«Si stabilizza» trasmise Mahnmut a Orphu via cavo. «Ritmo di rollio, una rivoluzione ogni tre secondi circa. Beccheggio e imbardata prossimi allo zero.»
«Cercherò di eliminare il rollio» disse Orphu. «Avvisami quando hai nel reticolo la calotta polare.»
«D’accordo, no… scarroccia. Maledizione. Che casino.» Cercava di allineare la barra dell’alimentazione video e la bianca sbavatura della calotta polare marziana, in una tempesta di detriti ruzzolanti e di plasma ancora ardente.
«Sì» disse Orphu dalla stiva «sono tutto un casino.»
«Non mi riferivo a te.»
«Lo so. Ma sono un casino lo stesso. Darei metà della mia biblioteca proustiana per riavere uno solo dei miei sei occhi.»
«Ti allacceremo a un alimentatore visuale» disse Mahnmut. «Oh, diavolo. Ruzzoliamo di nuovo.»
«Lascia che ruzzoli fino al momento dell’ingresso nell’atmosfera» disse Orphu. «Risparmiamo il combustibile dei propulsori ed energia. E, no, lasciamo perdere il collegamento visuale. Ho fatto un controllo danni, dopo che mi hai infilato qui, e non ho perduto solo gli occhi e le telecamere. Guardavo verso prua, quando la nave è stata colpita e il bagliore mi ha bruciato tutti i canali fino al livello organico. I miei nervi ottici interni sono cenere.»
«Mi spiace» disse Mahnmut. Aveva la nausea e non solo per i continui capitomboli. Dopo un minuto, soggiunse: «Siamo ben sotto il livello di guardia per qualsiasi cosa che si consumi… acqua, aria, combustìbile dei jet. Sei sicuro di voler stare dentro questo campo di detriti?».
«È l’alternativa migliore che abbiamo» rispose Orphu. «Sul radar siamo solo un altro pezzo della nave spaziale distrutta.»
«Radar?» si stupì Mahnmut. «Ma non hai visto cosa ci ha attaccato? Un dannatissimo cocchio! Pensi che un cocchio abbia il radar?»
Orphu rise. «Pensi che un cocchio possa scagliare una lancia d’energia come quella che ha vaporizzato un terzo della nave, compresi Koros e Ri Po? Sì, Mahnmut, ho visto il cocchio, è l’ultima cosa che mi è stato concesso di vedere. Ma non credo nemmeno per un secondo che fosse realmente un cocchio guidato nel vuoto dello spazio da un uomo e una donna più grandi del normale. No, no. Troppo ingegnoso… di gran lunga troppo ingegnoso.»
Mahnmut non trovò niente da replicare. Rimpianse che Orphu non avesse eliminato il rollio (il sommergibile beccheggiava e imbardava di nuovo) ma ogni altra cosa nel campo di detriti ruzzolava, perciò era sensato che anche loro si conformassero.
«Vuoi parlare dei sonetti di Shakespeare?» chiese Orphu di Io.
«Mi prendi per il culo?» I moravec amavano le antiche espressioni colloquiali umane, in particolare quelle scatologiche.
«Sì» rispose Orphu. «Ti sto decisamente prendendo per il culo, amico mio.»
«Aspetta, aspetta» disse Mahnmut. «I detriti cominciano a diventare incandescenti. E noi pure. Ci ionizziamo.» Fu contento d’avere parlato in tono normale. Davanti a loro, i pezzi più grossi della nave spaziale distrutta cominciavano a brillare di un color rosso cupo. Anche la prua del Dark Lady cominciava a diventare incandescente. I sensori esterni del sottomarino segnalarono l’aumento della temperatura dello scafo. Entravano nell’atmosfera di Marte.
«È il momento di rimetterci in assetto» disse Orphu, che riceveva i dati ritrasmessi nello scafo del sommergibile e faceva il possibile con lo scarico parziale dei comandi di Koros. Accese i propulsori fissati al sommergibile e riallineò i giroscopi. «Il rollio è finito?»
«Non del tutto.»
«Non possiamo aspettare. Sto per girare questo mucchio di ferraglia, prima che bruci tutto.»
«Questo "mucchio di ferraglia" si chiama The Dark Lady e potrebbe salvarci la vita» replicò freddamente Mahnmut.
«Certo, certo» disse Orphu. «Dimmi quando la barra nel monitor video di poppa è centrata sul lembo di Marte sopra il polo. Poi comincerò a eliminare il rollio. Dio, quanto darei per riavere uno solo dei miei occhi! Scusa, non lo dirò mai più.»
Mahnmut guardò il monitor. A causa della nube di detriti che si espandeva, gli unici calcoli attendibili della loro posizione fatti per Orphu negli ultimi trenta minuti erano basati su Marte stesso. Anche le due piccole lune erano invisibili. Ora i propulsori emisero un rumore sordo e il sottomarino ruotò lentamente; la telecamera di prua perse il contatto con Marte e mostrò plasma ardente, metallo fuso al calor bianco e milioni di schegge lucenti che erano state la loro nave spaziale e i loro compagni di viaggio.
