Daeman adesso era solo, accanto al sonie, nella radura della foresta e la cosa non gli piacque.
Dopo che Savi si era allontanata, Odisseo aveva raccontato quella interminabile, inutile storia e alla fine si era inoltrato fra gli alberi. Hannah aveva aspettato un minuto e poi era andata dietro al vecchio. (Daeman aveva capito subito, al mattino, che Hannah e il barbuto avevano dormito insieme quella notte: il suo radar sessuale non sbagliava quasi mai.) Qualche minuto più tardi, Ada e l’altro vecchio, Harman, avevano detto che sarebbero andati a fare due passi ed erano scomparsi sotto gli alberi nella direzione opposta. (Daeman sapeva che anche loro avevano fatto sesso quella notte. Evidentemente solo lui e la vecchia strega, Savi, erano rimasti in bianco.)
Così adesso Daeman, tutto solo nella radura, appoggiato allo scafo del sonie, ascoltava il fruscio di foglie e lo scricchiolio di rami spezzati nel buio fra gli alberi… e quei rumori non gli piacevano proprio per niente. Se avesse visto comparire un allosauro, era pronto a balzare nel sonie… e poi? Non sapeva neppure come accedere agli ologrammi di comando, altro che attivare il campo di forza a bolla o volare via. Sarebbe stato un hors d’oeuvre su un piatto d’argento, per il dinosauro.
Pensò di gridare fra gli alberi, di chiamare Savi o qualcuno degli altri perché tornassero, ma subito cambiò idea. E se il rumore avesse attirato i dinosauri o altri predatori? Non aveva intenzione di fare l’esperimento per scoprirlo. Intanto provava un forte disagio… non solo per l’ansia, ma per la necessità di andare al gabinetto. Forse gli altri erano sgattaiolati nella foresta, con la carta igienica fornita da Savi, ma Daeman era un essere umano civilizzato; non era mai andato al gabinetto senza… be’… un gabinetto e non avrebbe cominciato ora. Naturalmente non sapeva quante ore sarebbero passate prima di arrivare a villa Ardis e Savi parlava come se volesse fermarsi solo il tempo per scaricare Hannah, Ada e quel ridicolo impostore che si faceva chiamare Odisseo, per poi puntare sul bacino del Mediterraneo o chissà dove. Daeman sapeva di non poter aspettare tutto quel tempo!
Si rese conto d’essere scoraggiato, più che spaventato. Tutti erano sembrati sorpresi, il giorno prima, quando si era offerto volontario per andare con la vecchia e Harman nella loro ridicola spedizione, ma nessuno aveva immaginato la vera ragione della sua scelta. Prima di tutto, lui era terrorizzato dai dinosauri intorno a villa Ardis. Lì non ci sarebbe tornato. In secondo luogo, tutte quelle chiacchiere sul fatto che l’uso del fax era una sorta di distruzione e ricostruzione delle persone l’avevano reso estremamente nervoso. Be’, chi non si sarebbe innervosito, a così breve distanza dal risveglio nello spedale, sapendo che il suo vero corpo era stato distrutto? Lui si era faxato quasi ogni giorno, ma al pensiero di entrare in un portale fax, adesso, sapendo che quell’atto gli avrebbe distrutto muscoli, ossa, cervello e memoria per poi ricostruirne una copia da qualche altra parte, ammesso che la vecchia dicesse il vero… be’, si innervosiva da morire.
Così aveva scelto di viaggiare nel sonie per qualche altro giorno, senza affrontare né i dinosauri di villa Ardis né il fax distruttore di atomi o molecole o chissà cosa.
Adesso voleva solo un gabinetto e un servitore o sua madre che gli preparasse la cena. Forse avrebbe chiesto alla vecchia di sbarcarlo a Cratere Parigi. Villa Ardis non era a grande distanza, no? Anche se aveva dato una rapida occhiata agli scarabocchi di Harman, la "mappa", non aveva idea della geografia del mondo. Tra un luogo e l’altro c’era sempre la stessa distanza… un passo nel portale fax.
La vecchia uscì dalla foresta, vide Daeman da solo, appoggiato al sonie fermo a mezz’aria, e gli domandò: «Dove sono gli altri?».
