31 GERUSALEMME

«Che cos’è?» chiese Harman. Era fermo con Daeman all’ombra del Muro occidentale, a Gerusalemme, solo qualche passo dietro Savi: tutt’e tre guardavano il compatto raggio di luce azzurra che trafiggeva il cielo sempre più scuro.

«Credo che siano i miei amici» rispose Savi. «Tutti i novemilacentoquattordici amici miei, gli umani vecchio stile spazzati via nel fax finale.»

Daeman guardò Harman: anche lui, capì, dubitava della salute mentale della vecchia.

«I tuoi amici?» disse. «Quella è una luce azzurra.»

Savi distolse lo sguardo dal raggio (ora illuminava la sommità degli antichi edifici e le mura intorno a loro, bagnava tutto di un bagliore azzurro, mentre la luce del giorno svaniva) e fissò i due uomini, con quello che avrebbe potuto essere un mesto sorriso. «Sì. Quel raggio di luce azzurra. I miei amici.» Con un gesto li invitò a muoversi e li precedette fuori dalla corte, lontano dal muro, lungo la strada da dove erano venuti, lontano dalla base del raggio di luce azzurra.

«I post ci dissero che il fax finale era un modo per memorizzarci mentre ripulivano il mondo» continuò Savi, con voce bassa che però echeggiava negli stretti vicoli. «Il piano era, spiegarono, di ridurre i nostri codici… per i post-umani eravamo tutti codici fax anche allora, amici miei… ridurre i nostri codici e metterci in un loop neutrinico continuo per diecimila anni, mentre loro rassettavano il pianeta.»

«Che cosa significa?» disse Harman. «Rassettare il pianeta?»

Camminavano sotto una lunga arcata e Daeman riuscì a malapena a scorgere che Savi sorrideva di nuovo. «Verso la fine dell’Età Perduta le cose sono andate un po’ a catafascio» spiegò la vecchia. «Ancora peggio, dopo il rubicon. Poi giunsero gli Anni Folli. ARNisti indipendenti riportavano in vita dinosauri e Uccelli Terrore e specie botaniche estinte da lungo tempo, alterando l’ecologia del pianeta, mentre la biosfera e la datasfera cominciavano a fondersi nella noosfera cosciente, la logosfera. A quel tempo i post-umani erano già fuggiti nei loro anelli. La noosfera senziente della Terra non si fidava più di loro e a ragione: i post sperimentavano il teletrasporto quantico, aprivano ingressi in posti che non capivano, aprivano porte che avrebbero dovuto lasciare chiuse.»

Giunsero in una via più ampia e Harman si fermò. «La smetti di dire cose senza senso, Savi? Non riusciamo a capire nemmeno un terzo di ciò che dici.»

«Come potreste?» ritorse Savi, guardando Harman con un’espressione o di dolore o di grande dispiacere. «Come potreste capire? Non avete storia. Non avete tecnologia. Non avete libri.»

«I libri li abbiamo» replicò Harman, sulla difensiva.

Savi si mise a ridere.

«Tutti questi discorsi di dinosauri e di sfere cos’hanno a che fare col raggio azzurro?» chiese Daeman.

Savi si sedette su un basso muricciolo. La brezza si era levata e sibilava, in alto, fra tegole rotte. L’aria si rinfrescava rapidamente. «Non volevano averci fra i piedi, mentre rassettavano il pianeta» ripeté Savi. «Un toro di neutrini, dissero. Niente massa. Niente confusione. Niente casini. Per loro, diecimila anni per rassettare la Terra. Per noi umani vecchio stile, meno d’un battito di ciglia. Così dissero.»

«Però ti hanno lasciata indietro» obiettò Harman.

«Sì.»

«Per caso?»

«Ne dubito» rispose Savi. «Ben poco di ciò che i post facevano era per caso. Forse avevano uno scopo, nei miei riguardi. Forse mi punirono perché riportavo alla luce storie che era meglio lasciare sepolte. Era il mio lavoro, sapete. Studiavo la storia. Storia della cultura.» Rise di nuovo.

