Afrodite mi ha imposto di fare la spia e conosco la punizione che noi mortali abbiamo sempre riservato alle spie. Posso immaginare ciò che gli dèi faranno a me. Anzi, ripensandoci, preferisco non immaginarlo.
Stamattina, il giorno dopo la mia promozione ad agente segreto della dea dell’amore, Atena si telequanta giù da Olimpo e si morfizza in un troiano, il lanciere Laodoco. Zeus ha ordinato che i guerrieri di Ilio rompano la tregua; per ubbidire all’ordine, Atena cerca l’arciere Pandaro, figlio di Licaone.
Reso invisibile dall’Elmo di Ade, sfrutto il medagEone TQ avuto per uso personale dalla mia Musa e mi telequanto dietro Atena; poi mi morfizzo in un troiano di nome Echepolo e seguo la dea travestita.
"Perché ho scelto Echepolo?" mi chiedo. "Come mai mi è noto il nome di questo condottiero di secondaria importanza?" Mi rendo conto allora che a Echepolo restano poche ore di vita: se Atena riesce per mezzo di Laodoco a infrangere la tregua, questo troiano (almeno secondo Omero) sta per beccarsi in piena testa una lancia degli argivi.
"Be’, il signor Echepolo riavrà corpo e identità, prima che ciò accada."
Nell’Iliade di Omero la rottura della tregua avvenne subito dopo che Afrodite sottrasse Paride al duello a singoiar tenzone contro Menelao; ma qui, nella realtà di questa guerra di Troia, il mancato scontro fra Menelao e Paride si è verificato anni fa. Questa tregua è più terrena, una di quelle in cui alcuni rappresentanti di re Priamo si incontrano con alcuni araldi degli achei e insieme elaborano un difficile accordo per sospendere il combattimento in occasione di feste o di funerali o di altri simili eventi. Secondo me, una delle ragioni per cui l’assedio si è trascinato per quasi dieci anni è proprio il gran numero di interruzioni dei combattimenti: greci e troiani hanno tante festività religiose quante ne avevano gli indù del ventesimo secolo e tante festività laiche quante gli impiegati delle poste americani. Ci si chiede come trovino il tempo di uccidersi l’un l’altro, fra tutte queste feste e sacrifici agli dèi e funerali con dieci giorni di celebrazioni.
Ciò che mi affascina adesso, a così breve distanza dalla solenne decisione di ribellarmi alla volontà degli dèi (col solo risultato di ritrovarmi, molto più di prima, una semplice pedina nelle loro mani), è una domanda: con quanta rapidità e con quanta precisione gli eventi reali di questa guerra possono divergere dai particolari nel racconto di Omero? Le differenze avvenute in passato (la sequenza del "raduno degli eserciti", per esempio, o il momento del mancato duello fra Paride e Menelao) sono state discrepanze secondarie, facilmente spiegabili con la necessità di Omero di includere nel breve arco del poema, incentrato sul decimo anno della guerra, certi eventi già accaduti. Ma se gli eventi prendono realmente un corso diverso? Se, per dire, stamattina mi avvicino ad Agamennone e pianto questa lancia (la lancia del povero Echepolo già condannato, certo, ma sempre una lancia funzionante) nel cuore del re? Gli dèi possono fare molte cose, ma non possono riportare in vita i mortali defunti. (E nemmeno gli dèi defunti, per quanto suoni come ossimoro.)
"Chi sei tu, Hockenberry, per opporti al Fato e sfidare la volontà degli dèi?" chiede una vigliacca, professorale, spregevole vocina che ho ascoltato e seguito per la maggior parte della mia vita reale.
"Sono io, Thomas Hockenberry" è la risposta del me stesso attuale, frammentato come più non si potrebbe. "E al momento ne ho fin sopra i capelli di questi delinquenti corrotti dal potere che si definiscono dèi."