«Me lo chiedevo anch’io. Prima se n’è andato il barbaro. Poi Hannah l’ha seguito. Poi Ada e Harman sono andati da quella parte…» Indicò gli alti alberi sul lato opposto della radura.
«Perché non usi la palma?» disse Savi e sorrise come se qualcosa l’avesse divertita.
«Ho già provato» rispose Daeman. «Su quel tuo affare di ghiaccio. Al ponte. Qui. Non funziona.» Alzò la palma sinistra, pensò alla funzione "Trova" e mostrò a Savi il bianco rettangolo vuoto librato sulla mano.
«Quella è solo la funzione di ricerca diretta» disse Savi. «Una semplice freccia guida, non appena sei vicino a qualcosa, come se in una biblioteca cerchi un libro nel corridoio sbagliato. Usa farnet, la rete remota, o proxnet, la rete vicina.»
Daeman la fissò. Fin dalla prima occhiata aveva dubitato della sanità mentale di quella donna.
«Ah, è vero» disse Savi, sempre sorridendo. «Avete dimenticato tutte le funzioni. Generazione dopo generazione.»
«Ma che vai dicendo?» replicò Daeman. «Le vecchie funzioni come la lettura non sono più attive. Sono sparite quando i post-umani se ne sono andati.» Indicò gli anelli che s’incrociavano nella chiazza di cielo.
«Sciocchezze» disse Savi. Si avvicinò e si appoggiò al sonie accanto a lui; gli prese la mano e la girò, palma in alto. «Pensa tre cerchi rossi con un quadrato blu al centro di ognuno.»
«Eh?»
«Mi hai sentito.» Continuò a tenergli il polso.
"Pazzia pura" pensò Daeman, ma visualizzò tre cerchi rossi con un quadrato blu al centro.
Invece del piccolo rettangolo di luce giallastra generato dalla funzione di ricerca, quindici centimetri sopra la palma si librò un largo ovale di luce blu.
«Ehi!» esclamò Daeman, tirando indietro la mano e scuotendola con forza come se vi si fosse appena posato un enorme insetto.
«Non ti agitare» disse Savi. «È vuoto. Visualizza una persona.»
«Chi?» disse Daeman. Provava una netta sensazione spiacevole: il suo corpo faceva qualcosa che lui non sapeva potesse fare.
«Una qualsiasi. Che conosci bene.»
Daeman chiuse gli occhi e visualizzò il viso di sua madre. Quando li riaprì, l’ovale blu era pieno di diagrammi. Griglia stradale, un fiume, parole che non sapeva leggere: una veduta aerea del cerchio nero che poteva solo essere il centro di Cratere Parigi. L’immagine zumò e di colpo Daeman fu in una struttura stilizzata, quarto piano, domi sul retro vicino al cratere… non casa sua. Due figure umane stilizzate, personaggi da fumetto, ma con viso umano reale, erano a letto, la femmina sul maschio, si muovevano…
Daeman strinse a pugno la mano, spegnendo l’ovale.
«Mi spiace» disse Savi. «Ho dimenticato che oggigiorno più nessuno usa inibitori di traccia. Una tua amica?»
«Mia madre» disse Daeman, con in bocca un sapore di bile. Quello era il complesso domi di Goman, dall’altra parte del cratere: conosceva la disposizione delle stanze fin da quando era bambino e giocava nelle camere interne mentre sua madre frequentava l’uomo alto dalla pelle scura e dalla voce dolce come vino. Daeman non provava simpatia per Goman e ignorava che sua madre lo incontrasse ancora. Come Harman aveva detto prima, a Cratere Parigi era già notte.
«Vediamo dove sono Hannah e Ada e gli altri» disse Savi. Ridacchiò. «Forse anche loro vorrebbero avere attivato gli inibitori farnet.»
Daeman non aveva affatto voglia di aprire il pugno.
«Ripeti il ciclo» disse Savi.
«Come?»
«Come fai sparire la freccia di ricerca?»
«Mi basta pensare: "Spento"» rispose Daeman e tra sé si diede dello stupido.
«Forza!»
Daeman pensò: "Spento" e l’ovale blu si spense.
«Per attivare proxnet pensa un cerchio giallo con un triangolo verde al centro» disse Savi. Guardò la propria palma e sopra vi comparve un vivido rettangolo giallo.