Daeman non riuscì a capirne il motivo. «Allora i neutrini sono azzurri?» chiese. Era deciso a ottenere una risposta diretta.

Savi rise ancora. «Ne dubito molto. Non credo che i neutrini abbiano colore… né bellezza. Ma quel raggio azzurro compare ogni Tisha b’Av, ogni nove di Av, e qualcosa mi dice che il resto degli umani vecchio stile, tutti i miei amici, sono memorizzati e codificati in quel raggio azzurro. Non credo che sia quella macchina a generare il raggio. Credo che ogni anno la Terra, a questo punto dell’orbita, attraversi il raggio di neutrini e che la macchina si limiti a renderlo visibile.»

«Ma non sono trascorsi diecimila anni dal fax finale» disse Harman. «Solo millequattrocento, da quanto dici.»

Savi annuì stancamente. «E le cose non sono state rassettate molto, dal fax finale, vero, miei giovani amici?» Si alzò, prese lo zaino e imboccò la stretta via. Si fermò di colpo.

«Un voynix!» esclamò Daeman. «Ora non dovremo più camminare fino al sonie. Gli diremo di portare qui un calessino e…»

Il voynix, una sagoma di ferro e di cuoio nell’arcata ovest davanti a loro, all’improvviso ritrasse i manipolatori e li sostituì con lame taglienti. Poi si lanciò alla carica, dritto contro di loro, correndo a quattro zampe sulla facciata laterale dell’edificio, come un frenetico ragno.

Savi si era messa a frugare ansiosamente nello zaino nel momento stesso in cui Daeman aveva indicato il voynix; estrasse il nero congegno di plastica e di metallo ("pistola", l’aveva chiamato) e prese di mira il voynix alla carica.

Daeman era rimasto troppo sorpreso per muoversi. Era il più vicino al voynix, che zampettava ancora sul muro, a due metri e mezzo di altezza, e saltava in orizzontale su tutt’e quattro le zampe; ma la creatura pareva concentrata su Savi e oltrepassò di corsa Daeman. All’improvviso l’aria della sera fu lacerata da un rumore, come di spatole di legno raschiate su lastre di pietra, e il muro volò in una pioggia di schegge; il voynix fu scagliato all’ìndietro e cadde sul selciato. Savi avanzò di qualche passo, mirò e sparò di nuovo.

Decine di fori grossi come la punta di un dito comparvero sul guscio e sul cappuccio metallico del voynix. Il braccio destro volò in alto come per lanciare qualcosa, ma altri dardi lo colpirono, lo staccarono dall’articolazione, lo scagliarono lontano. Il voynix si mise a fatica in piedi, una lama ancora ronzante.

Savi gli sparò ancora, quasi tranciandolo in due all’altezza della cintola. Il fluido interno, azzurro latteo, schizzò i muri e le pietre dal selciato. Ciò che restava del voynix cadde, si contrasse ancora un istante, rimase inerte.

Harman e Daeman si avvicinarono con prudenza, cercando di non calpestare il fluido azzurro e i pezzi della creatura. In due giorni era il secondo voynix che vedevano distruggere.

«Andiamo» disse Savi, togliendo dalla pistola il caricatore di dardi di cristallo e innestandone uno pieno. «Se qui attorno ce ne sono altri, siamo nei guai. Dobbiamo tornare al sonie. In fretta, anche.»


Savi li guidò per una stretta via, svoltò in un vicolo ancora più stretto, girò di nuovo in un passaggio più angusto di un vicolo, una fessura tra due edifici di pietra. Sbucarono in un cortile ampio e polveroso, passarono sotto un arco di pietra e si ritrovarono in un cortile più piccolo.

«Presto!» bisbigliò Savi. Li guidò su per una scalinata esterna, attraversò un tetto a terrazza con cumuli di polvere, salì una malferma scaletta di legno, passando davanti a finestre chiuse da scuri, fino a un tetto più in alto.

«Cosa facciamo?» bisbigliò Harman, mentre uscivano nella fredda aria della notte, in cima all’edificio. «Non dobbiamo tornare al sonie?»

