30 ACCAMPAMENTO DEGLI ACHEI — COSTA DI ILIO

Finora questa serata va proprio come racconta Omero.

I troiani hanno approntato centinaia di falò di guardia appena al di qua del fossato acheo, ultima linea di difesa greca quaggiù sulla spiaggia; ma gli achei, pur battuti sonoramente per tutta la giornata e la sera, fino a notte, nella confusione hanno rinunciato perfino ai fuochi di cottura. Mi sono morfizzato nel vecchio Fenice e mi sono trattenuto vicino alla tenda di Agamennone, dove il piangente (piangente! Il re dei re greci piange!) figlio di Atreo incita i suoi condottieri a radunare i propri uomini e fuggire.

Ho già visto Agamennone usare questa strategia, fingere di voler fuggire per rianimare i suoi uomini alla sfida, ma stavolta, è chiaro, il vecchio re fa sul serio. Agamennone, scarmigliato, corazza sporca di sangue, guance infangate e segnate da rivoli di lacrime, vuole che i suoi uomini fuggano per salvarsi la vita.

È Diomede a sfidare Agamennone, gli dà praticamente del codardo e promette che, se tutti gli altri fuggono, "combatteremo noi due, io e Stenelo, sino al giorno in cui vedremo la conclusione già decisa per Ilio". Gli altri achei lanciano grida a favore di quella spacconata e poi il vecchio Nestore, facendo pesare i propri anni, interviene e suggerisce che tutti si diano una calmata, mangino qualcosa, pongano sentinelle, mandino uomini a sorvegliare il fossato e i bastioni e discutano la proposta, prima di correre alle navi, al mare e a casa.

Ed è ciò che fanno, proprio come Omero ha descritto.

Poi i sette capi delle guardie, guidati dal non più giovane figlio di Nestore, Trasimede, prendono con sé cento guerrieri ciascuno per presidiare nuove postazioni difensive tra fossato e bastione e accendono i fuochi per la cena. La manciata di fuochi greci (ai quali presto si unisce il falò del banchetto di Agamennone) sembrano ben poca cosa a confronto dei fuochi di guardia troiani, dall’altra parte del fossato, le cui faville volano verso le sempre più basse nubi di tempesta.

Qui al banchetto del consiglio di Agamennone, al quale partecipano tutti i principi e condottieri achei, la discussione continua proprio come Omero l’ha riportata. Nestore prende per primo la parola, loda il coraggio e la sagacia di Agamennone, ma gli dice in pratica che rubando ad Achille la schiava Briseide si è proprio fottuto da solo.

«O vecchio, hai esposto con schiettezza il mio errore» ammette onestamente Agamennone. «Ero impazzito. Impazzito e anche cieco, per offendere così Achille.»

Il grande re esita, ma nessuno, fra le decine di condottieri seduti intorno al fuoco centrale, si alza a contraddirlo.

«Mi sono lasciato accecare» riprende Agamennone «e non lo nego. Zeus ama quel giovane guerriero e perciò Achille vale un intero battaglione, no, un intero esercito!»

Nessuno discute il punto.

«E poiché sono stato reso cieco e folle dalla mia stessa ira, farò subito ammenda e pagherò un riscatto da re per riportare Achille nelle file degli achei.»

A questo punto i condottieri riuniti, Odisseo compreso, con la bocca piena di carne di bue e di pollo, borbottano parole d’assenso.

«Qui, davanti a voi tutti riuniti, elencherò gli splendidi doni per comprare l’amore del giovane Achille» grida Agamennone. «Sette tripodi non toccati dal fuoco, dieci talenti d’oro, venti lustri bacili di rame e dodici cavalli solidi e robusti, che già gareggiarono e riportarono per me premi nella corsa…»

E bla, bla, bla. Proprio come Omero scrisse. Proprio come ho detto prima. E, come ho detto prima, Agamennone promette solennemente di restituire Briseide, da lui mai toccata, nonché altre venti donne troiane (quando e se Ilio cadrà, ovviamente), e in più, come una sorta di pièce de résistance, una delle sue tre figlie a scelta, Crisotemi, Laodicea o Ifianassa (da scoliaste inveterato, noto qui l’errore ricorrente in storie precedenti e posteriori, in particolare l’assenza di Elettra e la possibile confusione del nome Ifigenia, ma tutto questo al momento non è importante) e infine, come dessert, aggiunge i "sette borghi popolosi".

