Il sommergibile del moravec Mahnmut di Europa precedeva di tre chilometri il kraken e continuava a distanziarlo. Il piccolo Mahnmut, una creatura artificiale parzialmente organica, si sarebbe dovuto sentire rassicurato; invece era tutt’altro che tranquillo, perché i kraken spesso estendono i tentacoli fino a cinque chilometri.
Era una scocciatura. Peggio, una distrazione. Mahnmut aveva quasi terminato la nuova analisi del Sonetto 116, era ansioso d’inviarla per e-mail a Orphu su Io e ci mancava solo che il kraken inghiottisse lui e il sommergibile. Lanciò un impulso sonar per misurare la distanza dal kraken, verificò che l’enorme e affamata massa gelatinosa lo inseguiva ancora con un furioso agitare di tentacoli, poi si interfacciò con il reattore per il tempo necessario ad aumentare di altri tre nodi la velocità dell’imbarcazione.
Il kraken, che pareva un pesce fuor d’acqua, così lontano dai suoi abissi naturali e così vicino alla regione di Conamara Chaos e ai canali sgombri, agitò i tentacoli per non restare indietro. Finché mantenevano la stessa velocità, pensò Mahnmut, il kraken non sarebbe riuscito a estendere del tutto i tentacoli e a inghiottire il sommergibile; ma se il piccolo sottomarino avesse incontrato un ostacolo, per esempio un grosso banco di fuchi lampo, e avesse dovuto rallentare o peggio ancora si fosse impigliato in quei luminosi filamenti di sostanza appiccicosa, allora il kraken si sarebbe gettato su di lui come un…
«Oh, be’, maledizione» disse Mahnmut, lasciando perdere il tentativo di trovare la similitudine appropriata e parlando ad alta voce nel silenzio della ristretta nicchia ambientale del sommergibile. I suoi sensori erano collegati ai sistemi dell’imbarcazione e gli occhi virtuali gli mostrarono, più avanti, grossi grumi di fuchi lampo. Le luminose colonie seguivano le correnti isoterme per cibarsi delle rossastre vene di solfato di magnesio che salivano fino alla banchisa come tante radici insanguinate.
Mahnmut pensò: "Immersione", e il sommergibile scese di venti chilometri, evitando solo di qualche decina di metri le più basse colonie di fuchi lampo. Il kraken si tuffò all’inseguimento. Se fosse stato capace di ridere, in quel momento avrebbe riso di gusto: quella era la profondità perfetta per uccidere la preda.
Con riluttanza Mahnmut cancellò dal proprio campo visivo il Sonetto 116 ed esaminò le varie possibilità. Sarebbe stato imbarazzante finire divorato da un kraken a meno di cento chilometri da Conamara Chaos Central. Colpa dei maledetti burocrati: avrebbero dovuto ripulire dai kraken quel tratto di mare, prima di convocare in riunione un loro esploratore moravec.
Poteva uccidere il kraken, certo. Ma non c’erano sommergibili di raccolta nel raggio di mille chilometri e il magnifico animale sarebbe stato ridotto a brandelli e divorato dai parassiti delle colonie di fuchi lampo, dagli squali salmastri, dalle serpule libere e da altri kraken, molto prima dell’arrivo di un raccoglitore della compagnia. Sarebbe stato davvero uno spreco.
Mahnmut si scoEegò dalla vista virtuale il tempo necessario per dare un’occhiata in giro alla nicchia, come se dall’ingombra realtà potesse ricavare un’idea. Ebbe successo.
Sul banco di comando, insieme al volume delle opere di Shakespeare, rilegato in pelle, e all’analisi della Vendler, c’era la Lava Lamp, avuta in regalo dal suo vecchio compagno moravec Urtzweil, quasi venti anni terrestri prima.
Mahnmut sorrise e tornò in vista virtuale su tutte le ampiezze di banda. Così vicino a Chaos Central ci sarebbero stati di sicuro dei diapiri e i kraken detestavano i diapiri.
Infatti. Quindici chilometri a sud-sudest un’eruzione di diapiri si alzava lentamente verso la calotta di ghiaccio, con lo stesso languido movimento delle bolle nella Lava Lamp. Mahnmut puntò verso il diapiro più vicino in salita verso un canale sgombro e accelerò di altri cinque nodi solo per stare sul sicuro, ammesso che si possa essere al sicuro nel raggio d’azione dei tentacoli di un kraken adulto.
Un diapiro non era altro che una bolla di ghiaccio riscaldato dalle bocche vulcaniche e dalle zone calde gravitazionali, molto più in basso, che risaliva nel mare di sale inglese verso la calotta di ghiaccio che un tempo copriva il cento per cento di Europa e che adesso, millequattrocento anni terrestri dopo l’arrivo della compagnia di lavoratori criorobot, rivestiva ancora più del novantotto per cento del satellite. Quel diapiro aveva un diametro di circa quindici chilometri e aumentava velocità a mano a mano che risaliva verso la calotta di superficie.
I kraken non amavano le proprietà elettrolitiche dei diapiri. Si rifiutavano di sporcare con quella robaccia anche solo i tentacoli sonda, per non parlare delle braccia assassine e delle fauci.
