47 VILLA ARDIS

Il mattino della prima Ventina di Hannah, dopo avere accompagnato la sua giovane amica fino al nodo fax e controllato che due servitori e un voynix la scortassero nel padiglione, Ada cominciò a preoccuparsi sul serio.

Aveva cominciato a preoccuparsi per Harman già il secondo giorno dopo che lui era volato via con Daeman e Savi. Non si aspettava, a dire il vero, che lui venisse in picchiata a prenderla a bordo della nave spaziale come aveva promesso (una fantasia infantile alla quale pensava che neppure lui credesse) ma pensava che i tre sarebbero tornati in sonie nel giro di due o tre giorni. Dopo quattro giorni la preoccupazione si mutò in collera. Dopo una settimana tornò a essere preoccupazione, più profonda, più tormentosa di quanto non avesse mai provato. Ada cominciò ad avere difficoltà a dormire. Dopo due settimane, non sapeva più che cosa pensare.

Il quattordicesimo mattino dalla partenza dei tre, senza avere ricevuto notizie da amici in visita (e ora senza dubbio centinaia e centinaia di persone venivano in visita a villa Ardis) Ada percorse su un calesse tirato da un voynix il breve tratto fino al portale fax e dopo un solo minuto di esitazione (che cosa poteva succederle, in fondo, se si fosse faxata?) uscì a Cratere Parigi e andò nel domi della madre di Daeman.

La madre di Daeman era fuori di sé per l’ansia. Daeman a volte si tratteneva settimane a una festa (era perfino andato per un mese intero a caccia di farfalle, quando gli mancava un anno a compiere la prima Ventina) ma le faceva sempre sapere dove si trovava e quando sarebbe tornato. Nelle ultime due settimane… niente.

«Al suo posto non starei troppo in pensiero» la consolò Ada, dando all’anziana signora qualche colpetto sul braccio. «Il nostro amico Harman veglierà su Daeman; e la donna che abbiamo conosciuto, Savi, veglierà su entrambi.» Quelle parole consolarono la madre di Daeman, ma resero Ada più ansiosa che mai.


Ora, due settimane dopo la visita a Cratere Parigi, sentendo già la mancanza di Hannah, ma sapendola al sicuro nello spedale, Ada si trovò assorta nei pensieri durante il viaggio in calesse sulle colline, diretta verso casa.

Nell’ultimo mese a villa Ardis c’era stata una vera invasione. Due settimane prima Ada era tornata da Cratere Parigi di notte, perciò durante questa corsa di mattina, dall’alto della strada che portava alla villa, vedeva davvero i cambiamenti per la prima volta nelle ultime quattro settimane; lo spettacolo la lasciò senza fiato.

Decine e decine di tende colorate circondavano la vecchia, bianca costruzione sulla collina. All’inizio, solo dieci o venti visitatori, per la maggior parte uomini, erano venuti ad ascoltare Odisseo che parlava nel grande prato declinante dietro la casa; ma le decine erano diventate centinaia e al momento alcune migliaia di visitatori si erano faxati lì. Villa Ardis aveva solo una decina di calessi e di troike che si stavano consumando (come i voynix stranamente pigri) nel trasportare dal nodo fax alla casa il continuo flusso di gente, a tutte le ore del giorno e della notte, cosicché alcuni volontari dei primi giorni di insegnamento di Odisseo facevano i turni al portale fax ed esortavano la costante fila di visitatori a percorrere a piedi l’incredibile distanza di due chilometri fino alla villa. E quelli andavano a piedi. E a piedi tornavano al portale fax e poi si ripresentavano, qualche giorno o addirittura solo qualche ora più tardi, con altri, in maggioranza sempre uomini.

Ora, mentre la troika si fermava nell’affollato vialetto circolare davanti a villa Ardis, Ada capì che la sua isolata tenuta era diventata semplicemente parte di una città in espansione. Le decine di tende, montate dai voynix ma ora curate da uomini e donne, comprendevano cucine, padiglioni da pranzo, gabinetti (Odisseo aveva mostrato agli uomini come preparare una latrina) e tende per dormire. La madre di Ada era venuta in visita una volta, durante quella follia; sconvolta dalle decine di persone che giravano per villa Ardis come se fosse un pubblico mercato, si era immediatamente faxata nel suo domi a Ulanbat e non era più tornata.

