorriso che si mutò m ringhio. Lanciò braccia e gambe intorno all’umano in arrivo, in una stretta che, Daeman lo sapeva, non avrebbe allentato finché non lo avesse ucciso e iniziato a divorare.

Attraversarono insieme la membrana, Daeman con la sensazione di strappare una tenda di velo appiccicoso, Calibano urlando nell’aria sottile un secondo e nel gelido silenzio il secondo seguente. Insieme rotolarono nello spazio esterno e Daeman strinse Calibano con la stessa forza con cui era stretto da lui, premendo la mano sinistra contro il mento del mostro nel tentativo di tenere lontano i denti per gli otto o dieci secondi che riteneva sarebbero bastati.

La termotuta reagì immediatamente al vuoto, si serrò saldamente sulle carni di Daeman, si restrinse fino a comportarsi come una tuta a pressione, chiudendo anche i varchi molecolari che avrebbero lasciato uscire nello spazio aria o sangue o calore. La maschera osmotica gonfiò il visore trasparente e commutò al cento per cento la purificazione del respiro riciclato dell’uomo. Tubuli refrigeranti nella termotuta lasciarono che il naturale sudore di Daeman scorresse rapidamente in canali, raffreddando il lato rivolto al sole mentre il calore corporeo veniva trasferito alla parte del corpo nell’ombra a duecento gradi sotto zero. Tutto avvenne in una frazione di secondo e Daeman nemmeno se ne accorse. Era troppo impegnato a spingere indietro la mascella di Calibano e in alto il suo muso, per tenere i denti lontano dalla propria gola e dalla spalla.

Calibano era troppo forte. Scosse la testa, la sottrasse alla spinta sempre più debole di Daeman e spalancò le fauci per urlare di trionfo, prima di azzannare la gola della preda.

L’aria si precipitò fuori dal torace e dalla bocca di Calibano come acqua da una zucca sfondata. La saliva si ghiacciò appena schizzata nel vuoto. Calibano si premette le orecchie, ma con un attimo di ritardo: i timpani gli esplosero e globuli di sangue schizzarono nello spazio. Meno di un secondo più tardi, i globuli cominciarono a bollire nel vuoto, al pari del sangue nelle vene.

Gli occhi di Calibano presero a gonfiarsi e altro sangue schizzò dai condotti lacrimali. Il muso si mosse su e giù mentre la bocca si apriva come quella di un pesce, sibilando in silenzio nel vuoto, ansimando per aspirare aria senza trovarla. La parte esterna degli occhi sporgenti cominciò a congelare e a diventare opaca.

Daeman intanto si era liberato; ruzzolò sul terrazzo esterno (rischiò di galleggiare via, impotente, nello spazio, ma riuscì ad afferrare la ringhiera) e si tirò su, una mano dopo l’altra, fino al ben noto sonie legato alla piastra metallica. Non voleva correre. Non voleva girare la schiena a Calibano. Voleva stare lì e uccidere con le sue mani il mostro che ancora si dibatteva.

Ma ora una di quelle mani non funzionava più. Quando si diede la spinta per superare gli ultimi tre metri fino al basso veicolo, Daeman scoprì che il braccio destro gli penzolava, inerte, lungo il fianco. "Harman" pensò. "Hannah."

Un essere umano privo di protezione nel vuoto spaziale sarebbe già morto (pur sapendo ben poco di qualsiasi cosa, Daeman lo intuiva con chiarezza) ma Calibano non era umano. Sputando sangue e aria congelata come un’orribile cometa che facesse evaporare la sua stessa bollente materia di superficie nell’avvicinarsi al Sole, Calibano rotolò, agitò le braccia, trovò appiglio nella griglia metallica del terrazzo, si diede la spinta e attraversò di nuovo la parete semipermeabile, ritrovando l’aria e un relativo calore.

Daeman era troppo impegnato per guardare. Disteso bocconi sui cuscini del posto di guida, usò la sinistra per tirarsi addosso la rete di cinture di sicurezza; poi si girò verso il piano metallico dove si sarebbe dovuto trovare il pannello di comando virtuale. Vide che era spento.

"Come lo accendo?" si chiese. "Cosa faccio, se non ci riesco? Savi come lo accendeva?"

Aveva la mente vuota. Il campo visivo gli si restrinse, mentre puntini neri gli danzavano davanti agli occhi. In iperventilazione, prossimo a perdere i sensi, cercò, frenetico, di richiamare alla mente l’immagine di Savi che pilotava il sonie, che accendeva il pannello di comando. Non riusciva a ricordare.

