Savi corse per un’altra ora circa lungo la strada d’argilla rossa, guidando il crawler nei campi e nelle pieghe del bacino del Mediterraneo. Era buio e adesso pioveva forte; i fulmini illuminavano la sfera di vetro dello scomparto passeggeri e i tuoni la facevano vibrare. In un lampo più luminoso, Daeman indicò le croci e le sagome umanoidi appese. «Cosa sono? Persone?»
«Non persone» rispose Savi. «Calibani.»
Prima che lei potesse spiegarsi, Daeman disse: «Dobbiamo fermarci».
Savi arrestò il veicolo, accese i fari e i proiettori, si tolse gli occhiali per la visione notturna. «Cosa c’è che non va?» Evidentemente aveva notato il disagio dipinto sul viso di Daeman.
«Muoio di fame.»
«Nello zaino ho due tavolette nutritive…»
«Muoio di sete.»
«E una bottiglia d’acqua. Possiamo aprire la bolla e raccogliere un po’ d’acqua piovana, fredda e potabile…»
«Devo andare al gabinetto» disse Daeman. «Non ce la faccio più.»
«Ah, certo» disse Savi. «Il crawler ha un mucchio di belle cose, ma non una toilette a bordo. Una fermata per riposarci sarà utile a tutti.» Toccò due pulsanti virtuali: il campo di forza smise di tenere lontano dal vetro la pioggia e una sezione laterale della bolla si aprì. L’aria era fresca e odorava di campi bagnati e di messi.
«Fuori?» disse Daeman senza alcun tentativo di nascondere l’orrore. «All’aperto?»
«Nel campo di mais» disse Savi. «Lì c’è maggiore privacy.» Dallo zaino tolse un rotolo di carta igienica e ne diede un poco a Daeman.
Daeman, sconvolto, fissò la carta igienica.
«Approfitto anch’io della sosta» disse Harman, prendendo un po’ di carta igienica. «Forza, Daeman. Signori a destra del crawler, signore a sinistra.» Varcò l’apertura e scese la scaletta. Daeman lo seguì, tenendo la carta igienica come un talismano, e Savi scese dietro di loro, con più grazia di quanta ne avesse mostrata lui.
«Vengo anch’io a destra» disse la vecchia. «Dietro un altro filare, forse, ma non troppo distante.»
«Perché?» cominciò Daeman, ma vide la pistola nella mano di Savi. «Oh, capisco.»
Savi s’infilò nella cintura la pistola e tutti e tre lasciarono la strada, attraversarono un piccolo fossato e un breve tratto fangoso ed entrarono tra i filari di mais. Ora pioveva a dirotto.
«Ci inzupperemo» disse Daeman. «Non ho portato i miei vestiti ad asciugamento automatico…»
Savi guardò il cielo, mentre un fulmine saettava fra le nubi e il tuono echeggiava nel vasto bacino. «Nello zaino ho le vostre termotute. Tornati nel crawler, vi metterete quelle, in attesa che i vestiti si asciughino.»
«Hai voglia di dirci cos’altro tieni in quel magico zaino?» disse Harman.
«Alcune tavolette nutritive. Caricatori di dardi. Un rilevatore di posizione. Delle mappe che ho disegnato io stessa. Le nostre termotute. Una bottiglia d’acqua. Un maglione di scorta che porto sempre con me. Tutto qui.»
Per quanto fosse ansioso di rifugiarsi nella privacy del campo di granturco, Daeman esitò sul limitare e scrutò all’intorno. «È sicuro, qua fuori?»
Savi si strinse nelle spalle. «Non ci sono voynix.»
«E i… come li hai chiamati?»
«Calibani» disse Savi. «Non preoccuparti di quelli, stanotte.»
Daeman annuì ed entrò fra le piante di granturco. Gli steli erano più alti di lui di quasi un metro. La pioggia picchiettava forte sulle larghe foglie. Daeman tornò fuori. «È buio pesto, là dentro.»
Harman era già scomparso tra le piante; Savi camminava nell’altra direzione, ma si fermò, si girò, tornò indietro e porse a Daeman la torcia elettrica. «A me bastano i fumimi» disse.