Ada accettò una bevanda fredda da uno dei volontari permanenti, un giovanotto di nome Reman, che si faceva crescere la barba come molti altri discepoli di Odisseo, e tornò nel prato dove Odisseo parlava e rispondeva alle domande quattro o cinque volte al giorno, davanti a una folla sempre più numerosa. Ada aveva quasi intenzione di interrompere le inutili conferenze dell’arrogante barbaro per chiedergli, davanti a tutti, perché mai lui, Odisseo, non si era preoccupato di dire addio alla ragazza che lo adorava.


La notte precedente, durante la festa per la prima Ventina di Hannah (i festeggiamenti si tenevano sempre la vigilia del compleanno, giorno in cui il festeggiato si sarebbe faxato nello spedale) Odisseo aveva fatto appena una comparsa a cena. Ada sapeva che Hannah ci era rimasta male. La ragazza era ancora convinta d’essere innamorata di Odisseo, anche se lui pareva indifferente ai sentimenti di lei. Al ritorno dal viaggio, Hannah era stata l’ombra di Odisseo, ma lui pareva non averlo notato. Quando aveva rifiutato l’ospitalità di Ada e aveva preferito accamparsi nella foresta, Hannah aveva tentato di accompagnarlo, ma Odisseo aveva insistito perché lei dormisse nella grande casa. Nel corso di ogni giornata, mentre Odisseo correva, si allenava e in seguito faceva la lotta con i discepoli maschi, Hannah era sempre nelle vicinanze, correva, si arrampicava sulle funi del percorso a ostacoli, si offriva per gli incontri di lotta. Odisseo rifiutava sempre di misurarsi con la bella ragazza.

Alla festa per la prima Ventina, ognuno degli ospiti, in tutto una decina, seduti intorno al tavolo preparato sotto la grande quercia, aveva fatto il discorso tradizionale (congratulazioni a Hannah per la prima visita allo spedale, auguri di lunga vita felice e in buona salute) ma Odisseo, quando fu il suo turno, si limitò a dire: «Non andarci». Più tardi, in camera di Ada, Hannah aveva pianto; aveva addirittura preso in considerazione l’idea di non andarci davvero, di nascondersi in qualche modo ai servitori che in quel momento le ricamavano la lunga veste da cerimonia per la Ventina; ma ovviamente non poteva non andarci. Tutti ci andavano. Ada ci era andata. Harman ci era andato quattro volte. Perfino Daeman era andato allo spedale due volte, una per la sua prima Ventina e l’altra dopo l’incidente con l’allosauro. Tutti ci andavano.

Così quel mattino, quando Hannah era scesa dalla sua camera indossando la prescritta veste di cotone adorna solo del piccolo, tradizionale ricamo riproducente il caduceo — due serpenti guaritori azzurri intrecciati intorno a un bastone — Odisseo non era lì a salutare la sua giovane amica.

Ada era furibonda, mentre viaggiavano su una troika di villa Ardis verso il padiglione fax. Hannah aveva pianto un poco, girando il viso per non farsi vedere dall’amica. Era sempre stata la ragazza più dura che Ada avesse mai conosciuto, l’artista e l’atleta, la temeraria e la scultrice, ma quel mattino pareva una bimba smarrita.

«Forse mi presterà maggiore attenzione quando sarò tornata dallo spedale» aveva detto Hannah. «Forse domani gli sembrerò più donna.»

«Forse» aveva detto Ada, ma pensava che tutti gli uomini parevano maiali egoisti, interessati e insensibili in cerca solo dell’occasione per agire ancora di più da maiali egoisti, interessati e insensibili.

Hannah aveva un’aria così fragile, mentre i due servitori si libravano fuori del padiglione fax, tenendola ciascuno per un braccio, e la conducevano al portale. Era una bellissima giornata, cielo sereno, lieve brezza da ovest, ma non sarebbe cambiato niente se fosse piovuto, per quanto riguardava l’umore di Ada. La ragazza non riusciva a spiegarsi la sensazione d’un imminente, tragico destino: aveva visto decine di amiche partire per lo spedale al compimento della Ventina e ci era andata lei stessa (aveva solo un nebuloso ricordo di galleggiare in un liquido tiepido); ma aveva pianto anche lei, quando Hannah aveva alzato il braccio e agitato la mano in segno di saluto, in quel secondo prima che il portale fax la trasferisse via, fuori vista. Il viaggio di ritorno a villa Ardis, da sola, non aveva fatto altro che intensificare la sua ira verso Odisseo, verso Harman e verso gli uomini in generale.


Così Ada si sentiva tutt’altro che un’amorevole discepola, mentre risaliva la collina dietro villa Ardis per ascoltare la conferenza che Odisseo teneva per i fedeli e i curiosi.