«Calma. Sta’ calmo. Sta’ calmo.» La voce era la sua, eppure gli era al tempo stesso estranea: una voce più vecchia, ferma, divertita. «Procedi con calma.»

Daeman obbedì, si costrinse innanzitutto a respirare a ritmi umani, poi a rallentare il battito cardiaco, poi a concentrare la vista e la mente.

«Savi non usava comandi a voce?» Non avrebbe funzionato, lì nello spazio. Niente aria, niente suoni. L’aveva detto Savi. O forse Harman. In quei giorni imparava da tutti. «Come, allora?» Si costrinse a rilassarsi un po’ di più, chiuse gli occhi, cercò di richiamare alla mente l’immagine di Savi che pilotava il sonie dall’iceberg, quella prima notte di volo.

«Per accendere le apparecchiature passò la mano sotto la camicia metallica qui in basso, vicino alla maniglia.»

Mosse la sinistra. Comparve il pannello di comando virtuale. Usando solo la sinistra, chiudendo gli occhi quando doveva ricordare con imaggiore chiarezza, Daeman mosse le dita nelle sequenze di comando sul multicolore pannello virtuale. Il campo di forza si accese. Un attimo dopo, Daeman udì con sorpresa un ruggito e alzò gli occhi, ma era solo l’aria che riempiva lo spazio racchiuso nel campo di forza, proprio come aveva comandato con le dita. Con l’aria giunse una voce: «Modalità manuale o pilota automatico?».

Daeman sollevò un poco la maschera osmotica, quasi pianse nel respirare la prima dolce aria che gustava da un mese a quella parte e disse: «Manuale».

Comparve la cloche, circondata da un’aura virtuale. La cloche parve solida, nella sinistra di Daeman.

Senza badare agli ormeggi, di cui si ricordò solo quando vide le bande elastiche staccarsi e volare nello spazio, Daeman sollevò il sonie tre metri sopra il terrazzo metallico, mosse la cloche, alimentò i propulsori posteriori, andò fuori rotta, si allineò di nuovo in tutta fretta prima di urtare contro la parete metallica anziché contro la finestra e colpì, a una sessantina di chilometri all’ora, il riquadro semipermeabile.

Calibano era in attesa sull’aggetto interno. Con traiettoria perfetta balzò verso la testa di Daeman, ma cozzò contro il campo di forza. Rimbalzò e rotolò nel vuoto al centro della torre.

Daeman compì un largo giro, per abituarsi a pilotare, e mosse la cloche per dare maggiore potenza. Il sonie toccò gli ottanta chilometri all’ora. Calibano alzò gli occhi sanguinanti e li spalancò: fu colpito nella sezione mediana dalla prua del sonie, volò nello spazio aperto della torre e andò a schiantarsi contro travi maestre e vetri nella parte opposta.

A Daeman sarebbe piaciuto trattenersi a giocare (il desiderio di farlo era più forte del dolore acuto al braccio destro) ma i suoi amici là sotto morivano lentamente. Inclinò il sonie in una virata e si tuffò dritto verso la base della città, più di cinquanta piani in basso.

Quasi non frenò in tempo: il sonie tosò le zolle, tagliò i fuchi e lanciò da tutte le parti erba secca, ma poi Daeman lo portò in volo orizzontale e ridusse un poco la velocità. Il tragitto di venticinque minuti percorso a balzi dallo spedale alla torre richiese ora solo tre minuti di volo.

L’ingresso non era abbastanza largo per il sonie. Daeman portò indietro la macchina volante, diede più spinta e rese permeabile per sempre la membrana semipermeabile. Schegge di vetro, di metallo e di plastica seguirono il sonie, mentre Daeman volava tra vasche di guarigione scure e vuote. Trasalì nello scorgere in alcune il corpo esangue di coloro che non avevano fatto in tempo a salvare. Poi fermò il sonie, spense il campo di forza e saltò giù accanto ai due corpi distesi sul pavimento.

Harman aveva lasciato addosso a Hannah la tuta termica, tenendo per sé, nei minuti finali, solo la maschera osmotica. Il suo corpo nudo era livido e pallido nel riflesso della luce dei fari del sonie. La bocca di Hannah era spalancata, come in un ultimo, vano sforzo di immettere più aria nei polmoni. Daeman non perdette tempo a controllare se erano vivi. Usando solo il braccio sinistro, li alzò da terra e li distese negli incavi ai lati del suo. Indugiò solo un attimo, poi saltò giù di nuovo, lanciò nell’incavo posteriore lo zaino di Savi e sul proprio bracciolo la pistola; quindi riprese posto e accese il campo di forza.

