Daeman dormì bene e sognò donne.
Trovava divertente, se non bizzarro, sognare donne solo quando non dormiva con una di loro: era come se avesse bisogno di calda carne femminile accanto a sé ogni notte e il suo subcosciente gliela fornisse, quando lui falliva il quotidiano tentativo di procurarsela. Mentre si svegliava, tardi, nella comoda stanza di villa Ardis, il suo sogno volò in frammenti e brandelli, ma ne rimase un poco (insieme con la solita erezione mattutina) che bastò per riportargli alla mente un vago ricordo del corpo di Ada o di una ragazza molto simile a Ada: calda pelle bianca, profumata, natiche piene, seni rotondi, cosce sode. Daeman non vedeva l’ora della prossima conquista del fine settimana e in quella splendida mattina aveva pochi dubbi sul suo successo.
Più tardi, dopo avere fatto la doccia ed essersi impeccabilmente vestito nello stile che riteneva casual rurale (calzoni di cotone a righe bianche e blu, panciotto di lana leggera, giacca color pastello, camicia di seta bianca e fermacravatta rubino) portando il bastone da passeggio preferito e scarpe di pelle nera un po’ più robuste delle solite scarpette di vernice formali, consumò la colazione nella serra illuminata dal sole e apprese, con soddisfazione, che Hannah e quel tale Harman erano già andati via. "Per prepararsi alla colata di stasera" era stata l’oscura spiegazione di Ada e Daeman non era tanto interessato da chiedere delucidazioni. Era solo contento che quell’uomo se ne fosse andato.
Nella conversazione, Ada non tirò in ballo assurdità come i libri o le navi spaziali, ma trascorse con lui la tarda mattinata, facendogli da guida in modo che si familiarizzasse di nuovo con le molte ali di villa Ardis e i saloni sormontati da timpani, le raffinate cantine di vini e i passaggi segreti e gli antichi solai. Daeman ricordava un analogo giro durante la sua prima visita alla villa: Ada giovinetta, senza lentiggini, l’aveva guidato su per una scala traballante fino alla piattaforma per jinker sul tetto e lui, attento come sempre a simili rivelazioni, aveva mezzo scorto un paradiso da giovane maschio sotto la gonna sollevata di lei che lo precedeva sulla scala: ricordava perfettamente le cosce lattee e l’ombra scura che le segnava.
Ora salirono la stessa scala, fino alla stessa piattaforma per jinker, ma Ada gli indicò di precederla; si limitò a sorridere per la sua insistenza da gentiluomo deciso a cederle il passo e quel sorriso lasciava pensare a un antipatico ricordo dell’evento che lui credeva fosse passato inosservato a quel tempo.
Villa Ardis era un’alta casa padronale e la piattaforma per jinker, con le assi di mogano sempre lucide, sporgeva tra i frontoni su un aggetto a venti metri dal vialetto di ghiaia dove erano fermi i voynix, simili ad arrugginiti scarabei in piedi. Daeman si tenne lontano dal bordo privo di ringhiera, ma Ada andò fin sull’orlo, senza badare al rischio, guardando con nostalgia il lungo prato e la lontana linea della foresta.
«Non daresti qualsiasi cosa per avere un jinker funzionante?» disse. «Anche solo per alcuni giorni?»
«No. Perché dovrei?»
Ada mosse le mani dalle lunghe dita. «Anche con un semplice jinker da bambini potresti volare sopra la foresta e il fiume, sopra quelle colline laggiù a ovest, volare per giorni e giorni lontano da qui, lontano da ogni porto fax.»
«Perché si dovrebbe desiderare una cosa simile?»
Ada lo guardò per un attimo. «Non sei curioso? Non ti chiedi cosa c’è là fuori?»
Daeman si diede colpetti al panciotto, come per togliersi delle briciole. «Non essere assurda, mia cara. Non c’è nulla d’interessante, là fuori… solo natura selvaggia… non un’anima. Tutti quelli che conosco vivono nel raggio di qualche chilometro da un porto fax. E poi là fuori ci sono i tirannosauri.»
«Tirannosauri? Nella nostra foresta? Che idiozia! Qui non ne abbiamo mai visti. Chi ti ha raccontato questa storia, cugino?»
«Tu, mia cara. L’ultima volta che ti ho fatto visita, mezza Ventina fa.»
Ada scosse la testa. «T’avrò preso in giro.»
Daeman rifletté su questa affermazione, sugli anni d’ansia al pensiero di tornare ancora a villa Ardis, sui tirannosauri che avevano popolato i suoi incubi in tutto quel tempo, e non poté fare a meno di accigliarsi.