Il tarchiato uomo barbuto, vestito con tunica e sandali, con la spada al fianco, sedeva contro l’albero morto che egli stesso aveva tagliato; intorno a lui e sparsi per il pendio che saliva verso la villa c’erano diverse centinaia di persone, uomini e donne, seduti o in piedi. Molti uomini portavano ora una tunica simile a quella di Odisseo, stretta in vita dallo stesso tipo di larga cintura di cuoio. Parecchi si lasciavano crescere la barba, che Ada non ricordava fosse mai stata di moda in vita sua.

In quel momento Odisseo rispondeva alle domande. Ada sapeva che di solito teneva un discorso di una novantina di minuti, un’ora dopo il sorgere del sole, e poi passeggiava da solo per ore; nell’ora prima del pranzo rispondeva alle domande, parlava di nuovo senza interruzioni nel pomeriggio e s’intratteneva a discorrere nelle lunghe ore di crepuscolo dopo il tramonto. Adesso c’era la riunione prima di pranzo.

«Maestro, perché dobbiamo scoprire chi è nostro padre? Non ha mai avuto importanza, prima.» Uno degli ultimi arrivati, un giovanotto, aveva alzato la mano e posto la domanda.

Quando Odisseo parlava, aveva notato Ada nel corso dell’ultimo mese, di solito teneva le mani protese, dritte, puntando le dita, tozze e forti, come per far apprezzare l’importanza del proprio punto di vista. Aveva braccia e gambe abbronzate, robuste. Per la prima volta Ada notò che una parte degli uomini con la barba, fra gli spettatori, cominciava ad abbronzarsi e a irrobustirsi. Odisseo aveva montato un percorso a ostacoli, funi e pali e pozze di fango, nella foresta sulla collina ed esigeva che chi lo ascoltava più di due volte si esercitasse almeno un’ora al giorno a percorrerlo. Molti uomini (e alcuni discepoli donne) avevano riso all’idea, la prima volta che lo avevano provato, ma adesso ogni giorno passavano ore a completarlo o a correre. Ada non sapeva che cosa pensare.

«Se non conosci tuo padre» rispose Odisseo, con voce bassa, calma, ferma, che pareva giungere sempre tanto lontano quant’era necessario «come puoi conoscere te stesso? Io sono Odisseo, figlio di Laerte. Mio padre è un sovrano, ma anche un uomo della terra. Quando lo vidi per l’ultima volta, il vecchio era in ginocchio a piantare un albero dove un esemplare gigantesco era caduto, tagliato da lui stesso, alla fine, perché colpito da un fulmine. Se non conosco mio padre e suo padre prima di lui e ciò che valgono quegli uomini, ciò per cui sono vissuti e per cui erano disposti a morire, come posso conoscere me stesso?»

«Parlaci ancora di areté» disse un uomo in prima fila. Ada riconobbe in lui Petyr, uno dei primi visitatori. Petyr non era più un ragazzo (secondo Ada, era già nella quarta Ventina) ma aveva una barba ormai folta quasi come quella di Odisseo. Ada era sicura che non avesse più lasciato villa Ardis, dopo avere sentito parlare Odisseo, il secondo o terzo giorno, quando i visitatori si contavano sulle dita di due mani.

«Areté è semplicemente la capacità di eccellere in tutte le cose e l’impegno per riuscirvi» disse Odisseo. «Areté significa offrire tutte le azioni come una sorta di sacramento all’eccellenza, di dedicare la propria vita a trovare l’eccellenza, a riconoscerla quando si presenta e a raggiungerla prima della morte.»

Uno dei nuovi, dieci file più su lungo il pendio, un uomo massiccio che a Ada ricordò un poco Daeman, si mise a ridere e chiese: «Come puoi raggiungere l’eccellenza in tutte le cose, Maestro? Perché dovresti volerlo? Parrebbe terribilmente faticoso». Si guardò intorno, in attesa della risata generale, ma gli altri lo fissarono in silenzio e tornarono a guardare Odisseo.

Il greco sorrise (un lampo di denti bianchi e forti, contro la pelle abbronzata e la corta barba grigia) e disse: «Non si può arrivare all’eccellenza in tutte le cose, amico mio, ma bisogna provarci. E come si potrebbe non volerlo?».

«Ma ci sono tante di quelle cose da fare» rise l’altro. «Non ci si può allenare in tutte. Bisogna fare una scelta e concentrarsi su quelle importanti.» Strinse la giovane donna accanto a lui, chiaramente la sua compagna, e lei rise forte, ma fu l’unica a farlo.