«Ossigeno puro» disse al sonie, mentre cominciava l’afflusso d’aria. La fredda aria pulita divenne più densa ed ebbe su di lui un effetto esilarante, tanto era ricca d’ossigeno. Daeman armeggiò nel pannello di comando virtuale, facendo scattare parecchi segnali d’allarme, ma alla fine trovò il riscaldamento. Aria calda uscì dalla console e da varie bocchette.

Harman cominciò a tossire, imitato da Hannah qualche secondo più tardi. I due batterono le palpebre, aprirono gli occhi, misero a fuoco la vista.

Daeman sorrise con aria sciocca.

«Dove… dove!…» ansimò Harman.

«Calma, calma» disse Daeman, muovendo lentamente il sonie verso l’uscita dello spedale. «Non avere fretta.»

«Tempo… il tempo…» ansimò Harman. «L’acceleratore… lineare.»

«Oh, merda!» disse Daeman. Si era dimenticato della struttura in arrivo, non aveva mai guardato nello spazio per vedere a che punto era.

Diede al sonie la massima spinta, varcò il buco dove c’era stata la membrana e accelerò verso l’uscita della torre.


Nella torre non c’era traccia di Calibano. Daeman descrisse un’ampia curva, infilò con precisione, come un ago, il pannello d’uscita della torre e dal terrazzo esterno salì nello spazio.

«Oddio» alitò Harman.

Hannah strillò, il primo suono che aveva emesso da quando era stata ripescata dalla vasca di guarigione.

L’acceleratore lineare, lungo tre chilometri, era così vicino che il collettore del wormhole sulla prua riempiva due terzi del cielo e oscurava sole e stelle. Propulsori si accendevano in moduli quadrati per tutta la sua lunghezza, facendo le ultime correzioni di rotta prima dell’impatto. Daeman non sapeva il nome delle varie parti, ma riusciva a distinguere ogni particolare: le lucenti controventature, gli anelli levigati ora butterati da innumerevoli colpi di micrometeoriti, la serie di serpentine di raffreddamento, la lunga linea di ritorno color rame sopra il nucleo principale dell’acceleratore, i lontani fasci di iniettori e la rotante sfera color terra-e-mare dello stesso wormhole prigioniero. L’acceleratore divenne più grande sotto i loro occhi, oscurando le ultime stelle in alto, e la sua ombra cadde sulla città di cristallo che si estendeva per due chilometri sotto di loro.

«Daeman…» cominciò Harman.

Daeman aveva già reagito, aumentando al massimo la spinta e curvando sopra la torre, la città, l’asteroide, tuffandosi verso la grande curva azzurra della Terra, mentre dietro di loro l’acceleratore copriva le ultime centinaia di metri.

Per un istante le torri della città furono sopra di loro, mentre il sonie eseguiva il giro della morte, e poi leggermente indietro, quando la massa in corsa colpì la città e l’asteroide, e la sfera wormhole si schiantò contro le torri e la città allungata, un paio di secondi prima della struttura metallica dell’acceleratore stesso. Il wormhole collassò silenziosamente in se stesso e l’acceleratore lineare parve schiacciarsi a fisarmonica nel nulla; poi la piena forza dell’impatto divenne evidente, mentre tutti e tre gli umani si giravano negli incavi e piegavano il collo per vedere alle proprie spalle.

Non ci fu alcun suono. Fu proprio questo a colpire maggiormente Daeman: il puro silenzio del momento. Neanche una vibrazione. Neanche uno dei soliti indizi che sulla Terra indicavano un grande cataclisma in atto.

Ma un grande cataclisma era in atto, eccome.

La città di cristallo esplose in milioni di milioni di frammenti, vetro fuso e gas ardente che si espandevano in tutte le direzioni. Grandi palle di fiamme si gonfiarono verso l’esterno per un chilometro, due chilometri, dieci chilometri, come se cercassero di acchiappare il sonie in picchiata, ma poi le enormi fiammate parvero ripiegarsi all’interno, come un’immagine video che scorresse al contrario, mentre il fuoco consumava l’ultimo ossigeno sfuggito.

La città sul lato opposto dell’asteroide rispetto al punto d’impatto fu espulsa nello spazio, si frantumò in mille traiettorie separate, mentre vetro e acciaio e pulsante materia esotica volavano via: molte sezioni celebrarono la loro distinta orgia di distruzione, costellata ovunque da altre esplosioni silenziose e da palle di fuoco che si consumava da solo.

Un secondo dopo l’impatto, l’intero asteroide lungo due chilometri tremò e mandò nello spazio, dietro i detriti della città, onde concentriche di polvere e di gas. Poi si frammentò.