E proprio come Omero ha riportato, offre questi doni en lieu delle scuse. «Tutto questo gli offrirò, se porrà fine alla sua ira» grida il figlio di Atreo ai suoi attenti condottieri. Il tuono romba e il fulmine balena, come se Zeus fosse impaziente. «Ma che Achille si sottometta a me! Solo Ade, il dio dei morti, è duro e irriducibile come questo parvenu. Che Achille lasci il posto e si inchini a me! Sono un re più potente di lui e anche più anziano. Sono, sostengo, il più grande!»

Be’, ecco le scuse…

Ora piove, una pioggerella continua striata dai fulmini di Zeus, e grida di ubriachi giungono dalle linee troiane a meno di cento metri, portate dal vento sopra il fossato pieno d’acqua e i bastioni fangosi. Aspetto che avvenga la scelta degli ambasciatori ad Achille, in modo da camminare sulla spiaggia in compagnia di Odisseo e di Aiace e di partecipare con loro all’ambasciata. Questa è la notte più importante della mia vita (be’, della mia seconda vita come scoliaste) e continuo a ripetere fra me e me ciò che dirò ad Achille.

"Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro."

Credo d’averlo trovato. Almeno, d’avere trovato un fulcro. Di sicuro niente sarà più lo stesso, per i greci e gli dèi e i troiani (e per me) se faccio ciò che ho in mente di compiere stanotte. Quando il vecchio Fenice parlerà, durante l’ambasciata, non solo farà terminare l’ira di Achille, ma lo farà unire a Ettore nella rivolta di greci e troiani contro gli dèi stessi.

Nestore a un tratto esclama: «Figlio di Atreo, generoso signore di uomini, Agamennone nostro, nessuno, neppure il nostro principe di uomini, figlio di Peleo, Achille, potrebbe disprezzare simili doni. Su, mandiamo una piccola ambasciata di uomini scelti con cura, che porti stanotte queste offerte e il nostro amore nella tenda di Achille. Via, quelli che designo con un’occhiata, obbediscano pronti!».

Rivestito del corpo del vecchio Fenice, mi sposto ai bordi del cerchio, accanto ad Aiace il Grande, per rendermi più visibile.

«Prima di tutti» continua Nestore «sia Aiace il Grande ad assumersi l’incarico. E il nostro brillante stratega e re, Odisseo, apporti il suo consiglio. Come araldi di scorta all’ambasceria vadano Odio ed Euribate. E ora portate acqua per le mani e ordinate il silenzio! Così invocheremo Zeus alla nostra maniera: che il sommo dio mostri pietà e induca Achille a sorridere alla nostra offerta!»

Rimango sorpreso e attonito, mentre si somministrano le abluzioni e i condottieri chinano la testa il silenziosa preghiera.

Nestore interrompe il silenzio per invitare l’ambasceria a muoversi (un’ambasceria di quattro persone, non di cinque!) e per gridare: «Ora mettetecela tutta! Convincetelo! Inducetelo ad avere pietà di noi, al nostro invincibile, spietato Achille!».

I due ambasciatori e i due araldi lasciano il cerchio di luce del fuoco e si allontanano sulla spiaggia.

"Non sono stato scelto!" penso. "Fenice non è stato scelto! Non è stato nemmeno nominato!" Omero si sbagliava! Gli eventi di questa Ilio si sono appena distaccati dagli eventi dell’Iliade e a un tratto sono cieco agli accadimenti futuri tanto quanto Elena e gli altri attori qui, cieco tanto quanto gli dèi lassù, cieco quanto Omero stesso, maledetti gli occhi che non aveva!

Barcollando sulle mie vecchie gambe rinsecchite (sulle vecchie gambe rinsecchite dell’inutile Fenice) mi faccio strada nel cerchio di capi greci e corro lungo il mare risonante per raggiungere Aiace e Odisseo.


Li raggiungo sulla spiaggia buia, a due terzi di strada dal campo di Achille. Aiace e Odisseo sono soli e parlano sottovoce mentre camminano sulla sabbia bagnata. Quando li raggiungo, si fermano.

«Cosa c’è, Fenice, figlio di Amintore?» chiede Aiace. «Ho visto che eri al banchetto del re e sono rimasto sorpreso, poiché corre voce che negli ultimi mesi tu sia rimasto vicino ai tuoi guaritori mirmidoni. Agamennone ti ha forse mandato a darci qualche ultimo consiglio?»