Ada parve leggergli nel pensiero e sorrise. «Ti sei mai chiesto, cugino Daeman, perché i post hanno deciso di mantenere a un milione esatto il numero di abitanti? Non un milione e uno. Né 999.999. Perché un milione esatto?»
Daeman batté le palpebre, sorpreso, e cercò di capire il rapporto, nei pensieri di lei, fra un jinker dell’Età Perduta, i dinosauri e il numero di esseri umani rimasto costante per… be’… da sempre. E non gradì che lei ricordasse a tutt’e due che erano cugini, perché vecchie superstizioni a volte inibivano i rapporti sessuali fra membri della stessa famiglia. «Trovo che simili speculazioni oziose blocchino la digestione, perfino in una così bella giornata, mia cara» disse. «Passiamo a un argomento più appropriato?»
«Ma certo» disse Ada, elargendogli il più dolce dei sorrisi. «Perché non scendiamo a trovare qualche altro ospite prima di pranzo e della gita al luogo della colata?»
Stavolta scese per prima la scala.
Il pranzo fu servito all’esterno, nel patio nord, da domestici librati a mezz’aria. Daeman chiacchierò amabilmente con alcuni giovani (pareva che vari altri ospiti fossero giunti via fax per assistere alla "colata", qualsiasi cosa fosse, di quella sera); dopo il pasto, molti ospiti trovarono in casa dei divani o comode poltrone nel prato ombreggiato, sulle quali sdraiarsi e stendersi sugli occhi il lino. Di norma sotto un lino si restava circa un’ora, così Daeman andò a fare una passeggiata verso il limitare del bosco, tenendo gli occhi aperti nel caso ci fossero farfalle.
Ada lo raggiunse quasi ai piedi della collina. «Non usi il lino, cugino Daeman?»
«Non mi garba» rispose lui, accorgendosi d’avere usato un tono più formale di quanto non intendesse. «Mi sono abituato a quella roba, dopo quasi un decennio, ma non vi indulgo. Anche tu ti astieni, mia cara?»
«Non sempre» rispose Ada. Mentre camminava, faceva ruotare un parasole color pesca e la luce soffusa conferiva un magnifico splendore al suo colorito pallido. «Di tanto in tanto controllo gli eventi, ma a quanto pare sono troppo occupata per sviluppare dipendenza dal lino, come tanti altri di questi tempi.»
«Pare che il lino sia onnipresente.»
Ada si fermò all’ombra di un gigantesco olmo dai rami grossi e bassi. Chiuse il parasole. «L’hai provato?»
«Oh, sì. Era di gran moda, a metà della mia seconda Ventina. Ho trascorso alcune settimane a gustare… l’eccesso di quella mania.» Non riuscì a eliminare del tutto il tono di disgusto al ricordo. «Dopo di allora, ho smesso.»
«Sei contrario alla violenza, cugino?»
Daeman rispose con un gesto neutro. «Sono contrario alla… violenza vicaria.»
Ada rise piano. «La stessa ragione per cui Harman non si è mai lasciato attirare dal lino. Voi due avete qualcosa in comune.»
Daeman ritenne così inverosimile l’idea che reagì sparpagliando con la punta del bastone da passeggio le foglie morte sul terreno.
Ada guardò il sole, anziché richiamare sulla palma la funzione oraria. «Si rizzeranno presto. "Un’ora sotto il lino equivale a otto ore di turgida esperienza."»
«Ah» disse Daeman, chiedendosi se quel cliché non fosse usato come un double entendre. L’espressione di Ada, sempre piacevole, ma al limite del malizioso, non dava indizi. «Questa "colata"… durerà a lungo?»
«Si prevede che duri gran parte della notte.»
Daeman batté le palpebre, sorpreso. «Di sicuro non bivaccheremo giù al fiume o comunque nel posto dove va in scena l’evento!» Si chiese se dormire all’aperto, sotto le stelle e gli anelli, avrebbe accresciuto le sue probabilità di trascorrere la notte con quella ragazza.
«Ci saranno provviste per chi vuole stare tutta la notte nel sito della colata» disse Ada. «Hannah promette che sarà spettacolare. Ma molti di noi torneranno alla villa dopo mezzanotte.»
«Ci saranno vino e altre bevande alla… ah… colata?»
«Certo.»