Daeman la imitò.
«Pensa a Hannah» disse Savi.
Daeman seguì il suggerimento. La sua palma e quella di Savi mostrarono un continente, il Nord America (ma Daeman non poteva riconoscerlo), poi uno zoom nella parte centromeridionale, zoom a nord della linea costiera, zoom in una complessa serie di parole illeggibili e mappe topografiche, zoom sotto alberi stilizzati su una forma femminile stilizzata con la testa di Hannah su un corpo da fumetto, che camminava da sola… no, non da sola, si rese conto Daeman, perché al suo fianco camminava un punto interrogativo.
Savi ridacchiò di nuovo. «Proxnet non sa come elaborare Odisseo.»
«Odisseo non lo vedo» disse Daeman.
Savi introdusse il dito nel cubo olografico giallo e toccò il punto interrogativo. Indicò due figure rosse al margine dell’ombra. «Questi siamo noi» disse. «Ada e Harman saranno fuori della griglia, a nord.»
«Come sappiamo che è Hannah?» chiese Daeman, anche se aveva visto la parte superiore della testa.
«Pensa: "Primo piano"» rispose Savi. Gli mostrò l’ombra sulla palma, che aveva zumato più in basso, si era livellata e rivelava la Hannah stilizzata con la faccia della Hannah reale che camminava fra alberi stilizzati lungo un torrente stilizzato.
Daeman pensò: "Primo piano" e si meravigliò per la chiarezza dell’immagine. Vedeva l’ombra degli alberi sui lineamenti di Hannah. La ragazza parlava animatamente al simbolo (Savi l’aveva chiamato punto interrogativo) librato accanto a lei. Daeman fu lieto di non avere trovato Hannah mentre faceva sesso.
Savi intanto aveva visualizzato Ada e Harman, perché l’ombra gialla sulla sua palma cambiò e mostrò due figure che camminavano fra simboli topografici da qualche parte sopra gli immobili puntini rossi che rappresentavano Savi e Daeman.
«Tutti vivi, nessuno divorato dai dinosauri» disse Savi. «Ma vorrei proprio che tornassero, così possiamo partire. Si fa tardi. Se fossero i vecchi tempi, mi limiterei a chiamarli sulla palma e a dire loro di riportare qui le chiappe.»
«Puoi usare questo sistema per comunicare?» disse Daeman, alzando la palma vuota.
«Certo.»
«Perché noi non sappiamo farlo?» Aveva quasi un tono di rabbia.
Savi si strìnse nelle spalle. «Non sapete più un granché, voi umani del cosiddetto vecchio stile.»
«Cosa significa, "cosiddetto vecchio stile"?» replicò Daeman. Adesso era davvero arrabbiato.
«Pensi davvero che gli umani dell’Età Perduta, i veri vecchio stile, avessero nelle cellule e nel corpo tutti questi nanomeccanismi geneticamente modificati.?»
«Sì» rispose Daeman, pur rendendosi conto di non sapere proprio niente dei vecchio stile dell’Età Perduta e fregandosene anche.
Savi rimase in silenzio per un minuto. A Daeman parve molto stanca, ma forse tutte le persone antiche, dell’epoca precedente lo spedale, avevano quella brutta cera.
«Dovremmo andare a prenderli» disse alla fine Savi. «Io riporto qui Hannah e Odisseo, tu ricupera Ada e Harman. Metti la palma in proxnet, attiva la funzione di ricerca come fai di solito e sarai guidato fino a loro. Di’ loro che il bus è in partenza.»
Daeman non aveva idea di che cosa significasse "bus", ma non era importante. «Ci sono altre funzioni?» chiese prima d’incamminarsi.
«Centinaia» rispose Savi.
«Mostramene una» la sfidò Daeman. Non le credeva (centinaia, ma va’!) però pensava che se avesse conosciuto anche solo un paio di funzioni nuove, sarebbe diventato popolare alle feste… un tipo interessante per le giovani donne.
Con un sospiro Savi si appoggiò al sonie. Si era alzato il vento che agitava i rami delle sequoie, in alto sopra di loro. «Posso mostrarti la funzione che alla fine spinse via dalla Terra i post-umani» disse piano. «Allnet, la rete totale.»
