48 ILIO E OLIMPO

La guerra finale comincia qui, nella stanza di un bambino assassinato.

Gli dèi si saranno telequantati dall’Olimpo già migliaia di volte per parlare ai mortali in questo modo: Atena, arrogante nella sua divinità, Apollo, sicuro nel suo potere (la mia Musa probabilmente è con loro per identificare quella canaglia di scoliaste, Hockenberry). Ma oggi, anziché incontrare deferenza e stupore reverenziale, anziché conversare con sciocchi mortali ansiosi di farsi blandire perché trovino sistemi più interessanti d’uccidersi l’un l’altro, oggi sono assaliti a vista.

Apollo alza l’arco nella mia direzione, perché la Musa mi indica e dice: «Eccolo lì!». Ma prima che il dio possa incoccare un’argentea freccia, Ettore balza avanti, brandisce la spada, taglia in due l’arco, si avvicina e infila la lama nel ventre di Apollo.

«Fermo!» grida Atena e attiva un campo di forza, ma troppo tardi. Il piè veloce Achille è già all’interno del campo e con un solo colpo possente squarcia la dea dalla spalla all’anca.

Atena urla e il rombo è così forte che molti dei mortali in quella stanza, me compreso, cadono in ginocchio per il dolore, mani sulle orecchie. Non Ettore. Non Achille. I due sono di sicuro sordi a qualsiasi cosa se non al ruggito interno della propria ira.

Apollo grida a gran voce un avvertimento e solleva il braccio destro (o per tenere a bada Ettore o per scagliare un fulmine divino) ma Ettore non aspetta di scoprire le intenzioni del dio. Muove la pesante spada in un colpo di rovescio a due mani che mi ricorda André Agassi nel suo periodo migliore e taglia, in uno schizzo di icore dorato, il braccio destro del dio.

Per la seconda volta in vita mia vedo un dio contorcersi, nel dolore e cambiare forma… perdere sembianza umana deiforme e diventare un mulinello di tenebre. Da quelle tenebre si alza un mugghio che fa scappare dalla stanza i servitori e mi fa accucciare. Le cinque donne troiane — Andromaca, Laodice, Teanò, Ecuba ed Elena — estraggono dalla veste il pugnale e si avventano sulla Musa.

Atena, la cui forma umana è tremolante e instabile, si fissa il seno squarciato e il ventre sanguinante, poi alza la destra e lancia un raggio di energia coerente che avrebbe dovuto ridurre in plasma il cranio di Achille, ma l’acheo lo schiva con rapidità sovrumana (il suo DNA è arricchito con nanocellule adattate su misura dagli dèi stessi) e vibra un fendente alle gambe della dea, mentre la parete esplode in fiamme. Atena levita (si solleva dal pavimento e rimane librata) ma non prima che la spada di Achille attraversi muscolo e osso divini e lasci penzolare, quasi staccata, la gamba sinistra della dea.

Stavolta l’urlo è troppo forte da sopportare e per un minuto perdo conoscenza, ma faccio in tempo a vedere che la mia Musa, il terrore dei miei giorni, è a tal punto in preda al panico da fuggire di corsa dalla stanza, inseguita da cinque donne troiane col pugnale snudato, dimenticando che le basterebbe telequantarsi.


Mi riprendo qualche secondo dopo, perché Achille mi scuote.

«Sono fuggiti» ringhia. «Quei vigliacchi mangiamerda sono fuggiti sull’Olimpo. Portaci lassù, Hockenberry. Mi alza con una sola mano, afferrandomi per la cinghia che mi tiene a posto la corazza, poi mi scuote a braccio teso e mi mette sotto il mento la punta della spada sporca di sangue divino. «Subito!» ringhia.

So che opporre resistenza significherebbe morire (Achille ha occhi da folle, pupille contratte come due nere capocchie di spillo) ma in quel momento Ettore gli prende il braccio e lo spinge in basso, finché con i piedi non tocco di nuovo il pavimento. Achille mi lascia e si gira verso l’alleato — almeno per il momento — troiano e per un istante sono sicuro che il Fato si riaffermerà, che il piè veloce Achille ucciderà Ettore qui e subito.