Ora fu Daeman a sorridere. Gli altri rimanessero pure a guardare lo spettacolo, ma lui avrebbe continuato a far colare vino nel bicchiere di Ada per tutta la sera, avrebbe seguito la sua "turgida" linea di conversazione insinuante, l’avrebbe accompagnata a casa (con un po’ di fortuna e piani appropriati, solo loro due in un piccolo calesse), avrebbe riversato su di lei la piena forza dei suoi non trascurabili poteri d’attenzione… e con solo un altro pizzico di fortuna, quella notte non avrebbe sognato donne.
Nel tardo pomeriggio, circa venti ospiti (alcuni cianciavano degli eventi del giorno accaduti nel lino, parlavano di Menelao colpito da una freccia avvelenata o idiozie del genere) furono radunati da servizievoli domestici e partirono per il "sito della colata" in un corteo di troike e di calessi. Alcuni voynix tiravano i veicoli e altri voynix trotterellavano ai lati come scorta, anche se, pensò Daeman, non era chiara la ragione, vista l’assenza di tirannosauri nei boschi.
Aveva fatto in modo di trovarsi nel calessino all’inizio del corteo, insieme con la padrona di casa; Ada indicava interessanti alberi, felci e ruscelli, mentre i veicoli procedevano con fracasso per tre o più chilometri lungo il sentiero di terra battuta verso il fiume. Sul sedile di pelle rossa Daeman occupò più spazio del normale, anche considerando la sua piacevole rotondità, e fu ricompensato dalla pressione della coscia di Ada contro la sua per tutto il viaggio.
La destinazione, vide quando uscirono sul crinale d’arenaria sopra la vallata del fiume, non era il fiume stesso, ma un affluente del corso principale, un vero e proprio lago di sbarramento largo qualche centinaio di metri, dove l’erosione e gli allagamenti avevano creato un ampio banco di sabbia, una sorta di spiaggia sulla quale era stata costruita una malferma struttura di tronchi, rami, scalette, trogoli, rampe e gradinate. A Daeman parve un rozzo patibolo, anche se non aveva mai visto un patibolo vero, naturalmente. Torce erano state piantate nell’affluente poco profondo e la malferma struttura si trovava per metà sulla sabbia e per metà sull’acqua. Un centinaio di metri più in là, a dividere quel canale dal fiume vero e proprio, c’era una stretta isola, coperta di cicadacee ed equisetacee, dalla quale schizzarono via uccelli e piccoli rettili volanti, con il massimo di strida e di battere d’ali. Daeman si chiese oziosamente se sull’isola ci fossero farfalle.
In una zona erbosa sovrastante la spiaggia erano state disposte pittoresche tende di seta, poltrone e tavolate di cibarie. Servitori svolazzavano qua e là, a volte sorvolando a scatti la testa degli ospiti in arrivo.
Camminando dietro Ada, Daeman riconobbe alcune delle persone al lavoro sulla bizzarra impalcatura: proprio in cima, Hannah, con una bandana rossa intorno alla fronte, legava altri elementi strutturali; sei metri più in basso, il vecchio rimbambito, Harman, senza camicia, sudato, con un’insolita abbronzatura, attizzava un fuoco; altri giovani, presumibilmente amici di Hannah e di Ada, andavano su e giù per le rampe e le scalette di legno, portando pesanti carichi di sabbia e altri rami per la costruzione e pietre arrotondate. Un fuoco ardeva con furia nella parte centrale d’argilla della struttura e le faville si alzavano nel cielo del tardo pomeriggio. Le azioni di tutti parevano volte a uno scopo, anche se Daeman non vedeva possibili scopi nell’alto mucchio di bastoni e trogoli e argilla e sabbia e fiamme.
Un servitore si librò accanto a lui e gli offrì un bicchiere. Daeman accettò e andò a cercarsi una poltrona nell’ombra.
«Questo è il cubilotto» spiegò Hannah agli ospiti, più tardi, quella sera. «Ci lavoriamo da una settimana, portando materiali in canoa sul fiume. Tagliando e piegando rami per adattarli.»
L’ottima cena era terminata. Raggi di sole illuminavano ancora le alte colline sul lato più vicino del fiume, ma la valle era in ombra e i due anelli brillavano vividamente nel cielo che si scuriva. Faville schizzavano e volavano verso gli anelli e il soffio di mantici e il ruggito della fornace erano molto rumorosi. Daeman prese per sé un altro bicchiere, l’ottavo o il decimo della serata, e ne offrì uno a Ada, che scosse la testa e riportò l’attenzione su Hannah.