«Sì» disse Odisseo «ma tu insulti tutte quelle azioni nelle quali non onori areté. Mangiare? Mangia come se fosse il tuo ultimo pasto. Prepara il cibo come se non ce ne fosse più! Sacrificare agli dèi? Devi compiere ogni sacrificio come se la vita della tua famiglia dipendesse dalla tua energia e devozione e concentrazione. Amare? Sì, ama come se fosse la cosa più importante al mondo, ma rendila solo una stella nella costellazione di eccellenza che è areté.»

«Non capisco l’agon, Odisseo» disse una giovane donna nella terza fila. Ada sapeva che si chiamava Peaen. Era intelligente, scettica su tutto, ma si tratteneva lì da quattro giorni.

«L’agon è semplicemente la comparazione di tutte le cose simili, una con l’altra» spiegò Odisseo a bassa voce, ma chiaramente «e giudicare una cosa come uguale, superiore o inferiore rispetto a un’altra. Tutte le cose dell’universo partecipano alla dinamica dell’agon.» Indicò l’albero morto su cui sedeva. «Quest’albero era superiore, inferiore o solo uguale a quello là?» Indicò un albero alto e rigoglioso sulla collina, al limitare della foresta. All’ombra dei rami c’erano dei voynix. I voynix non si avvicinavano mai a Odisseo.

«Quell’albero è vivo» replicò a voce alta il tipo massiccio che era intervenuto poco prima. «Non può non essere superiore a un albero morto.»

«Tutte le cose viventi sono dunque superiori a quelle morte?» replicò Odisseo. «Molti di voi hanno seguito il dramma del lino e assistito alla battaglia che vi si svolge. Un mercante di letame vivo oggi è migliore di Achille, anche se Achille oggi è morto?»

«Così si paragonano cose dissimili» obiettò una donna.

«No. Tutt’e due sono uomini. Tutt’e due nacquero. Tutt’e due moriranno. Poco importa se uno respira ancora e l’altro risiede solo nelle ombre dell’Ade. Bisogna poter paragonare gli uomini, o le donne, e per questo dobbiamo conoscere nostro padre, nostra madre. La nostra storia. Le nostre storie.»

«Be’, l’albero su cui siedi, Maestro, è sempre morto» disse Petyr. Stavolta varie persone, su e giù per il pendio, risero.

Odisseo si unì alle risate. Indicò un passero che si era appena posato su uno dei pochi rami che lui non aveva tagliato dall’albero caduto. «Non solo è sempre morto» disse «è morto di fresco. Ma già la sua utilità, in termini di agon, ha superato l’utilità di quell’albero vivo lassù. Per quel passero. Per gli insetti che in questo stesso momento scavano nella corteccia di questo gigante caduto. Per topi e arvicole e animali più grandi che presto verranno ad abitare questo albero morto.»

«Chi sarà allora il giudice finale dell’agon?» chiese un uomo più anziano, serio, nella quinta fila. «Uccelli, insetti o uomini?»

«Tutti» rispose Odisseo. «Ciascuno a turno. Ma l’unico giudice che conti sei tu.»

«Non è arroganza?» obiettò una donna che Ada riconobbe come un’amica di sua madre. «Chi ci ha eletto giudici? Chi ci ha dato il diritto di giudicare?»

«L’universo vi ha eletti, mediante quindici miliardi di anni di evoluzione» disse Odisseo. «Vi ha dato occhi con cui vedere. Mani con cui reggere e soppesare. Un cuore con cui sentire. Una mente con cui apprendere le regole del giudizio. E un’immaginazione con cui tenere conto del giudizio di uccelli e d’insetti e perfino di altri alberi in questa faccenda. E dovete accostarvi a questo giudizio guidati dall’areté… Credetemi, insetti e uccelli e alberi già lo fanno. Non hanno tempo per la mediocrità, nel loro mondo. Non si preoccupano se sia arrogante giudicare nella scelta di un compagno, di un nemico… o di una casa.» Odisseo indicò il punto dove il passero era saltato in un buco del tronco ed era scomparso nella cavità dell’albero caduto.

«Maestro» disse un giovanotto in fondo alla folla «perché ci chiedi di fare la lotta almeno una volta al giorno?»