La massa di Marte, arancione-rossa-marrone-verde, riempì la telecamera di poppa e il segno che Orphu aveva detto di tracciare sul monitor si spostò verso l’alto, ancora in alto, incrociò la linea costiera chiazzata di nubi, mostrò mare blu, poi bianco…
«Calotta polare» riferì Mahnmut. «Ecco il lembo superiore.»
«Bene» disse Orphu. Tutti i propulsori pulsarono. «Ora vedi il polo nella telecamera di poppa?»
«No.»
«Qualche stella nota?»
«No. Solo altra ionizzazione dello scafo.»
«Abbastanza vicino per manovrare» disse il moravec di Io. «Ora uso l’anello di propulsori di prua come razzi di frenata.»
«Koros III avrebbe usato i grossi jet di prua per rallentarci nella discesa, poi li avrebbe espulsi prima di entrare nell’atmosfera» disse Mahnmut. La prua mandava ora un bagliore rosso più scuro.
«Tengo accesi i propulsori più pesanti, entrando nell’atmosfera.»
«Perché?»
«Vedrai.»
«Non è possibile che i propulsori esplodano per il calore durante il rientro?»
«È possibile.»
«Siamo abbastanza rovinati» disse Mahnmut. «C’è il rischio che ci spezziamo, mentre ’sti affari bruciano staccandosi dallo scafo?»
«Certo, il rischio c’è» confermò Orphu. Accese i pesanti propulsori a ioni.
Mahnmut fu premuto nella cuccetta antiaccelerazione per trenta secondi e poi rilasciato, mentre rumore e vibrazioni cessavano. Sentì il forte colpo, quando l’anello di controllo dell’assetto fu espulso nello spazio.
Una palla di fuoco passò davanti alla telecamera di prua, anche se quella mostrava ora la vista alle loro spalle, mentre entravano di poppa nell’atmosfera. «Siamo decisamente nell’atmosfera» disse Mahnmut, notando che la sua voce non era calma come prima. Non era mai stato in una vera atmosfera planetaria e l’idea di tutte quelle molecole a stretto contatto aggiungeva disgusto alla nausea. «Il gruppo di propulsori espulso è passato al calor bianco ed è appena esploso in fiamme. La poppa comincia a surriscaldarsi. Anche il gruppo propulsore principale di prua, ma un po’ meno. La maggior parte del calore e dell’onda d’urto sembrano trovarsi intorno al nostro culo. Uau! Ci lasciamo indietro una parte del campo di detriti, ma davanti a noi brucia tutto. È come se ci trovassimo in una gigantesca tempesta di meteoriti.»
«Bene» disse Orphu. «Tieniti forte.»
Quella che era stata la nave spaziale moravec colpì la densa atmosfera marziana proprio come Mahnmut aveva descritto a Orphu: una tempesta di meteore i cui pezzi più grossi pesavano varie tonnellate e avevano un diametro di decine di metri. Un centinaio di palle di fuoco descrisse archi nel cielo azzurro chiaro di Marte e un tamburellare di cupi bang sonici ruppe il silenzio dell’emisfero nord. Le palle di fuoco attraversarono la calotta polare settentrionale come uccelli ardenti e continuarono a sud sul mare Tethys, lasciando al passaggio lunghe scie di vapori di plasma. Davano la bizzarra impressione di volare, non di precipitare.
Solo alcuni millenni prima, Marte vantava una trascurabile atmosfera in gran parte di anidride carbonica, pari a 8 millibar, a confronto dei 1014 millibar terrestri di pressione al livello del mare. In meno di un secolo, tramite un procedimento incomprensibile ai moravec, il pianeta era stato terraformato e aveva 840 millibar d’aria respirabile.
Le palle di fuoco striarono il cielo a nord, in una sorta di formazione alla buona, lasciandosi in scia impronte di bang sonico. Alcuni pezzi più piccoli (abbastanza grandi da sopravvivere all’ardente ingresso nell’atmosfera, ma tanto piccoli da essere deviati dall’aria densa) cominciarono a cadere in mare, sollevando schizzi, a circa ottocento chilometri a sud del polo. Chi avesse guardato dallo spazio, avrebbe avuto l’impressione che un dio scagliasse nell’oceano settentrionale marziano una raffica di enormi proiettili di mitragliatrice… salve di traccianti.
Uno di quei traccianti era il Dark Lady. Il materiale di rivestimento antiradar intorno alla poppa e a due terzi dello scafo si staccò in fiamme e si unì alla scia di plasma grondante dietro il sommergibile che precipitava. Antenne e sensori esterni bruciarono. Poi lo scafo cominciò ad annerirsi e scheggiarsi e sfaldarsi.
«Ah…» disse Mahnmut, dalla cuccetta antiaccelerazione «non sarebbe ora di aprire i paracadute?» Conosceva abbastanza il piano di Koros per sapere che i paracadute in fibra di buckycarbonio si sarebbero dovuti aprire intorno ai quindicimila metri, per una discesa morbida nell’oceano. L’ultima occhiata alla distesa d’acqua, prima che i sistemi ottici di prua bruciassero, l’aveva convinto che erano molto più in basso di quindicimila metri e che scendevano ad altissima velocità.
«Non ancora» borbottò Orphu. Il moravec di Io non aveva cuccetta anti-g nella stiva e pareva impegnato a resistere alla forza di gravità della decelerazione. «Usa il radar per calcolare la nostra quota.»