Daeman chiuse di nuovo il pugno e tirò via la mano. «No, se è pericoloso.»
«Nessun pericolo» disse Savi. «Non per noi. Ecco, faccio prima io.» Gli abbassò il braccio, gli schiuse le dita e gli toccò la palma in un modo che Daeman trovò quasi eccitante. Poi mise la sinistra accanto a quella di lui.
«Visualizza quattro rettangoli blu sopra tre cerchi rossi sopra quattro triangoli verdi» disse piano Savi.
Daeman corrugò la fronte — era difficile, le figure erano proprio al limite della sua capacità di trattenere l’immagine — ma alla fine, a occhi chiusi, ci riuscì.
«Apri gli occhi» disse Savi.
Daeman li aprì e l’attimo dopo si aggrappò freneticamente al sonie per sorreggersi.
Non c’era ombra sulla palma. Né mappe illeggibili né figure da fumetto.
Invece ogni cosa in vista era stata trasformata. I vicini alberi, ai quali non aveva badato se non per sfruttarne l’ombra, erano adesso sagome torreggiami e complesse, trasparenti, strato su strato di tessuti pulsanti, vivi, corteccia morta, vescicole, vene, materiale interno morto che mostrava vettori strutturali e anelli con colonne di dati in scorrimento, il dinamico verde e rosso della vita: aghi, xilema, flemma, acqua, zucchero, energia, luce solare. Se avesse potuto leggere i dati in scorrimento, avrebbe capito esattamente l’idrologia del miracolo vivente rappresentato da quell’albero, avrebbe saputo esattamente quanta pressione osmotica occorreva per portare su l’acqua dalle radici, poteva guardare in basso e vedere le radici nel terreno e il lungo viaggio, decine e decine di metri, dalle radici ai tubuli che portavano l’acqua, decine e decine di metri in verticale. Come un gigante che succhiasse da una cannuccia! E poi il movimento laterale dell’acqua, molecole d’acqua in tubature larghe solo una molecola, lungo rami larghi quindici, diciotto, venti metri, sempre più stretti, sempre più stretti, vita e sostanze nutritive in quell’acqua, energia dal sole…
Daeman alzò gli occhi e vide la luce solare come l’effettiva pioggia d’energia: luce solare che colpiva aghi di pino ed era assorbita, luce solare che colpiva il terriccio sotto i piedi e scaldava i batteri che vi si trovavano. Poteva contare gli indaffarati batteri! Il mondo intorno a lui era un torrente d’informazioni, una marea di dati, un milione di microecologie che interagivano tutte nello stesso tempo, energia per energia. Anche la morte era parte della complessa danza di acqua, luce, energia, vita, riciclaggio, crescita, sesso e fame che scorrevano tutt’intorno a lui.
Daeman vide un topo morto, quasi sepolto nel terriccio, dall’altra parte della radura, ormai poco più che pelo e ossa, ma ancora un faro di energia rosso luminoso, mentre i batteri banchettavano e le uova di mosca incubavano larve nella luce solare del pomeriggio e il lento dipanarsi di complesse proteine continuava a livello molecolare e…
Ansimante, quasi soffocato, Daeman si girò di scatto, cercò di spegnere la visione, ma la complessità era dappertutto: il marcato e grondante flusso e riflusso di energia che passava, sostanze nutritive che venivano assorbite, cellule che erano alimentate, molecole danzanti negli alberi trasparenti e nel suolo respirante e il cielo in fiamme con la sua pioggia e la sua marea di luce solare e di messaggi radio dalle stelle.
Daeman si coprì gli occhi, ma troppo tardi: aveva guardato Savi. Una donna vecchia e anche una galassia di vita. Vita annidata negli scintillanti neuroni del cervello dietro il teschio ghignante e scoppiettante come un fulmine nella serie di impulsi lungo il nervo ottico e nei miliardi di miliardi di forme viventi nelle budella, indaffarate e indifferenti tutte e… Nel tentativo di guardare da un’altra parte, Daeman commise l’errore di guardare se stesso, in se stesso, oltre se stesso, il collegamento con l’aria e il terreno e il cielo…
«Spento!» disse Savi; come un’eco, la mente di Daeman ripeté l’ordine.
