Dopo la cattura, Mahnmut pensò che avrebbe fatto meglio ad azionare il Congegno, qualsiasi cosa fosse, non appena il dio biondo nel cocchio volante aveva distrutto il pallone e cominciato a trainarli su Olympus Mons.
Ma non poteva arrivare al Congegno. Né al trasmettitore. Né a Orphu. Riusciva solo a tenersi aggrappato alla murata della navicella, mentre volavano verso il vulcano quasi a velocità mach 1. Se il Congegno, il trasmettitore e Orphu non fossero stati legati alla piattaforma della navicella, con tutte le funi e i cavi che Mahnmut era riuscito a ricuperare, sarebbero caduti da dodicimila metri sull’altopiano fra il più a nord dei vulcani del Tharsis, Ascraeus, e il mare Tethys.
Il dio nella macchina volante, che portava con una sola mano tutte quelle tonnellate di peso morto e in più i cavi raggruppati, salì di quota e si diresse verso Olympus Mons da nord. Anche con le corte gambe penzolanti e i manipolatori conficcati profondamente nella murata della navicella, Mahnmut riconobbe che era un gran bel panorama.
Una massa di nubi quasi solida copriva gran parte della regione fra i vulcani del Tharsis e Olympus Mons: solo le scure ombre dei vulcani sbucavano da quella coltre. Il sole nascente, piccolo ma molto luminoso verso sudest, indorava vividamente l’oceano e le nubi. Il riflesso sul mare Tethys era così sfavillante che Mahnmut fu costretto ad aumentare i filtri polarizzanti. Olympus Mons, che si ergeva proprio al bordo dell’oceano Tethys, era sbalorditivo nella sua immensità, un infinito cono di campi di ghiaccio che si alzavano fino alla vetta di un verde incredibile, con una serie di laghi azzurri nella caldera.
Il cocchio si abbassò e Mahnmut vide gli strapiombi verticali di quattromila metri alla base del quadrante di nordovest e, sebbene questi fossero in ombra, scorse pure le minuscole strade e gli edifici in quella che pareva una stretta striscia di spiaggia, ma era quasi certamente un tratto di costa largo tre o quattro chilometri fra le pareti a picco e l’oceano indorato dal sole. Ancora più a nord e più al largo sul mare, mutato in isola dal terraforming, c’era il Lycus Sulci, che pareva una testa di lucertola sollevata verso Olympus Mons.
Mahnmut descrisse a Orphu tutto ciò che vedeva, parlando senza muovere le labbra, sul canale a fascio compatto. Il solo commento del moravec di Io fu: «Pare grazioso, ma avrei preferito fare l’escursione per conto nostro».
Mahnmut ricordò di non essere lì per ammirare il paesaggio quando il gigantesco umanoide abbassò il cocchio verso la vetta del gigantesco vulcano. Tremila metri sopra i più alti pendii innevati, il cocchio attraversò un campo di forza (i sensori di Mahnmut registrarono lo shock dell’ozono e i picchi di voltaggio) e poi riprese l’assetto orizzontale per l’avvicinamento conclusivo alla verde cima erbosa.
«Mi dispiace di non avere scorto prima quel tipo sul cocchio e di non avere tentato manovre eversive» disse Mahnmut a Orphu, negli ultimi istanti prima di chiudere la comunicazione per l’atterraggio.
«Non è colpa tua» replicò Orphu. «Questi deus ex machina hanno un modo tutto loro d’arrivare di soppiatto addosso a noi gente di lettere.»