«Compagno» dice Ettore, mostrando la palma vuota. «Compagno nemico degli dèi spietati!»

Achille si blocca.

«Ascoltami!» dice Ettore, brusco, ora feldmaresciallo fino all’osso. «Il nostro comune desiderio è di seguire sull’Olimpo i due dèi già feriti e lassù morire in glorioso combattimento, nel tentativo di rovesciare Zeus stesso.»

L’espressione folle di Achille non cambia. Gli si vede quasi solo il bianco degli occhi. Però ascolta. A malapena.

«Ma la nostra morte gloriosa adesso significherebbe la distruzione dei nostri popoli» continua Ettore. «Per vendicarci completamente dobbiamo chiamare al nostro fianco i nostri eserciti, cingere d’assedio l’Olimpo e distruggere tutti gli dèi. Achille, pensa al tuo popolo!»

Achille batte le palpebre e si rivolge a me. «Tu!» dice, brusco. «Con la tua magia puoi riportarmi al campo acheo?»

«Sì» rispondo, scosso. Vedo Elena e le altre tornare nella stanza della morte, ma non hanno sui pugnali macchie di dorato sangue divino. Evidentemente la Musa è riuscita a mettersi in salvo.

Achille si rivolge a Ettore. «Parla ai tuoi uomini. Uccidi chiunque si opponga alla tua volontà, come farò io con i miei argivi. Ci incontriamo fra tre ore alla base di quella ripida cresta che si trova fuori di Ilio, sai quale intendo. Voi la chiamate Boschetto sacro. Gli dèi e noi achei la riteniamo il tumulo tombale dell’amazzone Mirina.»

«Conosco il posto» dice Ettore. «Porta con te a questo incontro una decina dei tuoi generali più fidati, Achille, ma lascia l’esercito a mezza lega da lì, finché non saremo d’accordo sulla strategia.»

Achille snuda i denti in quello che potrebbe essere un ringhio o un sorriso. «Non ti fidi di me, figlio di Priamo?»

«In questo momento i nostri cuori sono uniti nell’ira infinita e in un dolore sconfinato» dice Ettore. «Tu per Patroclo, io per mio figlio. Siamo fratelli nella pazzia, in questo momento; ma tre ore sono tempo sufficiente a raffreddare perfino i fuochi della causa comune. E tu hai con te il migliore stratega del mondo, Odisseo, di cui tutti i troiani temono l’abilità e l’astuzia. Se il figlio di Laerte ti consiglierà il tradimento, come potrò saperlo?»

Achille scuote la testa, spazientito. «Due ore, allora. Porterò i miei generali più degni di fede. E ogni acheo che non mi seguirà in guerra contro gli dèi oggi sarà ombra nell’Ade prima di notte.»

Gira le spalle a Ettore e mi afferra per il braccio, con tale forza che quasi grido di dolore. «Portami al mio accampamento, Hockenberry.»

Impacciato, cerco il medaglione TQ.

Il vento ha spinto Orphu, librato a mezz’aria, per cinquecento metri lungo la spiaggia, nei frangenti tra due lunghe nere navi achee; devo lasciare Achille e i suoi condottieri per ricuperare il moravec. Grazie alla bardatura di levitazione, non c’è attrito; mi faccio prestare una fune dai greci lì fermi a guardare, la lego intorno a una delle cinghie e trascino fuori dell’acqua il guscio butterato e lo riporto sulla spiaggia, sotto gli occhi stupiti degli eroi dell’Iliade.

È chiaro che nel campo acheo si è discusso parecchio. Diomede dice ad Achille che metà degli uomini prepara le navi per salpare, mentre l’altra metà si prepara a morire. L’idea di resistere agli dèi (altro che attaccarli!) è non solo follia, ma bestemmia per tutti quelli che hanno visto gli dèi in azione. Nella riunione di consiglio, Diomede stesso va vicino a sfidare Achille.