Ora, nel ruolo di spia più che di scoliaste, sono abbastanza vicino da udire il dialogo fra Atena (morfizzata come Laodoco) e quel buffone (ma bravo arciere) di Pandaro. Parlando come fra guerrieri troiani colleghi, Atena/Laodoco fa appello alla vanità di quell’idiota, gli dice che, se ucciderà Menelao, il principe Paride lo coprirà di doni, lo paragona addirittura all’arciere per antonomasia, Apollo, se sarà tanto abile da fare centro.
Pandaro abbocca, ingoia amo, lenza e piombo ("Atena infiammò il cuore del povero sciocco" è la descrizione di quel momento fatta da un bravo traduttore) e dice ad alcuni compagni di coprirlo con gli scudi, mentre prepara il lungo arco e sceglie la freccia perfetta per l’assassinio. Per secoli gli scoliasti, gli studiosi dell’Iliade, hanno dibattuto se greci e troiani usassero o no frecce avvelenate. Molti, me compreso, sostenevano di no: un simile comportamento non pareva adattarsi agli alti standard dell’onore in battaglia di quegli eroi. Ci sbagliavamo. Usano il veleno. Ed è un veleno micidiale e di rapido effetto. Questo spiega come mai gran parte delle ferite citate nell’Iliade risultino rapidamente fatali.
Pandaro scocca la freccia. È un ottimo tiro. Seguo il dardo che vola per decine di metri, tracciando un arco, e corre verso il fratello di Agamennone. Trafiggerà Menelao che, alla testa dei suoi guerrieri, guarda gli araldi discutere nella terra di nessuno. Cioè, lo trafiggerà se non interviene nessun dio amico dei greci.
Un dio interviene. Con la vista potenziata vedo Atena abbandonare il corpo di Laodoco e telequantarsi a fianco di Menelao. In questo caso la dea fa il doppio gioco: con l’inganno induce i troiani a rompere la tregua e poi corre ad assicurarsi che uno dei suoi preferiti, Menelao, non resti ucciso. Ammantata dalla testa ai piedi, invisibile ad amici e nemici, ma non a questo scoliaste, devia con una manata la freccia, come una madre scaccia una mosca che ronza sul figlioletto addormentato. (Credo d’avere rubato l’immagine, ma è passato un mucchio di tempo da quando lessi l’Iliade, in traduzione o in originale, e non ne sono sicuro.)
Tuttavia, malgrado la manata, la freccia va a bersaglio. Menelao lancia un grido di dolore e cade a terra, con la freccia che sporge dalla parte mediana del corpo, poco sopra l’inguine. Possibile, mi chiedo, che Atena abbia fallito?
Gran confusione. Gli araldi di Priamo scappano dietro le linee troiane e i negoziatori achei corrono a ripararsi dietro gli scudi dei greci. Agamennone, che sfruttava la tregua per ispezionare le truppe (forse l’ispezione è stata predisposta stamattina per mostrare la sua supremazia, dopo l’ammutinamento di Achille), accorre e trova suo fratello che si torce sul terreno, tra una piccola folla di condottieri e luogotenenti.
Punto un corto bastone. Anche se assomiglia a quel genere di bastone da comando che un condottiero troiano di secondaria importanza potrebbe portare per vanteria, questo non appartiene a Echepolo, ma a me, fa parte della dotazione standard di noi scoliasti. In realtà è una sorta di microfono direzionale che raccoglie e amplifica suoni lontani fino a tre chilometri e li trasmette agli auricolari che porto ogni volta che mi trovo nella piana di Ilio.
Agamennone declama un eccezionale panegirico del fratello morente. Lo vedo cullare tra le braccia la testa e le spalle di Menelao e lo sento proclamare le terribili vendette che lui, Agamennone, scatenerà sui troiani per l’assassinio del nobile Menelao; poi si lamenta di come gli achei (malgrado la sanguinosa vendetta di Agamennone) perderanno animo, rinunceranno alla guerra e riporteranno a casa le nere navi, dopo la morte di Menelao. In fin dei conti, a cosa serve riprendere Elena, se il suo cornificato marito è morto? Sorreggendo il fratello gemente, Agamennone profetizza: «E le tue ossa le farà imputridire il terreno, a giacer qui nella pianura di Troia, dopo il fallimento dell’impresa». Roba allegra, proprio quella che un moribondo vuole ascoltare.