Daeman ebbe l’impressione che la brillante luce solare di mezzodì, riflessa sugli alberi e sul terreno cosparso d’aghi di pino, fosse scura come la mezzanotte. Sentì che le gambe non gli funzionavano più. Ansimante, si lasciò scivolare lungo la fiancata del sonie e crollò a terra, si rigirò sullo stomaco, a braccia distese, palme piatte contro il suolo, faccia premuta contro gli aghi di pino.
Savi si accoccolò accanto a lui e gli batté dei colpetti sulla spalla. «Passerà in un minuto» disse piano. «Tu resta qui. Vado io a trovare gli altri.»
Quando Harman aveva suggerito di fare due passi, Ada era stata incerta (temeva che Savi si sarebbe arrabbiata o allarmata, tornando nella radura e vedendo che tutti erano spariti) ma Hannah si era già allontanata dietro Odisseo e lei non voleva restare lì accanto al sonie in compagnia di Daeman. Inoltre, non sapeva se avrebbe avuto un’altra occasione di parlare in privato al suo nuovo amante, prima che lei tornasse a villa Ardis e lui volasse con Savi al bacino del Mediterraneo.
Risalirono un’altura, seguirono un ruscello giù dall’altra parte. La foresta era viva del canto di uccelli, ma non videro animali più grossi degli scoiattoli. Harman pareva preoccupato, perso nei suoi pensieri, e toccò Ada solo quando le tese la mano per aiutarla ad attraversare il ruscello, poco sopra una cascata alta tre metri. Ada si chiese se la loro notte insieme non fosse stata un errore, un calcolo sbagliato da parte sua; ma quando si fermarono a riposare ai piedi della cascata, vide che gli occhi di Harman si concentravano su di lei, vide l’affetto e la tenerezza nel suo sguardo e fu felice che fossero diventati amanti.
«Ada» disse Harman «conosci tuo padre?»
Ada non poté non restare sorpresa. La domanda non era poi tanto sconvolgente (la gente, è ovvio, sapeva di avere un padre, in teoria) ma, come altre simili, era posta di rado. «Sapere chi era, intendi?» rispose.
Harman scosse la testa. «Voglio dire, l’hai conosciuto? L’hai mai incontrato?»
«No. Mia madre mi disse il nome, a un certo punto, ma credo che lui… sia arrivato alla quinta Ventina alcuni anni fa.» Era stata sul punto di dire: "… passato agli anelli", l’eufemismo più comune per indicare l’ascensione corporea nel cielo dei post-umani. Col cuore in subbuglio si chiese perché Harman le facesse una domanda così bizzarra. Aveva forse pensato alla possibilità di essere lui suo padre? Accadeva, ovviamente. Giovani donne facevano l’amore con uomini più anziani che avrebbero potuto essere il loro anonimo "padre di sperma" (non esisteva il tabù dell’incesto, perché da una simile unione non potevano nascere figli, e non esistevano fratelli e sorelle, perché ogni donna poteva concepire una volta sola) ma si provava un bizzarro turbamento, a pensarci.
«Non so chi fosse mio padre» disse Harman. «Savi ha detto che in un certo periodo, perfino dopo l’Età Perduta, il padre era importante per i figli quasi quanto lo è ora la madre.»
«È difficile da immaginare» disse Ada, ancora perplessa. Cosa cercava di dirle? Che era troppo vecchio per lei? Che sciocchezza!
Harman riprese a camminare e Ada lo seguì sotto gli alberi. Faceva più fresco, all’ombra, ma l’aria era più densa. Alle loro spalle, la cascata produceva un rumore attenuato. All’improvviso Ada si guardò intorno, allarmata.
«Cos’hai sentito?» disse Harman, fermandosi accanto a lei.
«Niente, ma… c’è qualcosa che non quadra.»
«Niente servitori. Niente voynix.»
Ecco cos’era, capì Ada. Erano soli. Per gli ultimi due giorni l’assenza degli onnipresenti servitori e dei voynix era stata come un rumore di fondo mancante, ma diventava più evidente adesso che erano soli, loro due. All’improvviso, senza una ragione, rabbrividì. «Riesci a trovare la strada per tornare al sonie?»
Harman annuì. «Ho preso nota del terreno e ho osservato il sole.» Indicò col ramo che usava da bastone. «La radura è proprio al di là di quell’altura.»