Daeman si inoltrò fra gli alti steli, per otto o dieci file, per allontanarsi dal bordo del campo quanto bastava a non essere visibile. Poi avanzò di altre otto o nove file, per tenersi sul sicuro. Trovò un posto forse un po’ meno fangoso, si guardò intorno, posò la torcia contro uno stelo in modo che il raggio illuminasse solo verso l’alto (ricordò a quel punto il raggio azzurro a Gerusalemme) e poi si calò i calzoni, si accosciò e con le mani scavò un buco poco profondo. "Come l’aveva chiamato, Savi?" pensò. "Campeggio?"
Quando ebbe finito (un sollievo davvero enorme, malgrado le barbare circostanze) si arrangiò meglio che poteva con la carta igienica bagnata, trovò che non bastava, la gettò nel buco fangoso e tastò il gonfiore nella tasca della giubba. Estrasse i settanta centimetri di materiale piegato che portava sempre con sé. Il suo lino personale. Alla luce riflessa dagli steli illuminati dalla torcia esaminò il fine tessuto e i magnifici microcircuiti ricamati che portavano al cervello il dramma del lino. Per anni aveva avuto l’abitudine di guardare di tanto in tanto i troiani guerreggiare contro gli achei, ma dopo avere conosciuto il vero Odisseo (ammesso che l’uomo barbuto fosse Odisseo, cosa che non gli pareva affatto verosimile) aveva perso interesse nel dramma. Odisseo non solo era andato a letto con una delle ragazze che lui progettava di sedurre, Hannah, ma si era fermato a villa Ardis, con Ada, che lui considerava l’obiettivo primario. Tuttavia tenne fra le mani il magnifico pezzo di lino, come se lo soppesasse.
"Al diavolo!" pensò. Lo adoperò (traendo un inatteso piacere nel trattare in quel modo, per interposto lino, l’arrogante Odisseo) lo gettò nel buco, vi scalciò sopra un po’ di fango, si tirò su i calzoni e si aggiustò la giubba, cercò di lavarsi le mani contro gli steli bagnati di pioggia, poi raccolse la torcia e camminò per una quindicina di file per uscire dal campo.
Ma non arrivava mai alla fine. Dopo una quarantina di file, fu sicuro d’avere sbagliato direzione. Girò su se stesso per stabilire quale fosse la parte giusta (doveva solo seguire a ritroso le impronte nel fango) ma così perdette l’orientamento e non fu più in grado di stabilire in quale direzione puntare. E non trovava più le impronte. I fulmini erano molto frequenti, adesso, e la pioggia cadeva con forza maggiore.
«Aiuto!» gridò Daeman. Attese un secondo, non udì risposta e gridò di nuovo: «Aiuto! Mi sono perso qua dentro!». Tutt’e due le volte un tuono soffocò gran parte del grido.
Daeman si voltò di nuovo, tornò a girarsi, decise che quella era di sicuro la direzione giusta e cominciò a correre fra le alte piante di granturco, piegando gli steli, colpendoli con la piccola torcia. Si dimenticò di contare le file, ma ne aveva percorse almeno quaranta o cinquanta, quando si fermò di nuovo.
«Aiuto! Sono qui!» Stavolta non ci furono tuoni a soffocare il grido, ma non venne risposta, nessun rumore, tranne il forte picchiettio della pioggia sulle foghe e il cic ciac delle scarpe da città piene d’acqua.
Daeman cominciò a muoversi una fila per volta, a guardare da una parte e dall’altra alla ricerca di luce o di movimento, senza pensare se in quel modo si allontanava di più dagli altri due. Dopo vari minuti fu obbligato a fermarsi per prendere fiato.
«Aiuto!» Il fulmine cadde a poco più di un chilometro e il tuono mosse la cima delle piante come un’onda d’urto. Daeman batté le palpebre per eliminare le immagini residue del lampo e notò che il granturco pareva meno fitto, più avanti sulla sua destra. Era di sicuro il limitare del campo, pensò.
Corse per l’ultima quindicina di file e sbucò all’aperto.
Non era il punto da dove era entrato nel campo, ma una radura, larga forse sei metri e lunga dieci. Al centro, due metri più alta del granturco, c’era una grande croce metallica. Daeman spostò il raggio della torcia e la illuminò dalla base alla cima.
La figura non era inchiodata sulla croce metallica, pareva invece annidata nella sommità, in una incavatura della croce stessa: il tronco nudo incuneato nell’asta verticale, le braccia estese sulla traversa orizzontale. Il raggio della torcia tremolava nel diluvio, mentre Daeman fissava la figura.