Ansimando come se avessi davvero gli anni di Fenice, dico: «Salve, nobile Aiace e regale Odisseo… In verità Agamennone mi ha mandato a unirmi a voi nell’ambasceria ad Achille».

Aiace pare perplesso, ma Odisseo è proprio insospettito. «Perché Agamennone avrebbe scelto proprio te per questo incarico, onorato anziano? Come mai ti trovavi nel campo di Agamennone, in questa notte pericolosa, quando al di là del fossato i troiani latrano come cani famelici?»

Non ho risposta per la seconda domanda, perciò cerco di bluffare nel rispondere alla prima. «Nestore ha suggerito che venga con voi per aiutarvi a interessare l’orecchio di Achille e Agamennone l’ha ritenuto un suggerimento saggio.»

«Vieni, allora» dice Aiace il Grande. «Vieni con noi, Fenice.»

«Ma non parlare se non te lo dico io» aggiunge Odisseo, guardandomi ancora con sospetto, come se fossi l’impostore che in realtà sono. «Forse Nestore e Agamennone hanno intuito qualche motivo perché tu venga nella tenda di Achille, ma non c’è ragione perché tu parli.»

«Ma…» comincio. Non so cosa dire. Se non ho il permesso di parlare dopo Odisseo e prima di Aiace, come ha narrato Omero, perdo tutta l’influenza, perdo il fulcro, fallisco. Se non parlo, gli eventi di questa notte divergeranno dall’Iliade. Mi rendo conto però che sono già diversi. Nestore avrebbe dovuto scegliere Fenice e Agamennone avrebbe dovuto approvarne la presenza nell’ambasceria. "Che cosa succederà, ora?" penso.

«Se vieni con noi alla tenda di Achille, vecchio Fenice» ammonisce Odisseo «devi restare nell’atrio insieme con gli araldi Odio ed Euribate ed entrare o parlare solo a un mio comando. Queste sono le mie condizioni.»

«Ma…» dico di nuovo e capisco quanto sia inutile ogni protesta. Se Odisseo si insospettisce maggiormente e mi rimanda al campo di Agamennone, il mio trucco va a farsi friggere e con esso l’intero piano di aizzare i mortali contro gli dèi. «Sì, Odisseo» dico, a capo chino come avrebbe fatto il vecchio domatore di cavalli e tutore di Achille. «Come tu comandi.»

Odisseo e Aiace riprendono il cammino lungo il mare risonante e io li seguo.

Ho già parlato della tenda di Achille e potreste averla immaginata come una sorta di tenda da campeggio, ma il figlio di Peleo sta in una struttura di tela che si avvicina in dimensioni al tendone di un circo viaggiante che ricordo dalla mia infanzia… da quello che "comincio a ricordare" della mia infanzia. Thomas Hockenberry, a quanto pare, ha avuto una vita: dopo quasi dieci anni qui, alcuni ricordi mi filtrano di nuovo nella mente.

Stanotte le centinaia di tende e di falò intorno alla grande tenda di Achille sono una scena caotica come il resto dell’accampamento acheo lungo più di un chilometro, con alcuni mirmidoni fedeli ad Achille che caricano le nere navi per la partenza, altri di vedetta sui bastioni per difendere la loro zona di spiaggia, se mai i troiani vi penetrassero prima dell’alba, e altri ancora raccolti intorno ai fuochi di campo, proprio come i condottieri di Agamennone.

Odio ed Euribate hanno annunciato il nostro arrivo ai capitani delle guardie e le guardie personali di Achille scattano sull’attenti e ci fanno entrare nel recinto interno. Lasciamo la spiaggia e risaliamo una bassa duna fino all’altura dov’è posta la tenda di Achille. Seguo i due achei: Aiace il Grande china la testa per varcare l’ingresso interno, più basso, mentre Odisseo, che arriva appena alla spalla del compagno, entra senza dover chinare la testa. Odisseo si gira e mi indica dove fermarmi, nell’atrio vicino all’ingresso. Se resto lì, vedo e ascolto ciò che accade dentro, ma non posso intervenire.

Achille, proprio come ha narrato Omero, è impegnato a suonare la lira e a declamare un epico canto di antichi eroi non molto diverso dall’Iliade stessa. La lira, lo so, è bottino di guerra, ottenuto quando Achille ha conquistato Tebe e ucciso il padre di Andromaca, Eezione. La moglie di Ettore è cresciuta ascoltando quello stesso strumento d’argento suonato nel focolare domestico della residenza reale. Ora Patroclo, il più caro amico di Achille, seduto di fronte a lui, aspetta che questi termini la sua parte per declamare i versi conclusivi.