«Lo chiamerò qui» disse Savi. Piegò il ginocchio, vicino al muricciolo del tetto, e attivò la funzione proxnet, schermando il bagliore sopra la mano. Harman si accoccolò accanto a lei.

Daeman rimase in piedi. Lassù l’aria era fresca, dopo il caldo delle vie acciottolate e degli stretti vicoli, e da quel punto, in cima alla collina, il panorama era interessante. Alla loro destra il raggio azzurro bagnava di livida luce le cupole e i tetti e le vie. Ormai era buio e si vedevano le stelle. Nella città non c’erano luci accese, ma le antiche cupole e le guglie e alcune arcate brillavano nel bagliore azzurro. Savi aveva detto che il recinto chiuso da mura sulla collina dove ardeva il raggio era chiamato Haram esh-Sharif, ossia Monte del Tempio, e i due edifici a cupola alla base della macchina del raggio erano la Cupola della Roccia e la moschea Al-Aqsa.

«Itbah al-Yahud!» Il grido improvviso, stridulo e amplificato, provenne dalle vie alle loro spalle. Fu ripetuto dal labirinto di stretti vicoli a ovest, fra loro e il sonie.

«Itbah al-Yahud!»

Savi alzò gli occhi dal display sulla palma della mano.

«Cos’è questo grido?» bisbigliò Harman, in tono stridulo. «I voynix non parlano.»

«No» disse Savi. «Proviene dagli antichi altoparlanti dei muezzin automatici per la chiamata alla preghiera in tutte le moschee.»

«Itbah al-Yahud!» La tremula, pressante voce echeggiò da tutte le parti nella città buia. «Al-jihad!» gridò la voce amplificata. «Itbah al-Yahud!»

«Maledizione!» imprecò Savi, guardando il display. «Non c’è da stupirsi se non risponde al telecomando.»

«Cosa?» Daeman si avvicinò e si accovacciò accanto a Harman e tutti e due guardarono il display rettangolare sospeso a qualche centimetro sulla mano aperta di Savi. Si vedeva la parte frontale del sonie, nel punto dove avevano toccato terra. I campi di sassi e la città cinta di mura brillavano di verde nella ripresa a bassa luminosità della telecamera. Più vicino, sopra l’obiettivo, decine di voynix giravano intorno al sonie, si gettavano contro la macchina, la colpivano con pietre, la coprivano di grossi sassi.

«Hanno annullato il campo di forza e rotto qualcosa» bisbigliò Savi. «Il sonie non verrà a prenderci.»

«Allahu akbar!» gridò da tutti i punti della città la stridula voce amplificata. «Itbah al-Yahud! Itbah al-Yahud!»

I tre si accostarono al bordo del tetto. Per un secondo Daeman pensò che gli edifici e il selciato delle vie e i muri di cinta dei cortili tremassero, si sbriciolassero, si dissolvessero nella luce azzurra riflessa; poi capì che sulle pietre, sulle cupole, sui muri, sui tetti strisciavano migliaia di creature, come un’invasione di scarafaggi che zampettavano furiosamente verso la luce azzurra. Allora si rese conto che i luccicanti e brulicanti edifici erano molto lontano, valutò la scala e capì che non si trattava di scarafaggi né di ragni zampettanti in corsa verso di loro, ma di voynix.

«Itbah al-Yahud!» urlava da ogni parte la voce metallica. Le parole echeggiavano contro il Monte senza perdere il tono di folle insistenza.

«Cosa significa?» chiese Daeman.

Savi guardava i voynix illuminati di azzurro zampettare più vicino sopra i tetti e nel labirinto di vie strette e sinuose. L’ondata di grandi sagome simili a insetti ormai distava meno di due isolati, tanto che si sentiva il raschiare di lame su pietre e tegole. Savi si girò lentamente. Parve più vecchia che mai, nella pulsante luce azzurra.

«Itbah al-Yahud!» ripeté piano. «"Uccidi l’ebreo".»

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