«Il radar è andato» disse Mahnmut.
«Il sonar funziona?»
«Ora provo.» A sorpresa, il sonar funzionava e mostrò un ritorno di solida… be’, liquida… superficie acquea a distanza di 8200 metri, 8000 metri, 7800 metri. Mahnmut girò i dati a Orphu. «Apriamo i paracadute?»
«Gli altri detriti non hanno paracadute.»
«E allora?»
«Vuoi davvero scendere appeso a un ombrellone che ci mostri a tutti i sensori?»
«Sensori di chi?» replicò, brusco, Mahnmut, ma capì a che cosa Orphu si riferiva. Tuttavia… «Cinquemila metri» disse. «Velocità tremiladuecento chilometri all’ora. Vuoi davvero colpire l’acqua a questa velocità?»
«Non direi. Anche sopravvivendo all’impatto, ci troveremmo sepolti sotto centinaia di metri di sedimenti. Non avevi detto che l’oceano settentrionale è profondo solo qualche centinaio di metri?»
«Sì.»
«Adesso giro il tuo sommergibile.»
«Cosa?» scattò Mahnmut, ma poi udì l’accensione del pesante gruppo di propulsori, solo qualche razzo, e i giroscopi ronzarono, anche se il rumore era più un macinio che un ronzio.
Il Dark Lady cominciò un doloroso capitombolo, portando avanti la prua. Vento e attrito tormentarono lo scafo, strapparono gli ultimi sensori a mezza nave, squarciarono una decina di compartimenti. Mahnmut spense gli allarmi.
Adesso che erano a prua in avanti, una delle ultime telecamere ancora in funzione mostrò spruzzi nell’oceano, se "spruzzi" si possono chiamare i pennacchi d’impatto di vapore e plasma da duemila metri di altezza. Mahnmut immaginò che sarebbe stato il loro turno nel giro di pochi secondi. Descrisse a Orphu gli impatti e soggiunse: «Paracadute? Per favore?».
«No» disse Orphu e accese i propulsori principali che avrebbe dovuto sganciare in orbita.
La forza di decelerazione scagliò Mahnmut in avanti contro le cinghie e lo indusse a rimpiangere il gel antiaccelerazione che avevano usato nella manovra a fionda nel tubo di flusso di Io. Altre colonne di vapore si alzarono intorno al sommergibile in caduta, come colonne corinzie che passassero a grande velocità, e l’oceano riempì i monitor. I propulsori rombarono, ruotarono e rallentarono la velocità del sommergibile. Non appena si spensero, il gruppo anulare si sganciò e volò via. Mahnmut calcolò che erano a soli mille metri sull’oceano e la distesa d’acqua gli parve solida come quella di ghiaccio su Europa.
«Para…» cominciò Mahnmut, gemendo ora apertamente, senza vergogna.
I due enormi paracadute si schiusero. La visione di Mahnmut divenne rossa, poi nera.
Colpirono il mare Tethys.
«Orphu? Orphu?» Mahnmut, nel buio e nel silenzio, cercò di riportare in linea l’alimentazione dati. La nicchia ambientale era intatta, l’O2 affluiva ancora. Sorprendente. Secondo il suo orologio interno, dal momento dell’impatto erano trascorsi tre minuti. La velocità era zero. «Orphu?»
«Arugghh» fu la risposta che gli giunse via cavo. «Ogni volta che mi addormento, tu mi svegli.»
«Come stai?»
«Dove sto, sarebbe la domanda giusta» rombò Orphu. «Mi sono staccato dalla nicchia. Non sono neppure sicuro di trovarmi ancora sul Dark Lady. Se ci sono, lo scafo si è squarciato. Sono a mollo. Acqua salata. Aspetta, forse me la sono solo fatta addosso.»
«Sei sempre collegato via cavo» disse Mahnmut, trascurando l’ultimo commento. «Probabilmente sei ancora nella stiva. Ricevo qualche dato dal sonar. Siamo nella fanghiglia del fondo, ma sotto uno strato di un metro appena, a circa ottanta metri dalla superficie.»
«Mi domando in quanti pezzi sono» disse Orphu.
«Sta’ lì» disse Mahnmut. «Ora mi stacco e vengo giù a prenderti. Non ti muovere.»
Orphu rise. «Come faccio a muovermi, amico mio? Tutti i miei manipolatori e i flagelli se ne sono andati in quel grosso paradiso moravec che c’è nei cieli. Sono un granchio senza chele. E ho anche qualche dubbio sul guscio. Mahnmut… un momento!»
«Cosa c’è?» Si era liberato delle cinghie e si stava togliendo tubicini e cavi di controllo virtuale.
«Se, in qualche modo, arrivi qui da me, ammesso che il corridoio interno non sia spiaccicato e che il portello dello scafo non sia deformato o saldato dal calore, cosa farai, con me?»
«Controllerò se sei a posto» disse Mahnmut, staccandosi i cavi ottici. Tanto, i monitor erano tutti bui.
«Ragiona, mio vecchio amico! Mi porti fuori di qui, se non ti cado a pezzi fra le mani, e poi? Nei corridoi interni non ci passo. Anche se mi trascini all’esterno del sommergibile e fai il giro, nella nicchia ambientale non ci sto e di sicuro non posso aggrapparmi allo scafo. Vuoi fare a piedi mille chilometri sul fondo dell’oceano e portare anche me?»