Quando entrano Aiace e Odisseo, Achille smette di pizzicare la lira e si alza, sorpreso. Anche Patroclo si alza precipitosamente.

«Benvenuti!» esclama Achille. Rivolge un gesto a Patroclo. «Guarda, sono venuti due cari amici, i miei più cari in tutte le schiere degli achei, anche nell’ira lo riconosco. Dev’esserci un disperato bisogno di me, se sono qui.»

Fa accomodare i due emissari su bassi seggi, sui quali getta spessi tappeti color porpora. A Patroclo dice: «Su, figlio di Menezio, sistema qui un cratere più grande. Qui, mettilo qui. Mesceremo vino più forte. Una coppa per ciascuno dei miei nobili ospiti, poiché sotto il mio tetto ci sono gli amici che ho più cari».

Osservo lo svolgersi di questi rituali, sorprendentemente gentili, di eroica ospitalità. Patroclo sistema accanto al focolare un pesante tagliere e vi pone la lombata di una pecora e di una capra e il dorso, marezzato di grasso, di un maiale. Automedonte, amico e auriga sia di Achille sia di Patroclo, tiene fermi i pezzi di carne mentre Achille taglia le fette migliori, le cosparge di sale e le infila sugli spiedi. Patroclo ravviva il fuoco per un minuto, poi allarga i tizzoni, pone gli spiedi nella parte più calda del focolare e sala di nuovo la carne.

Mi accorgo d’essere affamato. Se mi chiamassero a parlare adesso (e se ne dipendesse il destino di tutti noi) non potrei profferire parola perché ho la bocca piena d’acquolina.

Come se avesse udito il brontolio del mio stomaco, Achille guarda fuori e quasi mi gela di sorpresa. «Fenice!» esclama. «Onorato mentore, nobile domatore di cavalli! Ti credevo ammalato e chiuso nella tenda, in queste ultime settimane. Entra, entra!»

Viene nell’atrio, mi abbraccia e mi guida nella parte centrale della tenda, illuminata dal fuoco, dove ora l’aria profuma di arrosto di maiale e di montone. Odisseo mi fulmina con lo sguardo e in silenzio mi ammonisce di tacere durante la discussione.

«Siedi, siedi, amato Fenice» dice Achille, un tempo allievo del vecchio. Però mi sistema su cuscini rossi, non porpora, e un po’ più distante dal fuoco rispetto a Odisseo e Aiace. Non rinnega le vecchie amicizie, ma rispetta il protocollo.

Patroclo porta cesti di giunco pieni di pane fresco; Achille toglie dagli spiedi la carne e mette su piatti di legno le fumanti porzioni. «Sacrifichiamo agli dèi, amici» declama, con un cenno a Patroclo che getta tra le fiamme le primizie, le fette di carne scelte come offerta votiva. «Ora mangiate» ordina quindi e tutti noi ci dedichiamo con impegno al pane, alla carne, al vino.

Mentre mi gusto il cibo, corro con la mente: come troverò il modo di fare la dichiarazione che cambierà il destino dei presenti nella tenda e degli dèi stessi? Pareva semplicissimo, un’ora fa; ma Odisseo non ha bevuto la storia che Agamennone mi ha mandato come emissario. Nel poema Odisseo parla quasi subito, riferisce ad Achille l’offerta di Agamennone; Achille replica, in quello che ai miei allievi indicavo come il discorso più bello, più straordinario di tutta l’Iliade; poi Fenice si lancia in un lungo monologo in tre parti, all’inizio la sua storia personale, poi la parabola delle preghiere e alla fine un’allegoria della situazione di Achille, il mito di Meleagro, un paradeigma nel quale un mitico eroe aspetta troppo ad accettare i doni offerti e a combattere per i suoi amici. Tutto sommato, il discorso di Fenice è di gran lunga la più interessante petizione dei tre ambasciatori inviati a persuadere Achille. E, secondo l’Iliade, è proprio l’argomentazione di Fenice a convincere l’adirato Achille a infrangere il giuramento di ripartire l’indomani. Alla fine del discorso di Aiace, dopo il mio, Achille accetta di rimanere ancora un giorno per vedere che cosa faranno i troiani e, se necessario, proteggere da loro le sue navi.