«Un momento, un momento» borbotta a denti stretti Menelao. «Aspetta a seppellirmi, grande fratello. La freccia non si è conficcata in un punto vitale. Vedi? Ha trapassato la bronzea cintura da guerra e mi ha ferito nei rotoli di grasso di cui volevo liberarmi, non nelle palle o nella pancia.»
«Ahhh, sì» dice Agamennone, corrucciato, vedendo che la freccia è penetrata appena nella carne. Pare quasi, non del tutto, deluso. Il panegirico, che adesso si rivela di dubbia utilità, doveva avergli richiesto non poco lavoro per comporlo.
«Ma la freccia è avvelenata» ansima Menelao, come nel tentativo di rallegrare il fratello. Ha i capelli impiastricciati di sudore e di erba, perché nel cadere a terra ha perduto l’elmo dorato.
Agamennone si rialza, lascia di colpo Menelao (che sbatterebbe la testa, se i condottieri non lo prendessero al volo) chiama a gran voce Taltibio, il suo araldo, e gli ordina di trovare Macaone, figlio di Asclepio, suo medico personale e anche molto bravo, poiché si ritiene abbia appreso l’arte da Chirone, il centauro amico degli uomini.
Ora pare di essere su un qualsiasi campo di battaglia di qualsiasi epoca: un caduto che grida e impreca e si lamenta, mentre il dolore comincia a superare l’iniziale shock del ferimento, amici raccolti intorno a lui, ginocchio a terra, impotenti, inutili, poi l’arrivo del medico e dei suoi assistenti, gli ordini, l’estrazione della bronzea punta di freccia dentellata e la carne lacerata, il veleno succhiato via, l’applicazione di bende pulite sulla ferita… e tutto mentre Menelao continua a strillare come un maiale sgozzato.
Agamennone lascia il fratello alle cure di Macaone e va a incitare i suoi uomini a combattere, anche se gli achei (oggi senza Achille nelle loro file) sembrano di malumore, rabbiosi, corrucciati e hanno ben poco bisogno d’incitamento per combattere.
Nel giro di venti minuti dal mal riuscito tiro di Pandaro, la tregua è saltata e i greci attaccano le linee troiane lungo una fascia di polvere e di sangue lunga tre chilometri.
Per me è tempo di uscire dal corpo di Echepolo, prima che il povero figlio di puttana si becchi una lancia in fronte.
Non ricordo molto della mia vita reale sulla terra. Non ricordo se ero sposato, se avevo figli, dove vivevo (a parte confuse immagini di uno studio tappezzato di libri dove leggevo e preparavo le lezioni) e ancora meno ricordo il piccolo college dove insegnavo nella West-Central New York, a parte immagini di edifici di pietra e di mattoni su una collina con un meraviglioso panorama verso est. Una delle bizzarrie di essere scoliaste è che, col passare dei mesi e degli anni, ritornano frammenti di memoria non indispensabile: questa potrebbe essere una delle ragioni per cui gli dèi non ci permettono di vivere a lungo. Io sono l’eccezione più vecchia.
Ma ricordo classi e facce di miei studenti, le mie lezioni, alcune discussioni intorno a un tavolo ovale. Ricordo una ragazza dal viso fresco chiedere: "Ma perché la guerra di Troia è durata così tanto?". Ricordo anche d’avere avuto la tentazione di farle notare che lei era cresciuta in un’epoca di pasti veloci e di guerre rapide — McDonald’s e la guerra del Golfo, Arby’s e la guerra contro il terrorismo — ma che nei tempi antichi i greci e i loro nemici non pensavano di affrettare una guerra più di quanto non pensassero di affrettare un buon pranzo.