Ada sorrise, ma non era del tutto convinta. Controllò l’indicatore sulla palma, ma vide che era bianco, come da quando avevano lasciato il domi antartico. Era già stata nei boschi, di solito nella proprietà di villa Ardis, mai però senza un servitore librato nelle vicinanze per mostrarle la strada di casa e senza un voynix a proteggerla. Questa, comunque, era una tensione secondaria rispetto all’ansia centrale che riguardava la strana domanda di Harman.
«Perché chiedi dei padri?» disse.
Harman la guardò, mentre bighellonavano lungo il pendio e si addentravano nella foresta di sequoie: lì era quasi buio, anche se raggi di sole filtravano qua e là nel silenzio da cattedrale. «Un commento fatto da Savi stamattina» rispose. «Sul fatto che sono tanto vecchio da poter essere tuo padre. Sul fatto che mi sono imbarcato in questa cerca dello spedale… e mi sono trovato coinvolto con te… per una sorta di rifiuto della mia Ventina finale.»
La prima reazione di Ada fu di collera, seguita immediatamente da una fitta di gelosia. La collera era per lo sciocco commento di Savi (non era affare della vecchia chi dormisse con Ada né quanti anni avesse); la gelosia derivava dal fatto che Harman aveva lasciato il letto all’alba per andare a parlare con la vecchia. Ada si era limitata a dargli un bacio di saluto, quando quel mattino lui si era alzato dal letto, si era ripulito con gli ultrasuoni e si era vestito; era rimasta un po’ delusa perché il suo nuovo amante non voleva trascorrere con lei un’altra ora prima che tutti scendessero per colazione, ma aveva rispettato la sua scelta, pensando che fosse solo un tipo abituato ad alzarsi presto.
Cosa c’era di tanto importante da spingerlo a lasciarla all’alba per parlare con Savi? Non aveva in programma di passare con la vecchia i prossimi giorni, nella stupida ricerca di una nave spaziale? In realtà, capì Ada, Savi faceva le veci di lei, in quella ricerca.
Studiò il viso di Harman (molto più giovanile di quello di Odisseo, che aveva sorprendenti zampe di gallina e capelli brizzolati) e vide che lui non si era accorto del suo lampo di collera e di gelosia. Harman era ancora preoccupato, ovviamente rimuginava qualcosa; Ada si chiese se l’attenzione e la sensibilità che lui le aveva mostrato negli ultimi giorni, culminate nel meraviglioso atto d’amore della notte prima, non fossero aberrazioni, un semplice preludio al sesso, anziché il suo comportamento abituale. Non lo credeva, ma non ne era sicura. Tutta l’intimità che aveva provato con Harman era forse un’illusione, una conseguenza dell’essersi infatuata di lui?
«Sai come decidere di restare incinta?» chiese Harman, continuando distrattamente a punzecchiare il terreno, col ramo che usava come bastone da passeggio.
Ada si bloccò, sconvolta. Quella domanda era… sorprendente.
Harman la guardò senza capire, come se non avesse detto niente d’insolito. «Intendo dire, sai come funziona il meccanismo?»
Continuava a non accorgersi, pensò Ada, di quanto fosse fuori luogo la domanda. Uomini e donne semplicemente non toccavano certi argomenti. «Se stai per farmi una lezione sulle api e sui fiori» disse, fredda «è un po’ troppo tardi.»
Harman rise con genuino divertimento. Nell’ultimo paio di settimane quella risata aveva incantato Ada. Ora la irritò da non credersi.
«Non mi riferisco al sesso, mia cara» disse Harman. Era la prima volta, notò Ada, che usava con lei un termine affettuoso, ma non era dell’umore giusto per apprezzarlo. «Mi riferisco a quando ricevi il permesso di restare incinta, forse tra qualche decennio, e scegli il donatore di sperma.»
Ada arrossì e il fatto di non poter fare a meno d’arrossire la mandò in collera. Divenne ancora più rossa. «Non so di cosa parli.»