Il mio piano consiste nel ripetere a memoria una parte del lungo discorso di Fenice e poi inserire il mio suggerimento. Ma vedo Odisseo farmi gli occhiacci dall’altra parte della tenda e capisco che non avrò la possibilità d’intervenire.

E se l’avessi? Ho riflettuto sul fatto che gli dèi terranno d’occhio questo pasto: in fin dei conti è uno dei passaggi chiave dell’Iliade, anche se forse il solo Zeus lo sa in anticipo. Ma anche senza saperlo in anticipo, di sicuro alcuni dèi e alcune dee osservano questa cena nelle loro videopiscine e nelle loro tavole di immagini. Zeus ha ordinato a tutti di non intervenire oggi e molti si adeguano al suo ultimatum, ma l’ordine divino dovrebbe accrescere la loro curiosità sull’ambasceria ad Achille. Se stanotte questi si lascia corrompere dai doni di Agamennone e dal potere di persuasione di Odisseo, allora l’offensiva di Ettore e forse perfino la volontà di Zeus stesso sono destinate al fallimento. Achille da solo vale un esercito.

Perciò se stanotte istigo all’eresia Achille, come ho progettato, se lo spingo alla guerra contro gli dèi, Zeus non interverrà subito a fulminare questa tenda con tutti i suoi occupanti? E anche se Zeus tratterrà la sua ira, posso benissimo immaginare Atena (o Era o Apollo o uno degli altri dèi interessati) scendere in picchiata a distruggere questo… "Fenice"… che ha suggerito una linea d’azione così contraria ai loro fini. Ho già considerato queste possibilità, naturalmente, e confido nel medaglione TQ e nell’Elmo di Ade per scamparla.

E se mi salvo di nuovo con la fuga, ma questi eroi finiscono uccisi o dissuasi dall’ira degli dèi? Non avrei cavato un ragno dal buco e la mia esistenza sarebbe rivelata a tutte le divinità. Allora l’Elmo di Ade e il medaglione TQ non mi sarebbero di alcun aiuto, gli dèi mi darebbero la caccia sino in capo al mondo, fino all’Indiana della preistoria, se necessario. E fine della storia, come si suol dire.

Forse Odisseo mi ha fatto un favore, non lasciandomi parlare.

Ma allora perché sono qui?


Dopo esserci satollati per bene, messi da parte i piatti e lasciate nei cesti solo le briciole, pronti per la terza coppa di vino, Aiace fa un piccolo cenno a Odisseo.

Il grande stratega coglie il segnale e alza la coppa per brindare ad Achille. «Salute, o Achille!»

Beviamo tutti e il giovane eroe china la bionda testa in segno di ringraziamento.

«Non manchiamo di niente in questo banchetto» continua Odisseo, con voce sorprendentemente bassa e calma, quasi melliflua. Di tutti i grandi condottieri achei, quest’uomo barbuto è quello che parla in modo più affabile e ambiguo. «Non manchiamo di niente tanto nel campo di Agamennone quanto qui nella casa del figlio di Peleo. Ma non è il pensiero di un copioso banchetto che abbiamo per la testa in questa notte tempestosa, no, è una ben grave sciagura, creata e voluta dagli dèi, che ci aspettiamo e temiamo stanotte.»

Odisseo continua, lentamente, pacatamente, senza mai affrettarsi, cercando di rado effetti retorici. Descrive la disfatta del pomeriggio, la vittoria dei troiani, il panico degli achei e la loro voglia di darsi alla fuga, la complicità di Zeus.

«Gli impudenti troiani e i loro presuntuosi alleati hanno rizzato le tende a un tiro di sasso dalle nostre navi, o Achille» dice Odisseo, come se Achille non l’avesse già saputo da Patroclo, da Automedonte e dagli altri suoi amici. O semplicemente non l’avesse visto dall’altura dove è posta la tenda.

«Ora niente può fermarli» continua Odisseo. «Così si vantano; e migliaia di falò, stanotte, uniscono alla vanteria la minaccia. Alle prime luci dell’alba i troiani intendono portare quei fuochi alle nostre navi e poi lanciarsi contro gli scafi anneriti dalle fiamme per massacrare i superstiti. E Zeus, figlio di Crono, manda loro segni d’incoraggiamento, fulmini che cadono sulla nostra ala sinistra, mentre Ettore infuria, ubriaco della sua stessa forza. Ettore non teme nessuno, o Achille, né uomo né dio. Oggi somiglia a un cane rabbioso e i demoni della katalepsis lo tengono nella loro stretta.»