Anziché offendere i brevi momenti d’attenzione dei miei allievi, spiegai alla classe come quegli eroi accettassero volentieri la guerra, come una delle loro parole per indicare il combattimento era charme, che veniva dalla stessa radice di charo, "rallegrarsi". Lessi loro una scena dove due guerrieri che si affrontavano erano descritti come charmei gethosunoi, "esultanti in battaglia". Spiegai il concetto greco di aristeia — azione eroica, combattimento in singoiar tenzone o in piccoh gruppi, nel quale un individuo può dimostrare il suo valore — e quale importanza rivestisse per quegli antichi, al punto che spesso la battaglia era interrotta in modo che i soldati di ciascuna parte potessero assistere a simili esempi di aristeia.
"Allora, cioè, significa, cioè…" balbettò una studentessa dal viso che lasciava intravedere il movimento di rotelline nel cervello, con quel modo di parlare che illustrava l’irritante difetto di parola e di pensiero che si diffondeva come un virus fra i giovani americani durante la fine del ventesimo secolo "che la guerra finiva, cioè, molto prima, se loro, cioè, non si fermavano per questa aristi… comesichiama?"
"Esattamente" avevo detto con un sospiro, guardando il vecchio orologio Hamilton sulla parete, con la speranza che fosse già l’ora della liberazione.
Ora, dopo più di nove anni passati a guardare aristeia dal vivo, posso dire con certezza che quelle singoiar tenzoni così care a troiani e argivi sono davvero una delle ragioni di questo assedio prolungato, infinito, lento come colata di melassa. E come accade perfino ai più sofisticati americani di classe media che viaggiano troppo a lungo in Francia, adesso provo il forte desiderio di tornare al pranzo veloce… o, in questo caso, alla guerra rapida. Un piccolo bombardamento, una piccola invasione aviotrasportata, bim bum bam, grazie signora e a casa da Penelope.
Ma non oggi.
Echepolo è il primo condottiero troiano a morire nell’attacco degli achei.
Forse il poveraccio è ancora intontito e disorientato perché ho preso in prestito il suo corpo; fatto sta che il suo gruppo di guerrieri viene alle prese con un gruppo di greci guidati dal figlio di Nestore, Antiloco, buon amico di Achille, e il povero Echepolo è lento nell’alzare la lunga lancia, cosicché Antiloco assesta il colpo per primo. La punta di bronzo colpisce il cimiero dell’elmo dalla folta criniera di cavallo e prosegue nella corsa, trapassa il cranio di Echepolo e gli fa uscire fra i denti il cervello. Echepolo cade, per usare un’espressione cara a Omero, come torre che crolla.
Ora inizia una scena che ho visto fin troppe volte, ma che non manca mai d’affascinarmi. Greci e troiani combattono in primo luogo per farsi onore, è vero, ma pensando anche al bottino. Sono professionisti: uccidere è il loro lavoro e il bottino è la loro paga. Onore e bottino consistono in gran parte nella complessa e ben lavorata armatura (scudo, corazza, schinieri, cinturone) dei nemici uccisi. Prendersi l’armatura di un nemico è l’equivalente greco della conta dei colpi di un guerriero sioux, ma molto più remunerativo. Nel peggiore dei casi, l’armatura di un condottiero è di prezioso bronzo, ma spesso, per i più importanti, è d’oro battuto, decorata con pietre preziose.
Comincia così il combattimento per le spoglie del defunto Echepolo.