Dopo l’atterraggio, il dio che li aveva catturati afferrò per il collo Mahnmut e lo portò senza tante cerimonie nel più vasto spazio artificiale che il piccolo moravec avesse mai visto. Altri dèi uscirono, presero Orphu, il Congegno e la trasmittente e li portarono dentro. Ancora altri dèi entrarono nella sala, mentre Zeus ascoltava il primo dio descrivere la cattura. Mahnmut si rassegnò a pensare che le persone dei cocchi si ritenevano davvero dèi e immaginò che la loro scelta di stare su Olympus Mons non fosse una coincidenza. Le nicchie con ologrammi di decine e decine di altri dèi" e dee rafforzarono la sua ipotesi. Poi l’über-dio che Mahnmut ipotizzò fosse Zeus cominciò a parlare e per il moravec il greco antico era arabo. Mahnmut disse un paio di frasi. Il dio dalla barba grigia e quelli più giovani aggrottarono la fronte, senza capire. Mahnmut imprecò contro se stesso per non avere mai caricato nelle banche di memoria il greco, antico o moderno. Non l’aveva ritenuto molto importante, quando si era imbarcato sul Dark Lady per esplorare gli oceani di Europa.
Passò allora al francese. Poi al tedesco. Poi al russo. Poi al giapponese. Dava fondo al suo modesto database di linguaggi umani, formulando sempre la stessa frase, "Sono venuto in pace e non intendevo entrare in un’area vietata", quando Zeus alzò l’enorme mano per intimargli il silenzio. Gli dèi parlarono fra loro e non parvero molto contenti.
Cosa succede? trasmise Orphu. Il moravec di Io si trovava a cinque metri da Mahnmut, sul pavimento, insieme con gli altri due manufatti prelevati dalla navicella. A quanto pareva, chi li aveva catturati non immaginava che ci fosse una persona senziente in quel guscio ammaccato e incrinato: trattavano Orphu come un oggetto qualsiasi. Mahnmut l’aveva previsto. Per questo aveva formulato la frase al singolare — "Sono venuto in pace" — e non al plurale. Qualsiasi cosa gli dèi decidessero di fargli, c’era una remota possibilità che lasciassero stare Orphu, anche se non era chiaro come il povero moravec di Io sarebbe potuto fuggire, senza occhi, orecchie, gambe e manipolatori.
Gli dèi discutono, trasmise Mahnmut, senza muovere le labbra; poi soggiunse: Non li capisco.
Ripetimi qualche parola.
Mahnmut obbedì, trasmettendo in silenzio.
È una variazione del greco classico, disse Orphu. È compresa nel mio database. Posso capire cosa dicono.
Scaricami il tuo database, trasmise Mahnmut.
Via radio? Ci vorrà un’ora. Hai un’ora?
Mahnmut si girò a guardare i bellissimi maschi umanoidi che si latravano parole. Pensò che fossero prossimi a prendere una decisione. No, rispose a Orphu.
Trasmettimi ciò che dicono e te lo traduco; decideremo la risposta appropriata e ti trasmetterò i fonemi, disse Orphu.
In tempo reale?
Abbiamo altra scelta? ribatté Orphu.
Il dio che li aveva catturati si rivolgeva in quel momento alla figura barbuta sul trono dorato. Mahnmut trasmise ciò che udiva, in una frazione di secondo ebbe la traduzione, si consultò con Orphu e memorizzò i suoni della risposta in greco. Non gli pareva però un sistema efficiente.
«… è un astuto piccolo automa e gli altri oggetti sono inutili come bottino, mio signore Zeus» disse il dio biondo, alto due metri e mezzo.
«Signore dell’arco d’argento, Apollo, non archiviare come inutili simili giocattoli finché non avremo scoperto da dove sono giunti e perché. Il pallone che hai distrutto non era un giocattolo.»
«Neanche io sono un giocattolo» disse Mahnmut. «Sono giunto in pace e non intendevo entrare abusivamente in una zona vietata.»
Gli dèi lo guardarono tutti insieme, stupiti, e mormorarono tra loro.
Questi dèi, quanto sono alti? trasmise Orphu.
Mahnmut li descrisse rapidamente.
Impossibile, trasmise Orphu. La struttura dello scheletro umano comincia a essere insufficiente a due metri di altezza e a tre metri sarebbe assurda. Le ossa delle gambe si spezzerebbero.