Mahnmut esitò.
«Funziono ancora» continuò Orphu. «O almeno comunico ancora. Ho anche O2 che scorre nei tubicini e mi giunge una certa quantità di energia elettrica. Mi trovo di sicuro nella stiva, anche se è allagata. Perché non metti in funzione il Dark Lady e ci porti in un posto più comodo prima di tentare la riunione?»
Mahnmut passò all’aria esterna e trasse diverse boccate profonde. «Hai ragione» rispose infine. «Vediamo cosa posso fare.»
Il Dark Lady era moribondo.
Mahnmut aveva lavorato nel sommergibile, nelle sue varie iterazioni ed evoluzioni, per più di un secolo terrestre e sapeva che era un mezzo resistente. Adeguatamente preparato, poteva sopportare una pressione di molte tonnellate per centimetro quadrato e con facilità le tensioni dell’accelerazione di tremila g del tubo di flusso, ma la resistenza del piccolo sommergibile era pari a quella della sua parte più debole e le sollecitazioni subite durante l’ingresso nell’orbita di Marte erano state eccessive per le parti più deboli.
Lo scafo aveva fratture da stress e bruciature irreparabili. Al momento il sommergibile era conficcato di prua in più di tre metri di fanghiglia e di fondo marino più solido, con solo alcuni metri liberi dal fango; scafo e intelaiatura erano deformati, il portello della stiva era bloccato e irraggiungibile, dieci delle diciotto casse di zavorra erano squarciate. La passerella interna fra la sala di comando e la stiva era allagata e in parte crollata. Fuori, due terzi del materiale antiradar erano bruciati, portando con sé tutti i sensori esterni. Tre dei quattro sonar a schiera non funzionavano e il quarto poteva inviare impulsi solo in avanti. Dei quattro jet propulsori principali, uno soltanto funzionava e i generatori d’impulsi di manovra erano tutti rovinati.
Mahnmut era più preoccupato per i danni ai sistemi energetici del sottomarino: il reattore primario era stato danneggiato durante l’ingresso in orbita e funzionava all’otto per cento di efficienza; le celle di magazzinaggio erano in riserva. Ciò bastava per mantenere un minimo di supporto vita, ma il convertitore di sostanze nutritive era completamente andato e restava acqua potabile solo per alcuni giorni.
Infine, il convertitore di O2 era fuori uso. Le celle di carburante non producevano aria. Molto prima di restare senza cibo e senza acqua, Mahnmut e Orphu sarebbero rimasti senza ossigeno. Mahnmut aveva riserve interne d’aria, ma solo per un paio di giorni terrestri, se non le rinnovava. Poteva solo sperare che Orphu, avendo lavorato di continuo per mesi nel vuoto spaziale, ora non subisse danni per una piccolezza come la mancanza di ossigeno. L’avrebbe chiesto al moravec, più tardi.
Altri rapporti di danni giunsero dai sistemi di IA superstiti. Restando un mese terrestre o più in un cantiere di Conamara Chaos, con una ventina di moravec di manutenzione al lavoro, forse il Dark Lady si sarebbe salvato. Altrimenti i suoi giorni, che si misurassero in sol marziani o giorni terrestri o settimane di Europa, erano contati.
Mahnmut si tenne in contatto via cavo con Orphu (silenzioso per la maggior parte del tempo) per paura che il suo amico svanisse dall’esistenza senza avvertirlo, gli trasmise il rapporto più. positivo possibile e lanciò un gavitello periscopio dalla sezione della poppa rimasta sopra la fanghiglia. Funzionava ancora.
Il gavitello era più piccolo della mano di Mahnmut, ma comprendeva un’ampia schiera di sensori video e dati. Informazioni cominciarono ad affluire.
«Buone notizie» disse Mahnmut.
«Il Consorzio delle Cinque Lune ha mandato una missione di soccorso?» rise Orphu.
«Non così buone.» Anziché scaricare i dati non visivi, Mahnmut li riassunse per trattenere in ascolto il suo amico e per parlare con lui. «Il gavitello funziona. Meglio ancora, i satelliti di comunicazione e di orientamento seminati in orbita da Koros III e Ri Po sono ancora lassù. Mi chiedo come mai le… persone… che ci hanno attaccato non li abbiano spazzati via.»
«Siamo stati attaccati da un dio dell’Antico Testamento e dalla sua amichetta» disse Orphu. «Forse non si degnano di notare i satelliti di comunicazione.»
«Secondo me pareva più un dio dell’antica Grecia che non dell’Antico Testamento. Vuoi ascoltare i dati che ricevo?»
«Certo.»
«Ci troviamo nel tratto meridionale della regione Chryse Planitia dell’oceano settentrionale, a soli trecentoquaranta chilometri circa dalla costa di Xanthe Terra. Siamo fortunati. Questa parte del mare che bagna le regioni di Acidalia e Chryse è come una grande baia. Se la nostra traiettoria fosse stata spostata a ovest di qualche centinaio di chilometri, saremmo andati a sbattere contro le montagne di Tempe Terra. Stessa distanza a est, Arabia Terra. Altri pochi secondi di volo verso sud, sugli altopiani di Xanthe Terra…»
«Saremmo stati particelle nell’alta atmosfera» disse Orphu.