«Abbiamo intrecciato legno in forma di cesto e abbiamo rivestito il centro della fornace, il pozzo, con argilla refrattaria. Abbiamo usato la pala, mescolando sabbia, bentonite e un po’ d’acqua. Dall’impasto simile a creta abbiamo ricavato delle palle, le abbiamo avvolte in felci e foglie bagnate perché rimanessero umide e con quelle abbiamo rivestito per bene la fornace. Ecco perché il cubilotto di legno non prende fuoco.»
Daeman non aveva idea di che cosa stesse dicendo la donna. Perché costruire una grossa, balorda struttura di legno e poi accendervi un fuoco al centro, se non si voleva che bruciasse? Quel posto era un manicomio.
«Soprattutto» continuò Hannah «abbiamo passato gli ultimi giorni ad alimentare il fuoco e a spegnere i principi d’incendio causati dal cubilotto. Per questo l’abbiamo costruito vicino al fiume.»
«Fantastico» borbottò Daeman e andò a cercarsi un altro bicchiere, mentre Hannah e i suoi amici, perfino l’insopportabile Harman, non la smettevano di parlare, usando termini privi di senso come "letto di coke", "frangivento", "tuyère" (che a sentire Hannah indicava un piccolo ugello per l’ingresso d’aria nella fornace rivestita d’argilla, accanto al quale la giovane donna di nome Emma continuava a manovrare il rauco mantice) e "zona di fusione" e "sabbia modellante" e "foro di colata" e "foro delle scorie". Tutte parole che alle orecchie di Daeman suonavano barbare e vagamente ripugnanti.
«E ora è giunto il momento di vedere se funziona» annunciò Hannah, con voce che rivelava stanchezza ed emozione.
All’improvviso gli ospiti furono costretti ad arretrare sul bordo sabbioso del fiume e Daeman indietreggiò sul tappeto d’erba accanto ai tavoli, mentre tutti i giovani (e quel noioso di Harman) si mettevano freneticamente in azione. Le faville volarono più in alto. Hannah corse in cima al cosiddetto cubilotto, mentre in basso Harman scrutava nelle fiamme trattenute nella fornace d’argilla e gridava di fare questo o quest’altro. Emma azionò i mantici fino al limite delle sue forze e fu sostituita dall’uomo magro di nome Loes. Daeman ascoltava a metà Ada che, senza fiato, spiegava altri particolari agli amici radunati. Colse frasi come "tubo di scappamento" e "porta di scappamento" e "scorie raffreddate" (anche se le fiamme infuriavano sempre più calde e sempre più alte di prima) e "pressione di scappamento". Daeman indietreggiò ancora di qualche metro.
«Temperatura di colata duemilatrecento gradi!» gridò Harman a Hannah. La donna si asciugò la fronte sudata, eseguì alcune regolazioni sul cubilotto e annuì. Daeman rimescolò il contenuto del bicchiere e si chiese quanto dovesse ancora aspettare per tornare con Ada in calesse a villa Ardis.
A un tratto ci fu una gran confusione e Daeman alzò gli occhi, convinto di vedere la struttura in fiamme e Harman e Hannah ardere come pupazzi di paglia. Nient’affatto. Mentre Hannah usava una coperta per soffocare le fiamme sulla scaletta sotto la parte superiore del cubilotto (mandando via servizievoli domestici e perfino un voynix che si era avvicinato per proteggere gli umani dai pericoli), Harman e altri due, finito di curiosare nella fornace ardente, avevano appena aperto un "foro di colata", consentendo a un liquido che pareva lava gialla di scorrere in trogoli di legno giù fino alla spiaggia.
Alcuni ospiti vennero avanti, ma furono spinti indietro dalle grida di Hannah e dal calore che irradiava dal flusso di metallo liquido.
I trogoli, rozzamente intagliati e rivestiti, emisero fumo, ma non presero fuoco, mentre il metallo giallo rossastro scorreva pigramente dal cubilotto, oltrepassava le scalette e si versava per l’ultimo mezzo metro in uno stampo a croce posto nella sabbia.
Hannah scese di corsa una scaletta e aiutò Harman a chiudere il foro di colata. Tutt’e due scrutarono nella fornace da uno spioncino, fecero qualcosa (come Ada stava spiegando a un ospite) al "foro delle scorie" (diverso dal foro di colata, notò vagamente Daeman) e poi la giovane donna e l’uomo anziano (che presto sarebbe stato un uomo anziano defunto, pensò sadicamente Daeman) saltarono dal cubilotto sulla sabbia per guardare lo stampo.
Altri ospiti accorsero sulla spiaggia. Daeman posò il bicchiere sul vassoio di un domestico di passaggio e li seguì senza fretta.
Giù al fiume l’aria era molto fredda, ma il calore dello stampo nella sabbia colpì Daeman come un pugno infuocato.