Qui c’è la gravità di Marte, ricordò Mahnmut all’amico. È il peggiore campo gravitazionale che abbia mai sperimentato, ma è solo un terzo di quello terrestre.
Allora pensi che questi dèi provengano dalla Terra? chiese Orphu. Pare ben poco attendibile, a meno che…
Scusami, Orphu, ma ho da fare.
Zeus ridacchiò e si sporse in avanti. «Allora, la piccola persona giocattolo può parlare il linguaggio umano.»
«Posso» rispose Mahnmut ricevendo la parola da Orphu. Nessuno dei due conosceva il giusto titolo onorifico per il massimo dio, il re degli dèi, il signore dell’universo. Decisero di non provarci.
«Anche i Guaritori possono parlare» replicò bruscamente Apollo, sempre rivolgendosi a Zeus. «Ma non possono pensare.»
«Io parlo e penso» ribatté Mahnmut.
«Davvero?» esclamò Zeus. «La piccola persona che parla e pensa ha un nome?»
«Sono Mahnmut il moravec» rispose, deciso. «Marinaio dei mari ghiacciati di Europa.»
Zeus ridacchiò, un rombo così profondo da far vibrare il materiale del rivestimento esterno di Mahnmut. «Lo sei anche adesso? Chi è tuo padre, Mahnmut il moravec?»
A Mahnmut e Orphu occorsero due interi secondi per decidere che cosa rispondere in tutta onestà. «Non ho padre, Zeus.»
«Allora sei un giocattolo» concluse Zeus. Quando corrugava la fronte, le grandi sopracciglia bianche quasi si toccavano sopra il naso aguzzo.
«Non sono un giocattolo» ribatté Mahnmut. «Solo una persona in forma diversa. Come il mio amico qui presente, Orphu di Io, moravec dello spazio, che lavora nel toro di Io.» Indicò il guscio e gli occhi divini si posarono su Orphu. Era stato quest’ultimo a insistere per rivelare la propria natura. Voleva condividere la sorte di Mahnmut, aveva detto, quale che fosse.
«Un’altra piccola persona, ma con la forma di un granchio tutto ammaccato?» chiese Zeus. Stavolta non ridacchiò.
«Sì» rispose Mahnmut. «Posso conoscere i nomi di chi ci tiene prigionieri?»
Zeus esitò, Apollo protestò, ma alla fine il re degli dèi, con un ironico inchino, aprì la mano e indicò un dio dopo l’altro. «Colui che ti catturò, come già sai, è Apollo, mio figlio. Accanto a lui, gridando per cento prima che tu ti unissi alla conversazione, c’è Ares. La figura scura dietro Ares è mio fratello Ade, anche lui figlio di Crono e di Rea. Alla mia destra c’è il figlio di mia moglie, Efesto. Il dio regale in piedi accanto al tuo amico granchio è mio fratello Poseidone, convocato qui in onore del vostro arrivo. Accanto a Poseidone, con il collare di dorate alghe marine, c’è Nereo, anche lui degli abissi. Al di là del nobile Nereo c’è Ermes, guida e grande uccisore. Ci sono molti altri dèi… e dee, vedo… in arrivo nella Grande Sala, mentre parliamo, ma questi sette dèi e io stesso saremo la vostra giuria.»
«Giuria?» ripeté Mahnmut. «Il mio amico Orphu e io non abbiamo commesso alcun crimine contro di voi.»
«Al contrario» rise Zeus. Passò all’inglese. «Siete venuti dallo spazio gioviano, piccoli moravec, piccoli robot, probabilmente con l’intenzione di nuocerci. Io e mia figlia Atena abbiamo distrutto la vostra nave ed ero convinto, lo ammetto, d’avervi uccisi tutti. Siete piccoli abomini resistenti. Ma che sia la vostra fine, oggi.»
«Parli la lingua di questa creatura?» chiese Ares a Zeus. «Conosci questa lingua barbara?»