Non era un uomo… almeno, non un uomo come quelli che Daeman aveva già visto. Era una creatura umanoide, nuda e lucida, squamosa e verdastra… non il verde di un pesce, ma quel verde che Daeman aveva sempre immaginato come il colore dei cadaveri, prima che lo spedale ponesse fine a simile barbarie. Le squame, piccole e numerose, luccicavano alla luce della torcia. La creatura era muscolosa, ma i muscoli erano "sbagliati": braccia troppo lunghe, avambracci troppo smilzi, polsi troppo robusti, nocche esageratamente larghe, artigli gialli al posto di unghie, fianchi troppo grossi, piedi con tre sole dita assai distanziate. Era un maschio (il pene e lo scroto erano oscenamente visibili, di un rosa sgargiante sotto lo stomaco corrugato e l’addome muscoloso, anch’essi sbagliati, tanto da far pensare a una tartaruga o uno squalo con genitali quasi umani) ma il grosso torace, il collo da serpente e la testa glabra erano le parti d’aspetto meno umano. La pioggia correva lungo muscoli, squame, fasci di legamenti e gocciolava sul ruvido metallo nero della croce.
Gli occhi erano infossati sotto arcate simili a quelle delle scimmie e dei pesci insieme; dal viso sporgeva, più che un naso, un grugno o una sorta di branchia. Sotto il grugno, la bocca era socchiusa. Daeman fissò i lunghi denti ingialliti, non umani, non animali, più da pesce, se i pesci fossero mostri, e la lingua bluastra, fin troppo lunga, che si mosse sotto il suo sguardo. Si affrettò a spostare più in alto il raggio della torcia e quasi gridò di nuovo.
La creatura aveva aperto gli occhi: occhi oblunghi, gialli, da gatto, senza l’espressione di freddo rapporto tra i gatti e la razza umana, con minuscole fessure nere al centro. La creatura (come l’aveva chiamata, Savi? Un calibani?) si mosse nell’incavo della croce, aprì le mani strette a pugno e allargò le dita munite di lunghi artigli che riflettevano la luce; spostò un poco le gambe e il tronco, come se si fosse svegliata e si stiracchiasse.
Niente la teneva legata. Niente le impediva di balzare su Daeman in quell’istante stesso.
Daeman cercò di correre via, ma non trovava il coraggio di girare la schiena alla creatura, che si mosse di nuovo, staccò dalla croce la mano destra e gran parte del braccio. I piedi, vide ora Daeman, avevano artigli gialli in punta a sporgenze simili a pinne.
Udì alle sue spalle uno schianto e un rombo (altri calibani già staccatisi dalla croce, di sicuro) e si girò di scatto per affrontare la loro carica, alzando la torcia come un bastone e restando al buio.
Scivolò (o gli cedettero le gambe) e cadde sulle ginocchia, nel fango della radura. Sentì le lacrime agli occhi, ma non credette di averle versate, nei due o tre secondi prima che il crawler sbucasse dalla fila di piante e si stagliasse come un ragno mostruoso che incombeva su lui stesso e sul campo di granturco e sulla croce e sull’immobile calibani. Gli otto fari del crawler si accesero e Daeman rimase accecato. Col braccio si coprì il viso, ma (capì dopo) più per nascondere le lacrime che per schermarsi gli occhi.
Indossata la termotuta, i tre (Harman e Daeman distesi nelle poltroncine di cuoio screpolato, la vecchia Savi sdraiata alla base della sfera di vetro) mangiarono le tavolette nutritive, si passarono la bottiglia d’acqua e per un poco guardarono in silenzio la tempesta. Daeman aveva chiesto a Savi di allontanarsi dal campo di granturco e dalla croce e da quella creatura, così la vecchia aveva percorso un paio di chilometri di strada, si era fermata e aveva spento tutto, tranne il campo di forza del crawler e i pannelli virtuali che emettevano una fioca luce.
«Cos’era quello?» chiese alla fine Daeman.
«Uno dei calibani» rispose Savi. Pareva comoda, sdraiata contro la parete di vetro, con lo zaino sotto la testa.
«So come li chiami» sbottò Daeman. «Ma che cosa sono?»
Savi sospirò. «Se comincio a spiegare una cosa, poi devo spiegare anche il resto. Ci sono un mucchio di cose che voi eloi non sapete. Quasi tutto, in pratica, a dire il vero.»