Invece lo sapeva benissimo, ovviamente. Erano gli uomini, in teoria, a non conoscere e a non discutere simili argomenti. Molte donne decidevano di fare domanda di gravidanza intorno alla terza Ventina. In genere bisognava aspettare da uno a due anni, poi la richiesta veniva accolta dai post-umani e i servitori ne davano comunicazione. A quel punto la donna smetteva di avere rapporti sessuali, prendeva il prescritto disinibitore di gravidanza e decideva quale dei precedenti compagni sarebbe stato il padre di sperma di suo figlio. La gravidanza si manifestava nel giro di giorni e il resto era antico come… be’, come la razza umana.
«Parlo del meccanismo per il quale scegli lo sperma conservato che il tuo corpo utilizzerà» continuò Harman. «Le vere donne vecchio stile non avevano questa possibilità di scelta…»
«Sciocchezze» disse Ada, brusca. «Siamo noi, le donne vecchio stile. È sempre stato così.»
Harman scosse lentamente, quasi tristemente, la testa. «No» disse. «Anche al tempo di Savi, solo un migliaio d’anni fa, la gravidanza non era il risultato di un meccanismo così calcolato. Lei dice che i post hanno inserito in noi, nelle donne cioè, questo sistema di conservazione e di selezione dello sperma, basandosi sulla struttura genetica delle falene.»
«Falene!» esclamò Ada, non più semplicemente sconvolta, ma davvero profondamente arrabbiata, adesso. Era tanto ridicolo quanto umiliante. «Di cosa diavolo parli, Harman Uhr?»
Harman alzò di scatto la testa e parve notare per la prima volta la sua reazione, come se l’uso del titolo onorifico formale fosse stato uno schiaffo che lo riportava alla realtà.
«È vero» disse. «Mi spiace se ti ho sconvolta, ma Savi dice che i post hanno strutturato geneticamente questa capacità di scegliere il padre di sperma, anche anni dopo il rapporto sessuale, dai geni di una specie di falena detta…»
«Basta così!» gridò Ada. Aveva stretto i pugni. Non aveva mai colpito nessuno in vita sua né desiderato farlo, ma in quel momento era vicina a picchiare Harman. «Savi dice questo, Savi dice quello. Ne ho abbastanza, di quella vecchia puttana. Non credo neppure che sia poi così vecchia… o sapiente. È semplicemente pazza. Torno al sonie.» Si incamminò fra gli alberi.
«Ada!» la chiamò Harman.
Lei finse di non sentire, risalì il pendio, scivolando sugli aghi di pino e sul terriccio bagnato.
«Ada!»
Lei continuò, decisa, pronta a lasciarlo indietro.
«Ada, vai nella direzione sbagliata.»
Hannah raggiunse Odisseo a qualche centinaio di metri dalla radura. Nell’udire il rumore di cespugli scostati, il vecchio si girò di scatto e mise la mano sull’elsa della spada, ma subito si rilassò, vedendo di chi si trattava.
«Cosa vuoi, ragazza?»
«Voglio vedere la tua spada» disse Hannah, scostandosi dal viso i capelli.
Odisseo rise. «Perché no?» Sganciò dalla cintura il fodero di cuoio e le porse l’arma. «Attenta al filo, ragazza. Con questa lama potrei radermi, se mai decidessi di tagliarmi la barba.»
Hannah sguainò la corta spada e provò a soppesarla.
«Savi sostiene che lavori con i metalli» disse Odisseo. Si chinò su un ruscello, mise le mani a coppa e bevve. «A sentire lei, potresti essere l’unica persona, uomo o donna, in questo mirabile mondo nuovo, a saper forgiare il bronzo.»
Hannah scrollò le spalle. «Mia madre ricordava vecchie storie sulla forgia di metalli. Quando era giovane, giocava col fuoco e coi focolari all’aperto. Io continuo gli esperimenti.» Roteò in alto la spada e menò un fendente.
«Ci hai visto combattere in quel vostro lino» disse Odisseo.
Hannah annuì. «E allora?»
«Usi la spada in maniera corretta, ragazza. Di taglio, anziché di punta. Questo utensile è fatto per mozzare membra e squarciare ventri, niente di troppo raffinato.»
Con una smorfia, Hannah restituì la spada. «È la stessa che hai usato nella piana di Ilio?» chiese piano. «E nella missione per rubare il Palladio?»