Un condottiero acheo di nome Elefenore corre avanti, afferra per le caviglie Echepolo e comincia a trascinare via il corpo insanguinato, nella mischia di lance e di spade e di scudi che cozzano. Nel corso degli anni ho visto Elefenore in giro nel campo acheo, l’ho osservato combattere in scaramucce minori e devo dire che il nome gli calza a pennello: è enorme, spalle gigantesche, braccia poderose, cosce massicce, non la lama più affilata nel mazzo di guerrieri d’Agamennone, ma un combattente grande, forte, coraggioso e utile. Ecco quindi che Elefenore, figlio di Calcodonte, trentotto anni lo scorso giugno, condottiero degli abanti e signore di Eubea, trascina il cadavere di Echepolo dietro il riparo delle lance degli attaccanti achei e comincia a spogliarlo.
Poi Agenore, un guerriero troiano, figlio di Antenore, padre di Echeclo (tutti da me visti nelle vie di Ilio) scivola fra gli achei in lotta e scorge il costato esposto di Elefenore, mentre il colosso si china al riparo dello scudo per terminare di spogliare il cadavere di Echepolo. Agenore balza avanti e gli conficca la lancia nel fianco, gli spezza le costole e gli riduce il cuore a una massa informe. Elefenore vomita sangue e crolla. Alcuni guerrieri troiani vengono avanti e respingono l’attacco degli achei, mentre Agenore libera la lancia e comincia a spogliare Elefenore di cinturone e schinieri e corazza. Altri troiani trascinano verso le proprie linee il cadavere quasi nudo di Echepolo.
Il combattimento turbina intorno a questi due caduti. L’acheo di nome Aiace — Aiace il Grande, il cosiddetto Aiace Telamonio di Salamina, da non confondersi con Aiace il Piccolo, che comanda i locresi — si apre la strada a colpi di spada, rinfodera il brando e usa la lancia per abbattere un troiano molto giovane, Simoesio, avanzato a coprire la ritirata di Agenore.
Solo una settimana prima, morfizzato da Stenelo, nella sicurezza dei tranquilli parchi cinti di mura di Ilio, avevo bevuto vino e scambiato storie licenziose proprio con Simoesio. Quel ragazzo sedicenne (mai sposato, mai portato a letto da una donna) mi aveva raccontato che suo padre, Antemione, gli aveva dato il nome del fiume Simoenta che scorre nelle vicinanze della loro modesta casa, a poco più di un chilometro dalle mura della città. Quando le nere navi degli achei erano comparse all’orizzonte, Simoesio non aveva ancora sei anni e fino a qualche settimana fa suo padre non aveva voluto che si unisse all’esercito fuori delle mura di Troia. Simoesio mi aveva confessato la propria paura di morire… non della morte in sé, aveva detto, ma di morire senza avere ancora toccato il seno di una donna né provato cosa significhi essere innamorati.
Ora Aiace il Grande lancia un grido e spinge avanti la lancia, scosta lo scudo di Simoesio e colpisce il ragazzo al petto, sopra il capezzolo destro, gli fracassa la spalla e la bronzea punta sporge di due palmi dalla schiena maciullata. Simoesio barcolla sulle ginocchia e fissa con stupore prima Aiace, poi la lancia che gli trafigge il petto. Aiace il Grande pianta il sandalo in faccia a Simoesio e tira via la lancia, lasciando che il ragazzo cada bocconi nella polvere inzuppata di sangue. Poi batte il pugno sulla corazza e grida ai suoi uomini di seguirlo.
Un troiano, Antifo, distante non più di otto metri, scaglia la lancia contro Aiace il Grande. La lancia manca il bersaglio, ma colpisce all’inguine un acheo, Leuco, che aiutava Odisseo a trascinare via il cadavere di un altro condottiero troiano. La lancia trapassa l’inguine di Leuco e la punta fuoriesce dall’ano, portando con sé spire grigie e rosse d’intestino. Leuco cade sul cadavere del troiano, ma vive ancora per un terribile momento, si torce, afferra la lancia e la strappa via, col solo risultato di spargersi in grembo altre parti d’intestino. Mentre strappa la lancia, grida e tira per il braccio insanguinato l’amico Odisseo.