«Giusto» convenne Mahnmut. «Ma se riusciamo a disincagliare il Dark Lady, possiamo portarlo dritto nella Valles Marineris.»
«In teoria tu e Koros dovevate scendere nell’altro emisfero» disse Orphu. «A nord di Olympus Mons. Dovevate fare una ricognizione e portare su Olympus il congegno che abbiamo nella stiva. Non dirmi che il sommergibile è in condizioni tanto buone da portarci alla penisola di Tempe Terra…»
«No» ammise Mahnmut. A dire il vero, sarebbe stato un sorprendente colpo di fortuna se il Dark Lady fosse rimasto tutto intero e avesse continuato a funzionare quanto bastava a portarli alla terraferma più vicina, ma non aveva intenzione di dirlo all’amico.
«Altre buone notizie?»
«Be’, in superficie è una bellissima giornata. Tutta acqua liquida, fin dove il periscopio riesce a vedere. Onde moderate di meno di un metro. Cielo azzurro. Temperatura sui venti gradi…»
«Ci cercano?»
«Prego?»
«La… gente… che ci ha ridotto in scorie. Ci cerca?»
«Sì» rispose Mahnmut. «Il radar passivo ha mostrato parecchie di quelle macchine volanti…»
«Cocchi.»
«… parecchie di quelle macchine volanti incrociare sul mare nelle migliaia di chilometri quadrati della zona d’impatto dei detriti.»
«Alla nostra ricerca» disse Orphu.
«Nessuna rilevazione di ricerche radar o a neutrini. Anzi, nessuna ricerca sugli spettri d’energia…»
«Mahnmut, possono trovarci?» Il tono di Orphu era incerto.
Mahnmut esitò: non voleva mentire all’amico. «Può darsi» disse. «Di sicuro, se usassero tecnologia moravec. Ma a quanto pare non la usano. Si limitano a… cercare. Forse solo con occhi e magnetometri.»
«Ci hanno trovato facilmente in orbita. Ci hanno preso a bersaglio.»
«Sì.» Non c’era dubbio che il cocchio o i suoi occupanti avessero chissà quale congegno di rilevamento che aveva funzionato bene a ottomila chilometri di distanza.
«Ritiri il gavitello?»
«Sì» rispose Mahnmut. Seguirono vari secondi di silenzio, a parte gli scricchiolii dello scafo danneggiato, il sibilo dei ventilatori e il tonfo e il ronzio di varie pompe impegnate nel vano tentativo di prosciugare le sezioni allagate. «Abbiamo varie cose a nostro favore» disse infine Mahnmut. «Primo, in questa zona di ricaduta ci sono tonnellate e tonnellate di detriti metallici della nave spaziale e la zona stessa è estesa. I primi impatti non sono avvenuti molto più a sud della calotta polare. Secondo, siamo atterrati di prua e l’unica sezione del sommergibile sopra la linea di sedimenti, la poppa, ha ancora alcuni brandelli del rivestimento antiradar. Terzo, siamo talmente a corto di energia da non lasciare quasi traccia. Quarto…»
«Sì?» lo sollecitò Orphu.
Mahnmut pensava all’energia quasi esaurita, alle sempre più scarse riserve d’acqua e d’aria, al dubbio funzionamento del sistema di propulsione. «Quarto… ancora non sanno perché siamo qui.»
Orphu ridacchiò piano. «Non lo sappiamo nemmeno noi, amico mio.» Seguì un minuto di silenzio, poi Orphu riprese: «Be’, hai ragione. Se non ci trovano nelle prossime ore, forse abbiamo una possibilità. O hai altre brutte notizie?».
Mahnmut esitò. «Un piccolo problema con la riserva d’aria» si decise a dire.
«Problema grave?»
«Non ne produciamo.»
«Be’, è un vero guaio. Quanta ce ne resta?»
«Ottanta ore circa. Per due. Il doppio, forse di più, se ci fossi solo io.»
Orphu ridacchiò. «Solo tu? Mediti di mettere il piede sul mio tubo dell’aria? Anch’io ho parti organiche che necessitano di ossigeno, sai.»
Per un secondo Mahnmut rimase senza parole. «Pensavo… tu sei un moravec per il vuoto spaziale… voglio dire…»
«Pensi che passo mesi nello spazio senza dipendere da Io» sospirò Orphu. «Produco l’ossigeno necessario mediante le celle di carburante interne, usando elementi fotovoltaici nel guscio per fornirle di energia.»
Mahnmut sentì rallentare i battiti del cuore. Le probabilità di sopravvivenza aumentavano, se Orphu non aveva bisogno dell’aria nel sommergibile.
«Ma… anche gli elementi fotovoltaici sono saltati» disse piano Orphu. «Dopo l’attacco, le celle non producono più O2. Vivo grazie alla fornitura della nave. Mi spiace, Mahnmut.»