«Tuo padre parla tutte le lingue, dio della guerra» replicò Zeus, brusco. «Fa’ silenzio.»
La smisurata sala e molte balconate si riempivano rapidamente di dèi e di dee.
«Che questo cane/uomo/macchina e questo granchio privo di gambe siano rinchiusi in una stanza del palazzo» disse Zeus. «Conferirò con Era e con altri cui presto orecchio e decideremo cosa fare di loro fra breve. Portate gli altri due oggetti nella vicina stanza del tesoro. Valuteremo il loro valore, di qui a poco.»
Gli dèi chiamati Apollo e Nereo di avvicinarono a Mahnmut. Il piccolo moravec prese in esame la possibilità di ribellarsi e fuggire (nel polso aveva un laser a basso voltaggio che per un paio di secondi avrebbe potuto sorprendere gli dèi e su brevi distanze poteva correre rapidamente a quattro zampe, forse sgattaiolare fuori della Grande Sala, tuffarsi nel lago della caldera e nascondersi sul fondo) ma poi lanciò un’occhiata a Orphu, già sollevato senza il minimo sforzo da quattro dèi non nominati, e si lasciò prendere di peso e portare fuori della sala come un grosso bambolotto metallico.
Secondo il cronometro interno di Mahnmut, rimasero nel magazzino privo di finestre per trentasei minuti, prima che arrivasse il loro carnefice. Il magazzino era un ampio locale con pareti di marmo spesso quasi due metri nelle quali (rivelarono gli strumenti di Mahnmut) erano racchiusi campi di forza in grado di resistere a una piccola esplosione nucleare.
È ora d’innescare il Congegno, trasmise Orphu. Qualsiasi cosa faccia, è sempre meglio che lasciarci distruggere senza lottare.
Lo innescherei, se potessi, rispose Mahnmut. Non era previsto un comando a distanza. E sono stato troppo impegnato a modificare la navicella per costruirne uno alla buona.
Occasioni perdute, trasmise Orphu con una risata. Al diavolo. Ci abbiamo provato.
Ancora non cedo, replicò Mahnmut. Andò avanti e indietro, tastò qua e là il bordo della porta metallica che avevano varcato nell’entrare. Anche quella era sigillata da campi di forza. Forse Orphu, se avesse avuto ancora le braccia, avrebbe potuto aprirvi uno squarcio. Forse.
Che cosa dice Shakespeare quando le cose finiscono in questo modo? chiese Orphu. Will il poeta ha mai detto addio al Giovane?
In realtà, no, disse Mahnmut. Con le dita organiche tastò le pareti. Si separarono in circostanze abbastanza sgradevoli. Lasciarono che la loro relazione si esaurisse lentamente, quando scoprirono di fare sesso con la stessa donna.
Era una battuta? chiese Orphu, serio.
Mahnmut si bloccò, sorpreso. Eh?
Niente, niente.
Che cosa dice, Proust, di questa situazione? chiese Mahnmut.
"Longtemps, je me suis couché de bonne heure" recitò Orphu.
Mahnmut non amava il francese (gli dava l’impressione di olio troppo denso negli ingranaggi) ma lo teneva nel database e tradusse la frase: "Per lungo tempo mi sono coricato di buon’ora". Dopo due minuti e ventinove secondi, trasmise: Il resto è silenzio.
La porta si aprì e una dea alta più di due metri entrò nella stanza. Chiuse e sigillò la porta. Reggeva a due mani un ovoide argenteo i cui piccoli fori neri erano puntati su di loro. Mahnmut capì istintivamente che non avrebbe risolto niente, saltandole addosso. Arretrò finché riuscì a toccare il guscio di Orphu, pur sapendo che l’amico non poteva percepire il contatto.
La dea disse: «Mi chiamo Era e sono venuta a porre fine una volta per tutte alle sofferenze di voi due sciocchi, sciocchi moravec. La vostra razza non mi è mai piaciuta».
Ci furono un lampo e un sobbalzo e scese l’oscurità assoluta.