«Perché non cominci a spiegare perché ci chiami eloi?» disse Harman. Il suo tono era duro.
«Immagino che all’inizio fosse una sorte d’insulto» disse Savi. Un lampo le illuminò i tratti del viso, ma la tempesta si era spostata abbastanza e il tuono tardò a giungere, da molto lontano. «Per essere onesti, chiamavo così il mio popolo, prima di usare questa parola anche per indicare il vostro.»
«Cosa significa?» chiese Harman.
«È un termine presente in una vecchissima storia in un vecchissimo libro. Su un uomo che viaggia nel tempo fino al lontano futuro e trova che la specie umana si è evoluta in due razze, una mite, pigra, senza scopi, che si crogiola al sole, gli eloi; e l’altra, brutta, mostruosa, produttiva, tecnologica, che però si nasconde in grotte e nel buio, i morlock. Nel libro i morlock forniscono cibo, riparo e vesti agli eloi, finché quella gente mite non è ingrassata per bene. Allora i morlock se li mangiano.»
Il lampo balenò di nuovo sui campi, ma era sbiadito, sempre meno vivido. «È così il nostro mondo?» chiese Daeman. «Noi siamo gli eloi mentre i calibani e i voynix sono i morlock? Ci mangiano?»
«Magari fosse così semplice» disse Savi. Rise piano, senza allegria.
«Chi sono i calibani?» chiese Harman.
Anziché rispondere, la vecchia disse: «Daeman, mostra a Harman uno dei tuoi trucchi con la palma della mano».
Daeman esitò. «Quale?» chiese. «Proxnet o farnet?»
«Sappiamo già dove ci troviamo, tesoruccio» disse ironicamente la vecchia. «Mostragli farnet.»
Daeman la guardò storto, ma obbedì. Disse a Harman di pensare tre quadrati blu al centro di tre cerchi rossi e all’improvviso un ovale azzurro si librò sulla palma di tutt’e due. «Pensa a una persona» disse Daeman, sentendosi strano. Prima d’ora non aveva mai insegnato niente a nessuno, a parte qualche tecnica sessuale. «Una qualsiasi» soggiunse. «Basta visualizzarla nella mente.»
Harman parve dubbioso, ma concentrato. Nel suo ovale comparve una veduta aerea di villa Ardis, poi il diagramma della disposizione delle sale. Nella veranda anteriore della villa c’era una figura femminile, stilizzata, in compagnia di un gruppo di uomini e donne, anch’essi stilizzati.
«Ada» disse Daeman. «Pensavi a Ada.»
«Incredibile» esclamò Harman. Fissò per un momento l’immagine. «Ora visualizzo Odisseo.»
L’immagine mutò, cambiò grandezza, cercò, ma non tirò fuori niente.
«Farnet non ha la chiave per individuare Odisseo, secondo Savi» disse Daeman. «Ma torna a Ada. Guarda dov’è.»
Harman corrugò la fronte, ma si concentrò. La figura stilizzata di Ada era in un campo a cento metri, più o meno, dietro villa Ardis. C’erano decine di altre figure, sedute davanti e intorno a uno spazio vuoto. Ada si unì alla folla.
Daeman guardò l’immagine sulla palma di Harman. «Chissà che cosa succede laggiù. Se quello spazio vuoto rappresenta Odisseo, sembrerebbe che il vecchio barbaro stia tenendo un discorso alla folla.»
«E Ada lo ascolta o lo guarda recitare» disse Harman. Distolse gli occhi dall’ovale sulla palma. «Questo cosa c’entra con la mia domanda, Savi? Chi sono i calibani? Perché i voynix cercano di ucciderci? Cosa succede?»
«Alcuni secoli prima del fax finale» disse Savi, incrociando le braccia «i post-umani divennero di gran lunga troppo abili. La loro scienza era impressionante. A tutti gli effetti, avevano lasciato la Terra e si erano rifugiati negli anelli orbitali durante la terribile epidemia rubicon. Ma erano pur sempre padroni della Terra. Credettero d’essere padroni dell’universo.