«No» rispose Odisseo. Alzò in verticale la spada, finché su di essa non danzò un poco della luce che filtrava fra i rami. «Questa spada è un regalo fattomi da… una donna… durante i miei viaggi.»
Hannah attese altre spiegazioni, ma Odisseo, anziché raccontare un’altra storia, le chiese: «Ti piacerebbe vedere cosa la rende diversa?».
Hannah annuì.
Odisseo batté col pollice due colpetti sulla guardia dell’elsa e a un tratto la spada parve scintillare lievemente. Hannah si sporse per sentire meglio: sì, dalla lama proveniva un lieve, ma persistente, ronzio. Mosse la mano verso la spada, ma Odisseo scattò ad afferrarle il polso.
«Se la tocchi adesso, ragazza, ci perdi le dita.»
«Perché?» chiese Hannah. Non cercò di liberarsi.
Odisseo, dopo qualche secondo, le lasciò il polso. «Vibra» disse, tenendo la lama di piatto, appena sotto il livello degli occhi.
Hannah notò di nuovo d’avere la stessa statura di Odisseo. La notte prima era rimasta ad ascoltarlo nella verde sala a bolla sul ponte, dopo che gli altri erano rientrati, poi l’aveva accompagnato a fare due passi, era tornata nell’abitazione di lui a parlare per delle ore e si era messa a dormire per terra, accanto alla branda. Sapeva che Ada era convinta che fosse divenuta l’amante di Odisseo; se ne fregava e non vedeva alcun motivo per disilludere l’amica. «Pare quasi che canti» disse, girando un poco la testa per sentire meglio l’acuto ronzio.
Odisseo scoppiò a ridere e Hannah non ne capì il motivo. «Non ti preoccupare» disse lui. «Non mi è stata lanciata da una Dama del Lago, anche se non sarebbe poi molto lontano dal vero.» Rise di nuovo.
Hannah lo guardò. Non aveva la minima idea di che cosa parlasse. Si domandò se lui invece sapesse che cosa diceva. «Perché vibra?» chiese.
«Sta’ indietro» disse Odisseo.
Le sequoie intorno a loro avevano per la maggior parte il tronco spesso due o tre metri, ma un albero più piccolo, forse un pino ponderosa o un abete Douglas, cresceva in una chiazza di sole, qualche metro alla loro sinistra. Probabilmente aveva trenta o quarant’armi, era alto una quindicina di metri e aveva il tronco spesso cinquanta centimetri.
Odisseo piantò a terra i piedi, strinse nella mano la spada e con noncuranza, senza sforzo, vibrò contro il tronco un fendente di rovescio.
La lama descrisse un arco tanto fluido da dare l’impressione d’avere mancato completamente il bersaglio. Non ci fu alcun rumore d’impatto. Dopo qualche istante l’alta conifera vibrò e cadde rumorosamente al suolo.
Odisseo premette di nuovo l’elsa e il debole ronzio cessò.
Hannah si avvicinò a guardare il ceppo, alto un metro e mezzo, e l’albero caduto. Il tronco pareva tagliato con precisione chirurgica, non segato. Hannah posò la mano sul ceppo: niente resina, niente trucioli. Il legno era così liscio da sembrare cauterizzato, plastificato. Hannah si girò verso Odisseo. «Quella spada si sarà rivelata molto utile, durante l’assedio di Troia» disse.
«Tu non ascolti, ragazza» disse Odisseo. Rimise nel fodero la spada e se l’agganciò alla cintura. «Me l’hanno regalata alcuni anni dopo, quando la guerra era ormai finita e avevo cominciato i miei viaggi. Se l’avessi avuta a Ilio…» Sogghignò orribilmente. «Non sarebbe rimasto troiano, dio o dea con la testa sulle spalle, ragazza. Garantito.»
Hannah si ritrovò a ricambiare il sogghigno. Non erano amanti, non ancora, ma lei contava di restare a villa Ardis, mentre Odisseo vi era ospite, e chissà cosa sarebbe potuto accadere…
«Ah, siete qui» disse Savi, scendendo il pendio verso di loro. Chiuse il pugno e quello che pareva un rilevatore palmare si spense.
«È ora di proseguire?» chiese Odisseo, parlando a Savi, ma guardando Hannah, come se fossero vecchi congiurati.
«Ora di proseguire» confermò Savi.