«Senti» disse Mahnmut, in fretta, con forza «progettavo di mantenere comunque il flusso d’aria per tutt’e due. Non è un problema. Ho fatto i conti, abbiamo circa ottanta ore all’attuale ritmo di consumo. Che posso ridurre. La sala comando e la nicchia ambientale sono allagate. Immetterò di nuovo l’ossigeno e lo dividerò in parti uguali. Ottanta ore comode e poi risaliamo per l’aria. A quel punto le ricerche saranno terminate.»
«Sei sicuro di poter disincagliare dal fango il Dark Lady?» chiese Orphu.
«Sicurissimo» mentì Mahnmut, con voce ferma.
«Voto per starcene tranquilli sul fondo marino per… diciamo… tre sol, tre giorni marziani, circa settantatré ore, così vediamo se i cocchi sospendono le ricerche. Oppure dodici ore dall’ultimo contatto radar. Quel che viene prima. Avremo tempo sufficiente per uscire dal fango e tornare in superficie, oltre a una certa provvista di ossigeno e di energia?»
Mahnmut guardò la parete virtuale lampeggiante di segnali d’allarme e di spie che indicavano il non funzionamento di varie apparecchiature. «Settantatré ore dovrebbero essere più che sufficienti» disse. «Però se quelli se ne vanno prima, torniamo in superficie e puntiamo alla costa. Il Lady può fare circa venti nodi in superficie, col reattore a questo livello, perciò ci vorrà quasi un giorno e mezzo per toccare terra, soprattutto se siamo schizzinosi sul punto di sbarco.»
«Ci basterà evitare d’essere schizzinosi» disse Orphu. «D’accordo, pare che l’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci per il prossimo paio di giorni sia la noia. Giochiamo a poker? Hai portato le carte virtuali?»
«Sì» disse Mahnmut, ravvivandosi.
«Non trufferesti un moravec cieco, vero?»
Mahnmut bloccò il procedimento per scaricare il tavolo da gioco di panno verde.
«Scherzavo, per l’amor del cielo!» disse Orphu. «I miei nodi visivi sono andati, ma ho ancora la memoria e parti del cervello. Giochiamo a scacchi.»
Tre sol corrispondevano a 73,8 ore e Mahnmut non voleva stare così a lungo impantanato nel fondo marino. Il reattore perdeva potenza più rapidamente di quanto non avesse stimato (le pompe consumavano più energia del previsto) e tutto il sistema di supporto vita flirtava col fallimento.
Durante il loro primo periodo di sonno, Mahnmut passò in autonomia, prese palanchini e arnesi da taglio e scese gli stretti condotti fino alla stiva. Gli interni erano allagati, il condotto verticale era privo di corrente e nero come la pece. Mahnmut accese i fari incorporati nelle spalle e nuotò più in basso. L’acqua era molto più calda rispetto al mare di Europa. Travi e strutture longitudinali accartocciate bloccavano gli ultimi dieci metri. Mahnmut li tagliò con la fiamma ossidrica. Doveva controllare le condizioni di Orphu.
A due metri dalla camera d’equilibrio della stiva Mahnmut si bloccò. L’impatto aveva deformato la paratia di poppa, quasi spiaccicata contro quella di prua. Il già stretto corridoio era compresso, ridotto a uno spazio di neanche dieci centimetri. Mahnmut vedeva il portello della stiva, chiuso e bloccato e deformato, ma non poteva raggiungerlo. Avrebbe dovuto aprirsi la strada tagliando una o tutt’e due le spesse paratie e probabilmente adoperare la fiamma ossidrica anche sul portello. Un lavoro di sei o sette ore, con un guaio fondamentale: la fiamma ossidrica consumava ossigeno, proprio come Orphu e lui. Ogni volta che l’adoperava, riduceva la loro riserva d’aria.
Per vari minuti Mahnmut galleggiò a testa in giù nel buio, con la fanghiglia che gli fluttuava davanti alle lenti nei raggi gemelli dei fari sulle spalle. Doveva decidere ora! Quando Orphu si fosse svegliato e avesse capito le sue intenzioni, avrebbe cercato di convincerlo a soprassedere. E la logica imponeva che lui, Mahnmut, si lasciasse convincere. Anche se fosse riuscito ad attraversare le paratie, in sei o sette ore, Orphu non si era sbagliato: non sarebbe riuscito a spostare l’enorme moravec mentre erano incastrati nel fondo marino. Anche l’eventuale opera di soccorso al moravec sarebbe stata limitata ai kit e agli input di sistema che Mahnmut teneva a bordo per sé e che forse non avrebbero neppure funzionato sul robusto moravec da vuoto spaziale. Se avesse potuto davvero disincagliare il Dark Lady dalla fanghiglia e raggiungere la superficie… ecco, quello sarebbe stato il momento migliore per andare da Orphu, anche a costo di praticare un foro nel portello della stiva o nello scafo esterno. Di O2 ce ne sarebbe stato in abbondanza e lui avrebbe potuto spostare Orphu, se necessario, e trovare un modo per legarlo allo scafo superiore, alla luce del sole e nell’aria.
Risalì a nuoto il corridoio inclinato e deformato, attraversò la camera d’equilibrio e rientrò nella sua cabina. Ripose l’attrezzatura da taglio. "Più tardi" si ripromise.
Si era appena risistemato nella cuccetta antiaccelerazione, quando sentì dall’intercom la voce di Orphu. «Sei sveglio, Mahnmut?»