«I post avevano attrezzato l’intera Terra con la limitata forma di trasmissione e ricupero energia/dati che voi chiamate fax e ora facevano prove — giocherellavano, in realtà — col viaggio nel tempo, col teletrasporto quantico e con altre cose pericolose. Gran parte del loro giocherellare era basato su antiche scienze che risalivano alla fine del diciannovesimo secolo: fisica dei buchi neri, teoria dei wormholes, meccanica quantistica; ma ciò su cui confidavano al massimo era una scoperta del ventesimo secolo: ogni cosa, in fondo, è informazione. Dati. Consapevolezza. Materia. Energia. Tutto è informazione.»
«Non capisco» disse Harman. Pareva arrabbiato.
«Daeman, hai mostrato a Harman la funzione farnet. Perché non gli mostri allnet?»
«Allnet?» ripeté Daeman, allarmato.
«Lo sai, quattro triangoli azzurri sopra tre cerchi rossi sopra quattro triangoli verdi.»
«No!» si ribellò Daeman. Spense la funzione palmare. Il bagliore azzurro svanì.
Savi guardò Harman. «Se vuoi cominciare a capire perché siamo qui stanotte, perché i post-umani hanno abbandonato per sempre la Terra e perché ci sono i calibani e i voynix, visualizza quattro rettangoli blu sopra tre cerchi rossi sopra quattro triangoli verdi. Con la pratica diventa facile.»
Harman guardò con sospetto Daeman, ma poi chiuse gli occhi e si concentrò.
Anche Daeman si concentrò… sul non visualizzare quelle figure. Si costrinse a ricordare Ada nuda giovinetta, a ricordare l’ultima volta che aveva fatto sesso con una ragazza, a ricordare sua madre che lo sgridava…
«Dio mio!» esclamò Harman.
Daeman lo guardò. Harman si era alzato, malfermo sulle gambe, e piroettava, muoveva a scatti la testa, fissava a bocca aperta ogni cosa.
«Cosa vedi?» chiese piano Savi. «Cosa senti?»
«Dio… Dio…» gemette Harman. «Vedo… Gesù Cristo. Tutto. Tutto. L’energia… le stelle cantano… il granturco nei campi parla, l’uno all’altro, alla Terra. Vedo… il crawler è pieno di piccoli microbi che lo riparano, lo raffreddano… Vedo… mio Dio, la mia mano!» Si studiava la mano con un’espressione di orrore e di rivelazione.
«Per la prima volta è sufficiente» disse Savi. «Pensa "spento".»
«Non… ancora…» ansimò Harman. Barcollò contro la parete di vetro della sfera passeggeri e l’artigliò debolmente come per afferrarla. «È così… così bello… posso quasi…»
«Pensa "spento"!» tuonò Savi.
Harman batté le palpebre, cadde contro la parete, girò nella loro direzione il viso, pallido, con lo sguardo fisso. «Cos’era?» disse. «Ho visto… ogni cosa. Ho udito… ogni cosa.»
«E non hai capito niente» disse Savi. «Ma non capisco niente neppure io, quando sono in allnet. Forse neppure i post capiscono tutto.»
Harman tornò barcollando alla poltroncina e vi si lasciò cadere. «Ma da dove proviene?»
«Migliaia di anni fa» spiegò Savi «i veri umani vecchio stile avevano una grezza ecologia dati che chiamavano Internet. A un certo punto decisero di domare Internet e crearono una cosa detta "Oxygen"; non il gas, ma intelligenze artificiali che si libravano dentro e sopra e oltre Internet, dirigendolo, collegandolo, etichettandolo, guidando gli umani attraverso di esso quando erano a caccia di gente o di dati.»
«Proxnet?» disse Daeman. Gli tremavano le mani e non si era neppure collegato a farnet o ad allnet, quella notte.
Savi annuì. «Ciò che portò a proxnet. Evolvendosi, Oxygen a un certo punto si sviluppò nella noosfera, una logosfera, una sfera dati grande come tutto il pianeta. Ma i post-umani non lo ritennero sufficiente. Collegarono questa noosfera super-Internet alla biosfera, ai componenti vivi della Terra. Ogni pianta e animale ed erg di energia sul pianeta, che, una volta collegato alla noosfera, creò una completa e totale ecologia di dati, che comprendeva ogni cosa sulla Terra, sopra la Terra, dentro la Terra, una sorta di onnisfera senziente che mancava solo di autocoscienza e di identità. Poi i post-umani scioccamente le diedero l’autocoscienza, non solo progettando un’intelligenza artificiale prioritaria, ma consentendole di evolvere la sua stessa personalità. Questa super-noosfera si diede un nome: Prospero. Ha un significato, per voi?»