Ada aveva ascoltato abbastanza. Terminò la bevanda fredda e tornò alla villa, fermandosi nella veranda a guardare l’ampio prato erboso dove decine di visitatori — anzi, discepoli — passeggiavano e parlavano tra loro. I lembi di seta delle tende si agitavano nella tiepida brezza. Servitori passavano da un visitatore all’altro, ma pochi ospiti accettavano i cibi o le bevande offerti. Odisseo aveva preteso che coloro che si fermavano ad ascoltarlo più di una volta non permettessero ai servitori di lavorare per loro né ai voynix di servirli. All’inizio molti se n’erano andati per non sottostare a questa condizione, ma un numero sempre maggiore restava.

Ada guardò il cielo, notò i pallidi cerchi dei due anelli orbitanti e pensò a Harman. Si era così arrabbiata con lui, quando aveva parlato di donne che sceglievano fra lo sperma degli uomini mesi o anni o decenni dopo il rapporto (di quell’argomento non si discuteva, semplicemente, tranne che fra madri e figlie; e anche in quel caso, solo una volta). E quella sciocchezza sul fatto che c’entrassero i geni di una falena, come se le donne umane non avessero scelto in quel modo, da tempo immemorabile, il padre del figlio loro assegnato. Harman era stato davvero… disgustoso… a sollevare l’argomento.

Tuttavia, ciò che l’aveva sconcertata maggiormente era stata la dichiarazione del suo nuovo amante di voler essere il padre del figlio di Ada, non solo quello il cui seme sarebbe stato scelto in un futuro più o meno lontano, ma di voler essere presente, riconosciuto come padre; e lei si era infuriata al punto da lasciarlo partire per quell’innocua avventura con Savi e Daeman, senza nemmeno una parola gentile. Anzi, a dire il vero, con parole e occhiate ostili.

Si toccò il ventre. Lo spedale non le aveva notificato tramite i servitori che era giunto per lei il momento di procreare; ma, d’altro canto, lei non aveva chiesto d’essere messa in lista. Era felice di non dover scegliere a breve scadenza fra i — come li aveva chiamati, Harman? — fra i pacchetti di sperma. Ma pensò a Harman, ai suoi occhi intelligenti, amorevoli, al suo tocco gentile e fermo, al suo corpo anziano ma appassionato, e si toccò di nuovo il ventre.

«Aman» mormorò a se stessa. «Figlio di Harman e di Ada.»

Scosse la testa. Le ciance di Odisseo, nelle ultime settimane, le avevano riempito la testa di sciocchezze. Il giorno prima, seccata, aveva atteso che le decine e decine di discepoli, sceso il buio, si allontanassero verso il padiglione fax o le tende (più verso le tende che non verso il nodo fax) e aveva chiesto bruscamente a Odisseo per quanto tempo ancora si sarebbe trattenuto a villa Ardis.

Il vecchio le aveva sorriso, quasi con tristezza. «Non molto, mia cara.»

«Una settimana?» aveva insistito Ada. «Un mese? Un anno?»

«Non così tanto» aveva risposto Odisseo. «Solo finché il cielo non comincerà a cadere, Ada. Solo finché nuovi mondi non compariranno nel tuo cortile.»

Furiosa per la sua impertinenza, tentata di ordinare ai servitori di sfrattare immediatamente l’irsuto barbaro, Ada era corsa in camera da letto, l’ultimo rifugio privato che le era rimasto a villa Ardis, divenuta ormai un luogo pubblico, e vi si era distesa, sveglia, infuriata con Harman, rattristata senza Harman, preoccupata per Harman, anziché ordinare ai servitori di liberarla del vecchio Odisseo.

Ora si girò per entrare in casa, ma con la coda dell’occhio notò un bizzarro movimento e tornò a voltarsi. Sulle prime pensò si trattasse solo della rotazione degli anelli, come sempre; poi guardò meglio e vide un’altra striatura, come un diamante che incidesse una linea nel perfetto vetro azzurro del cielo. Poi un’altra incisione, più larga, più brillante. Poi ancora un’altra, così luminosa e così netta da mostrare con chiarezza le fiamme che si allungavano in coda alla banda di luce. Pochi secondi più tardi, tre sordi bang sonici echeggiarono nel prato e indussero i discepoli a fermarsi e a guardare in alto; perfino i servitori e i voynix si immobilizzarono.

Ada udì grida e urla dalla collina dietro la villa. La gente sul prato indicava il cielo.

Ora decine di linee lo deturpavano: vivide linee fiammeggianti che squarciavano e intersecavano la volta celeste, cadendo da ovest a est, alcune con scie colorate, altre con rombi e rimbombi terrificanti.

Il cielo cadeva.

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