«Sì.»
«Dove sei?»
«Ai comandi. Dove dovrei essere?»
«Sì» disse Orphu, con tono stanco e vecchio. «Sognavo. Ho creduto di sentire una vibrazione. Ho pensato che forse eri… non so.»
«Torna a dormire» disse Mahnmut. I moravec dormivano, se non altro per sognare. «Ti sveglierò per il controllo periscopico, fra due ore.»
Mahnmut lanciava il gavitello periscopico per qualche secondo ogni dodici ore, esaminava rapidamente il cielo e il mare, poi lo ritirava subito. Al termine delle prime quarantanove ore c’erano ancora macchine volanti che intersecavano di continuo il cielo, ma verso nord, più vicino al polo.
Mahnmut era abbastanza comodo. La sala comando e l’adiacente nicchia ambientale non erano state danneggiate, erano calde e inclinate solo leggermente verso la prua conficcata nel fango. Il moravec si poteva muovere a piacere. Parecchi altri locali abitabili erano stati allagati, compreso il laboratorio e l’ex cubicolo di Urtzweil; le pompe li avevano svuotati, ma Mahnmut non si era preso la briga di riempirli d’aria. In realtà, dopo la conversazione iniziale, per prima cosa si era agganciato al tubo dell’O2 e aveva svuotato la nicchia ambientale e la sala comando. Aveva detto a se stesso che bisognava risparmiare ossigeno, ma sapeva che una parte del motivo era che si sentiva in colpa, nel suo comodo cantuccio, mentre Orphu era in pena (pena esistenziale, quanto meno) nel buio della stiva allagata. Mahnmut non poteva farci niente, per ora, con tre quarti del sommergibile conficcati nel fondo dell’oceano, ma andò nel laboratorio privo d’aria e rabberciò unità di trasmissione e altre cose di cui avrebbe avuto bisogno se mai fosse riuscito a liberare il moravec di Io.
"E me stesso" pensò, anche se separarsi dal Dark Lady non gli pareva libertà. I criorobot che lavoravano in profondità nel mare di Europa avevano sempre avuto in sé il nocciolo dell’agorafobia, un vero terrore degli spazi aperti, e i moravec, che da essi si erano evoluti, l’avevano ereditato. Il secondo giorno, dopo l’ottava partita a scacchi, Orphu disse: «Il Dark Lady ha una sorta di congegno di salvataggio, no?».
Mahnmut si era augurato che Orphu non fosse a conoscenza di quel particolare. «Già» ammise con riluttanza. «Di che tipo?»
«Una piccola bolla di salvataggio» rispose Mahnmut, di cattivo umore perché doveva parlarne. «Poco più grande di me. Fatta soprattutto per tenermi in vita a grande profondità e per riportarmi in superficie.»
«Ha un radiofaro, un supporto vita, qualche sistema propulsivo e di navigazione? Una provvista di acqua e di cibo?»
«Sì, e allora?» disse Mahnmut. E pensò: "Tu lì dentro non ci stai e con quella non potrei rimorchiarti".
«Niente» rispose Orphu.
«Odio l’idea di lasciare il Dark Lady» disse Mahnmut, sincero. «E non devo pensarci, adesso. Né per giorni e giorni.»
«Va bene» disse Orphu.
«Parlo sul serio.»
«Va bene, va bene, Mahnmut. Ero solo curioso.»
Se Orphu in quel momento avesse riso, divertito, Mahnmut sarebbe strisciato nella bolla di salvataggio e se ne sarebbe andato. Era furioso col moravec perché aveva sollevato quell’argomento. «Vuoi fare un’altra partita?»
«Non in questa vita» disse Orphu.
Sessantuno ore dopo l’ammaraggio, un solo cocchio compariva sul radar, ma girava in tondo proprio in quella zona, otto chilometri sopra di loro e dieci più a nord. Mahnmut ritirò con la massima rapidità il gavitello periscopico.
Si mise ad ascoltare musica sull’intercom (Brahms) e Orphu, giù nella stiva allagata, probabilmente faceva la stessa cosa.
All’improvviso il moravec di Io disse: «Mahnmut, ti sei mai chiesto perché tutt’e due siamo umanisti?».
«Che vuoi dire?»
«Lo sai, studiosi dei classici. Tutti i moravec si sono evoluti o in umanisti come noi, con il nostro bizzarro interesse per la vecchia razza umana, o in tipi più interattivi come Koros III. Sono quelli che forgiano le società moravec, il Consorzio delle Cinque Lune, i partiti politici… ogni cosa.»
«Non me ne sono mai accorto» disse Mahnmut.
«Mi prendi in giro.»
Mahnmut rimase in silenzio. Cominciava a capire che in quasi un secolo e mezzo d’esistenza era riuscito a restare all’oscuro di quasi tutto ciò che aveva importanza. Conosceva solo i freddi mari di Europa, che non avrebbe più rivisto, e il suo sommergibile, che fra poco, ore o giorni, avrebbe cessato di esistere come entità funzionante. Questo e i sonetti e le opere teatrali di Shakespeare.
Riuscì a stento a non mettersi a ridere. "Cosa potrebbe esserci di più inutile?" pensò.