Sfoggiando la raffinata retorica per cui va famoso, Achille ricorda a tutti d’avere combattuto in singoiar tenzone contro Agamennone e Menelao e d’avere assunto legittimamente il comando degli eserciti achei. Ricorda loro che Patroclo è stato ucciso. Loda il loro coraggio e la loro fedeltà. Dice che il bottino di Ilio è niente, a paragone delle ricchezze che avranno quando metteranno a sacco l’Olimpo. Ricorda loro che può uccidere e ucciderà chiunque opponga resistenza. Tutto sommato è un discorso convincente, ma non un’allegra riunione di consiglio.

Tutto è andato a rotoli. Il mio piano prevedeva che gli eroi sfidassero gli dèi e che la guerra terminasse, che gli achei tornassero a casa e che i troiani riprendessero la solita vita e riaprissero a viaggiatori e mercanti le grandi porte della città turrita. Avevo immaginato la "Città in pace", come è illustrata quasi al centro dello scudo di Achille. E avevo pensato… sperato… che Achille ed Ettore si sacrificassero umilmente per il bene comune, non che coinvolgessero nella loro battaglia decine di decine o centinaia di migliaia di altri guerrieri.

Anche il piano di condurre sull’Olimpo Ettore e Achille per la loro fatale aristeia è destinato a fallire. Contavo di portare i due eroi uno alla volta e che gli dèi non si rendessero conto del pericolo finché non l’avessero visto discendere su di loro come una fulminante tempesta greca e troiana. Ma l’attacco ad Apollo e Atena nella stanza di Scamandrio ci ha fatto perdere anche questo piccolo elemento di sorpresa.

E ora?

Controllo l’orologio. Avevo promesso al piccolo robot di andarlo a prendere. Ma ormai la Grande Sala degli Dèi e tutto l’Olimpo saranno di sicuro simili a un nido di calabroni infuriati. Le probabilità di telequantarmi lì e di venirne via senza che nessuno mi veda sembrano assai prossime a zero. Chissà che cosa faranno, Ettore e Achille, se non ritorno qui.

Problema loro, decido. Faccio per tirarmi sulla testa l’Elmo di Ade, ricordo d’averlo prestato a Mahnmut, sospiro, visualizzo le coordinate per il lato ovest del lago della caldera sulla cima dell’Olimpo e mi telequanto.

È davvero un nido di calabroni! Il cielo è pieno di cocchi che saettano avanti e indietro sopra il lago. Vedo decine e decine di dèi in piedi lungo la costa: alcuni segnano a dito, alcuni scagliano nel lago lance di pura energia. L’acqua ribolle per chilometri, nella caldera. Altri dèi gridano con voce amplificata, dichiarano che Zeus ordina a tutti di radunarsi nella Grande Sala. Ancora nessuno si è accorto di me, c’è troppa confusione, ma è solo questione di un minuto, forse meno, prima che qualcuno individui un non-dio nel loro esclusivo country club.

All’improvviso l’acqua ribolle solo a qualche metro da me e lascia emergere una sagoma vaga, visibile solo perché le gocce grondano da una superficie invisibile. Poi il piccolo robot scuro si materializza, si toglie l’Elmo di Ade e me lo restituisce. «Sarebbe meglio se ce ne andassimo in fretta» dice nella mia lingua. Prendo in silenzio l’elmo e il robot non ritrae il braccio, perché lo afferri e includa anche lui nel campo TQ. Gli stringo il braccio e con un grido lo lascio subito. Il metallo o la plastica o quale che sia la sostanza della sua epidermide è bollente. La palma della mia mano è già rossa e cominciano a formarsi delle vesciche.

Due cocchi scendono in picchiata dalla nostra parte. Balenano fulmini. L’aria puzza di ozono.

Prendo per la spalla il robot e aziono il medaglione; so che nessuno di noi ne uscirà vivo, ma dico a me stesso che se non altro, come avevo promesso, sono tornato a prendere la piccola macchina intelligente. Questo, almeno, l’ho fatto.

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