Fa una pausa. Achille non apre bocca. Non mostra emozione. Patroclo continua a fissare in viso l’amico, ma Achille nemmeno guarda dalla sua parte. Sarebbe un magnifico giocatore di poker.

«Ettore non vede l’ora che spunti l’alba» riprende Odisseo, con voce anche più affabile, ora «perché alle prime luci minaccia di troncare le gallocce a poppa delle nostre navi, appiccarvi il fuoco che tutto consuma e, con i nostri compagni intrappolati contro gli scafi in fiamme, inseguire e uccidere noi achei fino all’ultimo uomo. Un incubo, o Achille: ho paura con tutto il cuore, ho paura che gli dèi diano a Ettore i mezzi per realizzare le minacce e che il nostro destino sia di morire qui nella piana di Ilio, lontano dalle colline di Argo dove pascolano i cavalli.»

Si ferma di nuovo e Achille tace. Le braci morenti scoppiettano. Da qualche parte, a varie tende di distanza, qualcuno suona sulla lira un lento canto funebre. Dalla direzione opposta giunge la risata da ubriaco di un guerriero che ovviamente si ritiene già condannato.

«Su, allora, Achille!» dice Odisseo, alzando finalmente la voce. «Su, in piedi con noi, anche se è l’undecima ora, se vuoi salvare dal massacro troiano i condannati figli degli achei.»

Ora chiede ad Achille di accantonare l’ira e riporta l’offerta di Agamennone, usando le stesse parole del re per descrivere i tripodi e la dozzina di cavalli da corsa e tutto il resto. Penso che la faccia un po’ troppo lunga sulla descrizione dell’intatta Briseide e delle fanciulle troiane in attesa d’essere stuprate e sulle tre belle figlie di Agamennone, ma termina con un’appassionata perorazione, ricordando ad Achille il consiglio del suo stesso padre, l’ammonimento di Peleo a dar valore all’amicizia, non alle liti.

«Ma se nel cuore alberghi tanto odio per il figlio di Atreo da non accettare quei doni» conclude Odisseo «abbi almeno compassione di tutti noi achei. Unisciti a noi nella battaglia e salvaci adesso e noi ti onoreremo come un dio. Ricorda inoltre che se l’ira ti trattiene dal combattere, se lo sdegno ti rimanda a casa sul mare scuro come vino prima che la guerra contro Troia sia finita, non saprai mai se saresti stato tanto abile da uccidere Ettore. Ecco l’occasione per questa tua aristeia, o Achille, poiché domani la frenesia omicida porterà Ettore al combattimento ravvicinato, dopo tutti gli anni in cui è rimasto in disparte dietro le alte mura di Troia. Resta e combatti con noi, nobile Achille, e ora, per la prima volta, in combattimento avrai di fronte Ettore.»

Devo ammettere che il discorso di Odisseo è stato una recita di prim’ordine. Forse mi sarei lasciato persuadere, se fossi stato il giovane semidio sdraiato sui cuscini a due metri da me. Restiamo tutti in silenzio, finché Achille non posa la coppa di vino e replica.


«Nobile figlio di Laerte, seme di Zeus, stratega pieno di risorse, caro Odisseo, devo dire con franchezza e onestà cosa provo e come tutto ciò finirà, così non continuerete ad assillarmi, un’ambasciata dopo l’altra, con blandizie e toni dimessi, uno dopo l’altro, come una fila di tortore in amore.

«Tanto detesto la Morte, le buie porte dell’Ade, quanto detesto un uomo che con le labbra dice una cosa e nel cuore ne cela un’altra.»

A queste parole rimango sorpreso. È forse una frecciata a Odisseo, "stratega pieno di risorse", noto a tutti gli achei come un tipo che piegherebbe la verità, se servisse ai suoi scopi? Forse. Ma Odisseo non reagisce in alcun modo, così mantengo neutra l’espressione di Fenice.

«Parlerò con chiarezza» continua Achille. «Agamennone mi riconquisterà forse, mi persuaderà con tutti questi… doni?» Quasi sputa l’ultima parola. «No. Per niente al mondo. E neppure tutti gli eserciti e i condottieri degli achei potrebbero convincermi a tornare, perché la loro gratitudine è troppo misera e troppo tardiva. Dov’era questa riconocenza, durante gli anni e anni di battaglia contro i loro nemici, uno scontro dopo l’altro, giorni e giorni in corazza, combattendo ogni ora, senza che la fine fosse in vista?