Come se gli leggesse nella mente, Orphu continuò: «Cosa direbbe il Bardo di questa situazione?».
Mahnmut intanto controllava i consumi. Non potevano aspettare le settantatré ore previste. Dovevano disincagliarsi entro le sei successive. E anche allora, se non riuscivano a liberarsi subito, il reattore poteva bloccarsi del tutto, sovraccaricarsi e…
«Mahnmut?»
«Scusa. Mi ero appisolato. Cosa dicevi del Bardo?»
«Di sicuro ha parlato di naufragi» spiegò Orphu. «Se ben ricordo, ce n’è un mucchio, nelle sue opere.»
«Oh, sì. Un mucchio di naufragi. La dodicesima notte, La tempesta, l’elenco è lungo. Ma non credo che ci sia qualcosa che possa aiutarci.»
«Parlami di quei naufragi.»
Mahnmut scosse la testa. Sapeva che Orphu cercava solo di distrarlo. «Parlami del tuo amato Proust» disse. «Il Marcel narrante dice qualcosa sullo sperdersi su Marte?»
«Be’, in realtà, sì» rispose Orphu, con una lievissima traccia di risata.
«Scherzi.»
«Non scherzo mai sulla Ricerca» replicò Orphu, in un tono che quasi convinse Mahnmut (non del tutto, però) che il moravec fosse serio.
«D’accordo, sentiamo allora cosa dice Proust sulla sopravvivenza su Marte» replicò Mahnmut. Fra cinque minuti avrebbe alzato di nuovo il periscopio e sarebbe salito comunque in superficie anche se il cocchio si fosse librato dieci metri sulla sua testa.
«Nel terzo volume dell’edizione francese, il quinto nella traduzione inglese che ho scaricato per te, Marcel dice che, se all’improvviso ci trovassimo su Marte e ci facessimo crescere un paio d’ali e un nuovo apparato respiratorio, non ci distrarremmo. Continueremmo a usare i nostri sensi e questi rivestirebbero dello stesso aspetto delle cose della Terra tutto quello che potremmo vedere.»
«Scherzi» disse Mahnmut.
«Non scherzo mai sulle percezioni del personaggio Marcel nella Ricerca» ripeté Orphu, in un tono che disse a Mahnmut che gli piaceva scherzare, d’accordo, ma non su quel particolare bizzarro riferimento a Marte. «Non hai letto le edizioni che ti ho mandato all’inizio del viaggio all’interno del sistema solare?»
«Le ho lette» rispose Mahnmut. «Davvero. Solo ho, come dire, saltato l’ultimo paio di migliaia di pagine.»
«Be’, non è insolito. Senti, c’è un brano che viene dopo la crescita di ali e di nuovi polmoni su Marte. Lo vuoi in francese o in inglese?»
«Inglese» rispose subito Mahnmut. Prossimo a un’orribile morte per asfissia, preferiva fare a meno dell’ulteriore tortura di un brano letto in francese.
«"L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza"» recitò Orphu «"sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è."»
Per un minuto Mahnmut dimenticò davvero la prospettiva di morire asfissiato, mentre rifletteva sul brano. «Questa è la quarta e ultima risposta di Marcel all’enigma della vita, vero, Orphu?»
Il moravec di Io rimase in silenzio.
«Cioè» continuò Mahnmut «tu hai detto che per Marcel le prime tre fallirono. Lui provò a credere nello snobismo. Provò a credere nell’amicizia e nell’amore. Provò a credere nell’arte. Nessuna funzionò come tema trascendente. Perciò questa è la quarta. Questa…» Non riuscì a trovare le parole giuste.
«Coscienza che sfugge ai limiti della coscienza» disse piano Orphu. «Immaginazione che vince i legami dell’immaginazione.»
«Sì» alitò Mahnmut. «Vedo.»
«Devi» disse Orphu. «Ora sei i miei occhi. Devo vedere l’universo attraverso i tuoi occhi.»
Mahnmut rimase per un minuto in silenzio nel sibilo del tubicino di O2. Poi disse: «Cerchiamo di portare su il Dark Lady».
«Gavitello periscopico?»
«Al diavolo anche loro, se sono là ad aspettarci. Preferisco morire combattendo che soffocare quaggiù nel fango.»
«D’accordo» convenne Orphu. «Hai detto "cerchiamo" di portare su il Dark Lady. Hai qualche dubbio di riuscire a tirarci fuori dal fango?»
«Non ho un cazzo d’idea se sarà possibile liberarci da questa merda» rispose Mahnmut; azionò con la mente interruttori virtuali, diede energia al reattore fino a surriscaldarlo, armò i propulsori. «Ma ce la metteremo tutta, nel tentativo, fra… diciotto secondi. Tieniti forte, amico mio.»
«Poiché non ho più rampini, manipolatori e flagelli, immagino che sia un’esortazione retorica.»
«Usa i denti!» replicò Mahnmut. «Sei secondi.»
«Sono un moravec» replicò Orphu, in tono leggermente indignato. «Non ho denti. Cosa pensavi che…»
All’improvviso la linea intercom fu soffocata dall’accensione di tutti i propulsori, dal rimbombo di paratie che si crepavano e cedevano e da un grande gemito, mentre il Dark Lady lottava per staccarsi dalla fangosa presa di Marte.