Daeman scosse la testa e guardò Harman, ma il vecchio, anche se sapeva leggere i libri, lo imitò.
«Non importa» ridacchiò Savi. «All’improvviso i post-umani ebbero un… antagonista… che non potevano controllare. E non era finita. I post-umani usavano programmi in grado di evolversi in maniera autonoma e portavano avanti anche progetti di altro genere, consentendo così ai computer quantici di perseguire i propri fini. Per quanto incredibile possa sembrare, ottennero wormholes stabili, ottennero il viaggio nel tempo; usarono come cavie umani vecchio stile, perché non avrebbero mai rischiato la propria vita immortale, e con il teletrasporto quantico traslocarono persone attraverso porte spaziotemporali.»
«Cosa c’entra, tutto questo, con i calibani?» insistette Harman, che cercava ancora di togliersi dalla mente le immagini di allnet.
Savi sorrise. «L’entità noosferica Prospero o possiede un’avanzata propensione all’ironia o non ne possiede affatto. Ha chiamato Ariele la biosfera senziente, una sorta di spirito della Terra; insieme, Ariele e Prospero hanno creato i calibani. Hanno fatto in modo che un ceppo di esseri umani — non vecchio stile, non post, non eloi — si evolvesse in mostri come quello che avete visto sulla croce stanotte.»
«Perché?» chiese Daeman. Quasi soffocò, nel pronunciare la parola.
Savi si strinse nelle spalle. «Perché imponessero la sua volontà. Prospero è un’entità pacifica, almeno così gli piace pensare. Ma i suoi calibani sono mostri. Assassini.»
«Perché?» Stavolta a chiedere fu Harman.
«Per fermare i voynix» rispose Savi. «Per scacciare dalla Terra i post-umani prima che facessero altri danni. Per imporre qualsiasi capriccio che le parti della trinità noosferica Prospero e Ariele vogliono imporre.»
Daeman si sforzò di capire questo concetto. Non ci riuscì. Alla fine disse: «Perché quella creatura era su una croce?».
«Non era sulla croce, era nella croce» precisò Savi. «Culla di ricarica.»
Harman era così pallido che Daeman pensò si sentisse male. «Perché i post hanno creato i voynix?»
«Oh, non li hanno creati loro. I voynix sono giunti da qualche altra parte, al servizio di qualcun altro, con programmi propri.»
«Ho sempre pensato che fossero macchine» disse Daeman. «Come gli altri servitori.»
«No» disse Savi.
Harman guardò fuori, nella notte. La pioggia era cessata, lampi e tuoni si erano spostati al di là dell’orizzonte. Qualche stella era comparsa fra le nubi sbrindellate. «I calibani tengono i voynix fuori del bacino.»
«Sono una delle cose che tengono lontano i voynix» ammise Savi. Ebbe un tono compiaciuto, il tono della maestra, come se un suo allievo non si fosse rivelato del tutto idiota.
«Ma perché i calibani non ci hanno ucciso?» chiese Harman.
«Il nostro DNA» rispose Savi.
«Il nostro cosa?» disse Daeman.
«Lasciate perdere, carini. Basterà dire che ho preso in prestito un campione dei capelli di ciascuno di voi e che questi, insieme a un ciuffo dei miei, ci hanno salvati tutti. Ho fatto un patto con Ariele, sapete. Se ci avesse permesso di passare una volta, ho promesso di salvare l’anima della Terra.»
«Hai incontrato l’entità della Terra, Ariele?» chiese Harman.
«Be’, non è esatto dire che l’ho incontrato. Ma ho chiacchierato con lui tramite l’interfaccia noosfera-biosfera. Abbiamo fatto un accordo.»
Daeman capì allora che la donna era davvero pazza. Incrociò lo sguardo di Harman e vi lesse la stessa conclusione.
«Non importa» disse Savi. Sprimacciò lo zaino come se fosse un guanciale, si distese sulla schiena e chiuse gli occhi. «Dormiamo un poco, miei giovani cari. Domani dovrete essere ben riposati. Domani, con un po’ di fortuna, voleremo su, su, su fino allo strato orbitale.»
Si addormentò e già russava, prima che Harman e Daeman potessero scambiarsi un’altra occhiata carica di preoccupazione.