«Dodici città ho assalito dalle mie navi; undici le ho conquistate, bagnando di sangue troiano il fertile suolo delle terre di Ilio. E da tutte quelle città ho portato via montagne di bottino e orde di belle fanciulle in lacrime; e sempre ho dato la parte migliore del bottino ad Agamennone, a quel "figlio di Atreo", al sicuro sulle veloci navi o rimpiattato ben dietro le linee. E lui tutto ha preso. Tutto e di più.

«Oh, sì, a volte ha dato le briciole a te e agli altri condottieri, ma ha sempre tenuto per sé la parte del leone. A tutti voi, della cui fedeltà ha bisogno per sostenere il suo regime, Agamennone dà. Solo a me prende! Compresa la schiava che sarebbe divenuta mia moglie. Bene, vaffanculo questa storia e vaffanculo lui e vaffanculo lei, miei cari compagni. Agamennone s’impali pure Briseide… fino all’elsa, se ancora ce la fa, quel vecchio.»


Esposte di nuovo le sue rimostranze, Achille continua e si chiede perché i suoi mirmidoni e gli achei e gli argivi dovrebbero combattere questa guerra. «Per Elena e i suoi sciolti e lucenti capelli?» chiede, sprezzante; dice che Menelao e suo fratello Agamennone non sono i soli a cui manca la moglie, ricorda a Odisseo che la sua stessa Penelope non vede il marito da dieci lunghi anni.

E io penso a Elena seduta nel suo letto, solo poche notti fa, i lucenti capelli sciolti sulle spalle, i candidi seni illuminati dal chiarore delle stelle.

È dura prestare attenzione ad Achille, anche se il suo discorso è splendido e stupefacente proprio come lo riporta Omero. Nel suo breve monologo, Achille scardina il codice eroico che fa di lui un supereroe, il codice etico che fa di lui un dio agli occhi dei suoi uomini e dei suoi pari.

Dice di non nutrire l’ambizione di battere il glorioso Ettore, di non volerlo uccidere né di voler morire per mano sua.

Dice che prenderà i suoi uomini e partirà all’alba, lasciando gli achei al loro destino, alla misericordia di Ettore, quando l’indomani i troiani attraverseranno il fossato e i bastioni.

Dice che Agamennone è un cane con una corazza d’ignominia, dice che non sposerebbe una sua figlia neanche se per portento la fanciulla avesse l’aspetto di Afrodite e le qualità di Atena.

Poi dice una cosa davvero stupefacente: sua madre, la dea Teti, gli ha rivelato che due destini si presenteranno a lui in questo giorno. Se resta qui, assedia Troia, uccide Ettore e poi muore nel giro di qualche giorno; in questo modo, ha detto Teti, avrà gloria eterna nel ricordo di uomini e dèi insieme. L’altro destino consiste nella fuga: salpare verso la patria, perdere l’orgoglio e la gloria, ma vivere una vita lunga e felice. La scelta spetta a lui, gli ha rivelato sua madre, anni prima.

Achille, ci dice ora, sceglie di vivere. Questo… questo… eroe, questa massa di muscoli e di testosterone, questo semidio e leggenda vivente preferisce la vita alla gloria. Odisseo lo guarda a occhi socchiusi, incredulo; Aiace resta a bocca aperta.

«Perciò, Odisseo, Aiace, tutt’e due fratelli per me, tornate dai grandi condottieri dell’Acaia» conclude Achille. «Riferite la mia risposta. Siano loro a escogitare il modo per salvare le concave navi e gli uomini che domani a quest’ora saranno spinti a ridosso degli scafi in fiamme. In quanto al qui presente e silenzioso Fenice…»

Si gira verso di me e io faccio un salto di un palmo sul tappeto. Ero talmente preso a preparare ciò che ho da dire, con tutte le sue implicazioni morali, da dimenticare che qui è in corso una discussione.

«Fenice» sorride con indulgenza Achille «mentre Odisseo e Aiace devono fare rapporto al loro "padrone", tu sei libero di passare qui la notte, con Patroclo e con me, e di imbarcarti con noi, giunta l’alba. Ma solo se ne hai voglia. Non costringerei mai nessuno a fuggire.»

Ecco l’occasione buona per parlare. Senza badare al cipiglio di Odisseo, mi guardo intorno, mi alzo con impaccio, mi schiarisco la voce e inizio il lungo discorso di Fenice. Come inizia? Dopo tanti anni di insegnamento e di studio, di apprendimento di tutte le sfumature di ogni parola greca… ora ho la mente vuota.