«Presto!» disse Harman.

Daeman agiva d’istinto. Aveva spinto a tutta velocità il sonie verso la Terra, tenendosi appena un po’ più avanti delle fiamme e dei detriti e delle onde di gas congelati, ma ora vedeva varie spie d’allarme, rosse e gialle e verdi, in tutto il pannello di comando. Ma ciò che era peggio, negli ultimi secondi aveva notato rumori provenienti dall’esterno del sonie, un sibilo sospetto e uno scricchiolio che crebbero di secondo in secondo fino a diventare un rombo terrificante. Peggio di tutto, un bagliore arancione intorno ai bordi del sonie diventò rapidamente una sfera di fiamme e di plasma blu elettrico.

«Cosa c’è?» gridò Hannah. «Dove siamo?»

Daeman non le badò. Non sapeva come manovrare l’acceleratore e il comando di assetto. Il rombo aumentò di volume e l’involucro di fiamme intorno a loro divenne più denso.

«Siamo stati danneggiati?» gridò Harman.

Daeman scosse la testa. Non credeva che il sonie avesse subito danni. Forse il rombo aveva a che fare con il rientro nell’atmosfera terrestre a quella velocità. Una volta, quando aveva sei o sette anni, in casa di un amico di sua madre a Cratere Parigi, malgrado gli ammonimenti si era lasciato scivolare su una lunga ringhiera, era saltato giù a grande velocità e aveva strisciato con le mani e le ginocchia sul folto tappeto. Si era procurato estese bruciature e non aveva più ripetuto la bravata. Ora aveva l’impressione che si trattasse di un attrito simile.

Decise di non esporre a Harman e a Hannah la sua teoria. Pareva una scemenza, perfino a lui.

«Fa’ qualcosa!» gridò Harman, superando il rombo e gli scricchiolii intorno a loro. I due uomini avevano i capelli e la barba ritti, al centro di quella follia elettrica. Hannah, calva, priva dei magnifici capelli, si guardava intorno, a occhi sbarrati, come se si fosse risvegliata in un manicomio.

Prima che il rumore soffocasse ogni cosa, Daeman gridò ai comandi virtuali: «Pilota automatico!».

«Inserire il pilota automatico?» chiese la voce neutra del sonie, quasi impercettibile nel rombo del rientro.

Daeman sentiva il calore penetrare nel campo di forza e capì che non era un buon segno. «Inserire il pilota automatico!» gridò, con quanto fiato aveva in gola.

Il campo di forza scese sui tre passeggeri, li schiacciò contro gli incavi, mentre la console si capovolgeva e i motori di poppa si accendevano con tale violenza che Daeman pensò che i denti gli sarebbero saltati via. Sentiva un tremendo dolore al braccio, compresso dalla decelerazione.

«Rientro secondo il piano di volo già programmato?» chiese con calma il sonie, parlando come l’idiot savant che era.

«Va bene» gridò Daeman. Aveva male al collo per la terribile pressione, era sicuro che la spina dorsale gli si sarebbe spezzata.

«È un’affermazione?» chiese il sonie.

«Sì, è un’affermazione!» gridò Daeman.

Altri propulsori si accesero e il sonie parve saltare come una pietra piatta lanciata su uno specchio d’acqua; fu avvolto altre due volte nelle fiamme del rientro e poi in qualche modo tornò a un assetto normale.

Daeman alzò la testa.

Erano in volo: volavano così in alto che davanti a loro si vedeva ancora la curvatura della Terra, così in alto che le montagne molto più in basso erano riconoscibili solo dalla bianca coltre di neve, contro il marrone e il verde del terreno. Ma volavano. C’era aria, fuori.

Daeman lanciò un grido di esultanza, si sporse e strinse Hannah, nella termotuta azzurra, poi gridò di nuovo e alzò il pugno verso il cielo in un gesto di trionfo.

Si bloccò, col pugno alzato e gli occhi in su. «Oh, merda» disse.

«Cosa c’è» chiese Harman, sempre nudo, a parte la maschera osmotica che gli pendeva intorno al collo. Guardò in alto, seguendo lo sguardo di Daeman. «Oh, merda» disse.

La prima di migliaia di palle di fuoco — detriti della città o dell’acceleratore lineare o dell’asteroide frantumato — passò rombando a meno di un chilometro da loro, lasciando una scia verticale di fiamme e di plasma lunga quindici chilometri, rischiando di capovolgere il sonie per la violenza dello spostamento d’aria. Altri meteoriti piovvero rombando verso di loro dal cielo fiammeggiante.

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