Finalmente Leuco muore, occhi vitrei, una mano ancora stretta sulla lancia di Antifo e l’altra sul polso di Odisseo. Odisseo si libera dalla stretta del morto e si gira, occhi fiammeggianti sotto il bordo dell’elmo di bronzo, cercando un bersaglio, uno qualsiasi. Scaglia la lancia e le corre dietro. Altri achei lo seguono nel varco che crea nelle file troiane.
Il colpo di lancia di Odisseo uccide Democoonte, figlio bastardo di Priamo re di Ilio. Ero nella città, nove anni fa, il mattino in cui Democoonte giunse per difendere Ilio. Era noto a tutti che Priamo aveva affidato al giovane la responsabilità delle famose scuderie di cavalli da corsa ad Abido, città a nordest di Troia, sulla spiaggia meridionale dell’Ellesponto, per tenerlo lontano dagli occhi della propria moglie e dei figli legittimi. I cavalli di Abido erano i più veloci e i migliori del mondo e si diceva che Democoonte considerasse un onore la nomina a capo delle scuderie a una così giovane età. Ora quel ragazzo troiano gira la testa al rabbioso grido di guerra di Odisseo e la bronzea punta gli penetra nella tempia sinistra, gli trapassa il cranio, fuoriesce dalla tempia destra, lo sbatte a terra e lo inchioda alla fiancata di un cocchio rovesciato. Democoonte non saprà mai da che cosa è stato colpito.
I troiani si ritirano lungo tutta la linea, arretrano di fronte alla furia di Odisseo e di Aiace, cercano di portare con sé i cadaveri dei nobili guerrieri caduti, quando possibile, o li abbandonano quando non è possibile.
Ettore, il più valoroso e magnanimo guerriero di Ilio, salta giù dal cocchio di comando, si fa strada fra i guerrieri in ritirata, cercando l’occasione di usare la lancia e la spada, e incita i troiani a non cedere terreno; ma l’attacco acheo è troppo forte in questo saliente e perfino Ettore è costretto ad arretrare, incitando al contempo i suoi uomini alla disciplina. Nel ritirarsi, i troiani combattono e menano fendenti e lanciano giavellotti.
Morfizzato in un lanciere troiano minore, arretro più rapidamente di molti, tenendomi fuori portata dei giavellotti, senza tema di mostrare codardia. Poco prima mi ero nascosto alla vista dei mortali e avevo cominciato ad avanzare verso un punto da dove avrei potuto vedere Atena dietro le linee achee (presto raggiunta da Era, tutt’e due invisibili agli uomini) ma la battaglia è scoppiata troppo rapidamente e ha avuto un rapido crescendo di ferocia; così, dopo la caduta di Echepolo, ho lasciato le prime linee e mi sono affidato alla vista potenziata e al microfono direzionale per seguire gli eventi.
All’improvviso tutto si blocca. L’aria diventa densa. I giavellotti si arrestano in volo, il sangue smette di scorrere. Uomini lontani solo qualche secondo dalla morte ottengono una dilazione di cui non sapranno mai niente, mentre tutti i rumori cessano e ogni movimento di ferma.
Gli dèi giocano di nuovo col tempo.
Apollo giunge per primo, si telequanta col cocchio non lontano da Ettore. Poi compare Ares, dio della guerra; per un minuto parla con ira ad Atena e a Era, poi col cocchio sorvola i fronti di battaglia e atterra accanto ad Apollo. Afrodite si unisce a loro, rivolge dalla mia parte (mi fingo impietrito come gli altri mortali) un’occhiata che dura solo un istante, poi sorride e parla ai suoi due alleati favorevoli ai troiani, Ares e Apollo. Con la coda dell’occhio la osservo: gesticola e indica il campo di battaglia come un George Patton dal seno prorompente.
Gli dèi sono qui per combattere.
Apollo alza la mano, tornano i rumori, il tempo ricomincia come uno tsunami di polvere e di movimento e le uccisioni riprendono sul serio.