Aiace si alza. «Mentre questo vecchio sciocco cerca di decidere se fuggire o no, Achille, ti dico che sei tanto sciocco quanto il vecchio Fenice!»

Achille, quell’uccisore di uomini che non tollera nessun insulto alla propria persona, l’eroe che porterà al massacro tutti gli amici achei pur di non sopportare l’offesa di Agamennone a proposito di una schiava, si limita a sorridere e a inarcare il sopracciglio all’insulto diretto di Aiace.

«Rinunciare alla gloria e a venti bellissime fanciulle per una sola donna che non puoi nemmeno avere… bah!» esclama Aiace e si gira. «Vieni, Odisseo, questo ragazzo d’oro non ha mai bevuto al capezzolo dell’amicizia umana. Lasciamolo alla sua ira e portiamo il triste messaggio agli achei in attesa. L’alba di domani si avvicina in fretta e io almeno ho bisogno di qualche ora di sonno prima di combattere. Se morirò domani, voglio morire sveglio.»

Odisseo annuisce, si alza, annuisce di nuovo in direzione di Achille e segue Aiace il Grande fuori della tenda.

Sono ancora a bocca aperta, pronto a recitare la lunga orazione di Fenice — quell’ingegnosa orazione! — con i miei ingegnosi emendamenti e programmi nascosti.

Patroclo e Achille si alzano, si stiracchiano, si scambiano occhiate. È chiaro che s’aspettavano l’ambasciata e conoscevano in anticipo la sconvolgente risposta.

«Fenice, vecchio padre, amato dagli dèi» dice cordialmente Achille «non so che cosa realmente ti abbia portato qui in questa notte tempestosa, ma ben ricordo quando, bambino, mi prendevi in braccio e mi portavi a letto dopo la lezione. Resta qui stanotte, Fenice. Patroclo e Automedonte ti prepareranno un soffice letto. Domattina salperemo verso casa e tu potrai venire con noi o restare.»

Mi rivolge un cenno e passa nella zona letto in fondo alla tenda; rimango lì, come lo sciocco che sono, ammutolito in ogni senso, sbalordito per questa folle deviazione dalla trama dell’Iliade.

Achille deve essere convinto a restare, anche se non si unisce al combattimento, in modo che l’Iliade si dipani in questo modo, troiani ancora vincenti e greci in ritirata, con tutti i grandi condottieri feriti, Odisseo, Agamennone, Menelao, Diomede, tutti; allora Patroclo, provando compassione per i suoi amici e sapendo che Achille non scenderà in campo, indosserà l’armatura dorata di Achille e ricaccerà indietro i troiani finché, in singolar tenzone con Ettore, non sarà ucciso e il suo cadavere non sarà violato e profanato. La morte di Patroclo spingerà Achille a uscire dalla tenda, pieno d’ira omicida, e determinerà il fato di Ettore e di Ilio e di Andromaca e di Elena e di tutti noi.

"Salperà davvero?" mi chiedo. Non riesco a capacitarmi. Non solo non ho trovato il fulcro né cambiato la situazione, ma ora tutta l’Iliade è uscita dai binari. Da più di nove anni sono qui come scoliaste, a guardare e osservare e riferire alla Musa, e nemmeno una volta c’è stata una sensibile discrepanza fra gli eventi di questa guerra e la narrazione di Omero. Ora invece… Se Achille se ne va (e tutto lascia credere che all’alba se ne andrà davvero) gli achei saranno sconfitti, le loro navi saranno bruciate, Ilio sarà salva ed Ettore, non Achille, sarà il grande eroe del poema epico. Pare poco probabile che l’Odissea di Odisseo abbia luogo… di certo non nel modo in cui è stata cantata. Tutto è cambiato. "Solo perché il vero Fenice non era lì a fare la sua vera orazione?" penso. "Oppure perché gli dèi hanno interferito in questo punto focale prima che potessi farlo io?" Non lo saprò mai. La mia occasione di convincere Achille e Odisseo è svanita per sempre, il mio piano ingegnoso è fallito.

«Vieni, vecchio Fenice» dice Patroclo; mi prende per il braccio come se fossi un bambino e mi conduce in una stanza laterale nella grande tenda, dove sono pronti cuscini e coperte. «È ora di andare a letto. Domani è un altro giorno.»

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