Il materiale fuso cominciava a rapprendersi in una massa rossa e grigia a forma di croce.
«Cos’è?» domandò Daeman a voce alta. «Una sorta di simbolo religioso?»
«No» rispose Hannah. Si tolse la bandana e si ripulì la faccia sudata e striata di fuliggine. Sorrideva come una matta. «È la prima fusione di bronzo in… in quanti anni, Harman? Mille?»
«Probabilmente tre volte tanto» rispose piano Harman.
Gli ospiti borbottarono e applaudirono.
Daeman rise. «Dov’è l’utilità?»
Harman, sudato e a petto nudo, lo squadrò. «Di quale utilità è un neonato?» replicò.
«Proprio quel che volevo dire. Rumoroso, impegnativo, puzzolente… inutile.»
Nessuno gli diede retta, mentre Ada abbracciava Hannah, Harman e gli altri che avevano partecipato al lavoro, come se avessero realizzato un’impresa meritoria. Gli ospiti giravano intorno. Harman e Hannah salirono sulle scalette e cominciarono a darsi da fare, guardando dagli spioncini e frugando con sbarre metalliche nella fornace, come se quella produzione di lava dovesse continuare ancora. Era chiaro, pensò Daeman, che quello spettacolo pirotecnico sarebbe continuato nella notte.
Colto da un improvviso bisogno di urinare, oltrepassò i tavoli, pensò di approfittare del padiglione toeletta coperto da un tendone, poi decise (nello spirito di tutta quella idiozia pagana) di rispondere al richiamo della natura in un posto all’aria fresca. Risalì il costone erboso verso la linea scura degli alberi, seguendo una farfalla monarca che svolazzava da quelle parti. Non c’era niente d’insolito nel vedere una monarca, ma non era né il momento del giorno né la stagione perché quelle farfalle fossero in giro a svolazzare. Daeman oltrepassò l’ultimo voynix e s’inoltrò sotto gli alti rami di olmi e di cicadacee.
Qualcuno, forse Ada, gridò qualcosa dalla sponda del fiume, distante una trentina di metri, ma Daeman si era già sbottonato i calzoni e non voleva fare il maleducato. Anziché girarsi a rispondere, avanzò di altri cinque, sei metri nel buio della foresta. Ci avrebbe messo solo un minuto.
«Ahhh!» sospirò, sempre guardando le ali arancione della farfalla, tre metri sopra di lui, mentre l’urina picchiettava su un tronco scuro.
L’enorme allosauro, dieci metri dal muso alla coda, giunse dal buio, correndo a trenta chilometri all’ora e chinandosi per scansare i rami mentre s’avventava.
Daeman ebbe il tempo di gridare, ma decise di rimettersi a posto i calzoni, anziché girarsi e correre via in quello stato indecente. Con tutta la sua lussuria, era pudico. Alzò il pesante bastone da passeggio per tenere a bada l’animale.
L’allosauro si prese bastone e braccio insieme, strappandolo alla spalla. Daeman gridò di nuovo e piroettò in un schizzo di sangue.
L’allosauro lo sbatté a terra e gli strappò l’altro braccio, lanciandolo in aria e afferrandolo al volo come un bocconcino; con la massiccia zampa munita d’artigli bloccò il tronco privo di braccia che ancora si dimenava, finché non fu pronto a calare di nuovo la terribile testa. Con noncuranza, quasi per gioco, con un morso tranciò Daeman in due e inghiottì in un colpo solo la testa e la parte superiore del tronco. Costole e colonna vertebrale scricchiolarono e scomparvero nelle fauci della creatura. Poi l’allosauro ingurgitò le gambe e la parte inferiore del tronco, lanciando intorno brandelli di carne, come un cane con un ratto.
Allora iniziò il ronzio del fax e due voynix accorsero a uccidere l’allosauro.
«Oh, mio Ilio!» gridò Ada, fermandosi al limitare del bosco, mentre i voynix terminavano la sanguinosa esecuzione.
«Che macello» disse Harman. Gesticolò per tenere indietro gli altri ospiti. «Non l’hai avvertito di stare nel perimetro dei voynix, quaggiù? Non gli hai detto niente dei dinosauri?»
«Mi ha chiesto dei tirannosauri» disse Ada, la mano ancora sulla bocca. «Gli ho detto che qui intorno non ce n’erano.»
«Be’, tecnicamente è vero» riconobbe Harman.
Alle loro spalle, il crogiolo continuò a rumoreggiare e a schizzare faville nel cielo sempre più scuro.