Il sommergibile di Mahnmut raggiunse la bolla dieci chilometri buoni prima del kraken inseguitore, rallentò, morfizzò lo scafo esterno per resistere all’impatto, ritrasse sensori e sonde e penetrò nel globo di ghiaccio sciolto. Mahnmut usò sonar e sensori esterni per controllare gli strati lenticolari e i canali di navigazione ancora ottomila metri più in alto. Nel giro di qualche minuto il diapiro stesso si sarebbe spiaccicato contro la spessa calotta di ghiaccio, sarebbe risalito da fenditure, strati lenticolari e canali sgombri e avrebbe proiettato a cento metri d’altezza un getto di fanghiglia di ghiaccio. Per un breve periodo quella parte di Conamara Chaos sarebbe stata simile al parco di Yellowstone dell’America dell’Età Perduta, con i geyser di zolfo rosso e le sorgenti calde. Poi la scia di spruzzaglia si sarebbe dispersa nella gravità di Europa, un settimo di quella terrestre, e sarebbe ricaduta, come una tempesta di fango alla moviola, per chilometri ai due lati di ogni strato lenticolare superficiale; quindi si sarebbe ghiacciata nella sottile atmosfera artificiale, cento millibar in tutto, aggiungendo ai già torturati campi di ghiaccio altre forme simili a sculture astratte.
Mahnmut non poteva essere ucciso in senso letterale (pur in parte organico, "esisteva", non "viveva", ed era progettato in modo che fosse resistente) ma non ci teneva proprio a diventare parte di uno schizzo o di una scultura astratta congelata per i prossimi mille anni terrestri. Per un minuto dimenticò sia il kraken sia il Sonetto 116 e si concentrò sui calcoli (velocità di salita del diapiro, avanzata del sommergibile nella fanghiglia, rapido avvicinamento della calotta glaciale) e poi trasmise gli ordini alla sala macchine e alle casse di zavorra. Se funzionava, sarebbe uscito sul lato sud del diapiro, mezzo chilometro prima dell’impatto con il ghiaccio, e sarebbe andato avanti tutta, facendo un’emersione d’emergenza proprio mentre l’onda di marea del getto del diapiro veniva compressa nel canale sgombro. Allora avrebbe sfruttato l’accelerazione di cento chilometri all’ora per mantenersi più avanti dell’effetto geyser (in pratica usando il sommergibile come una tavola da surf per metà della distanza da Conamara Chaos Central). Avrebbe dovuto fare in superficie gli ultimi venti chilometri fino alla base, mentre l’onda di marea si dissipava, ma non aveva scelta. Sarebbe stata un’entrata in scena spettacolare.
A meno che un ostacolo non bloccasse il canale, più avanti. A meno che un altro sommergibile in arrivo da Conamara Chaos Central non occupasse il canale. Ci sarebbe stato qualche secondo d’imbarazzo, poi Mahnmut e il Dark Lady sarebbero stati distrutti.
Almeno il kraken non sarebbe stato più un fattore di pericolo. Quelle creature non salivano mai a meno di cinque chilometri dalla calotta di ghiaccio.
Immessi tutti i comandi, consapevole d’avere fatto il possibile per sopravvivere e giungere in tempo alla base, Mahnmut tornò a dedicarsi all’analisi del sonetto.
Il sommergibile di Mahnmut (battezzato molto tempo prima The Dark Lady) percorse gli ultimi venti chilometri fino a Conamara Chaos Central in un canale largo mille metri, navigando in superficie il nero mare sotto il cielo nero. Giove si levava, per tre quarti, con nubi luminose e strisce intorbidite di colori soffusi, mentre il minuscolo Io correva velocemente davanti alla faccia del gigante che sorgeva non molto sopra l’orizzonte. Ai lati del canale, dirupi di ghiaccio striato si alzavano per varie centinaia di metri, ripide pareti di un grigio opaco e di un rosso smorzato contro il cielo nero.
Mahnmut richiamò con entusiasmo il sonetto di Shakespeare.
Sonetto 116
Non sia mai ch’io ponga impedimenti
all’unione di anime fedeli; Amore non è amore
se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote
dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio:
se questo è errore e mi sarà provato,
io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.
Nel corso dei decenni Mahnmut era giunto a odiare quel sonetto. Era il tipo di poesie che gli esseri umani recitavano alle feste nuziali, nella lontana Età Perduta. Era servile. Era scadente. Non era buon Shakespeare.
Ma la scoperta di microregistrazioni con i saggi critici di una certa Helen Vendler, un critico vissuto nel diciannovesimo o ventesimo o ventunesimo secolo (la data era incerta) aveva dato a Mahnmut una chiave d’interpretazione. E se il Sonetto 116 non fosse stato, come si era sostenuto per tanti secoli, una riluttante dichiarazione, ma una confutazione violenta?
Mahnmut riguardò le "parole chiave" annotate, in cerca di sostegno. Eccole lì, da ogni verso: "non, mai, non, non, mai, non" e poi, nel verso 14, "mai, mai", un’eco del nichilista "mai, mai, mai, mai, mai" di Re Lear.
Decisamente una poesia di confutazione. Ma confutazione di che cosa?
Mahnmut sapeva che il Sonetto 116 faceva parte del ciclo del "Young Man", il Giovane, ma sapeva pure che l’espressione "Young Man" era poco più d’una foglia di fico aggiunta nei più bigotti anni successivi. Le poesie d’amore non erano inviate a un uomo, ma "all’adolescente"… di sicuro un ragazzo, probabilmente non più che tredicenne. Mahnmut aveva letto la critica della seconda metà del ventesimo secolo e sapeva che quegli "studiosi" interpretavano i sonetti in senso letterale, cioè come veri messaggi omosessuali del drammaturgo; ma sapeva anche, da lavori critici più approfonditi in epoche precedenti e nell’ultima parte dell’Età Perduta, che un’interpretazione letterale così politicamente motivata era puerile.
Nei sonetti Shakespeare aveva strutturato un dramma, Mahnmut ne era sicuro. "L’adolescente" e la successiva "Dark Lady", la Dama bruna, erano personaggi di quel dramma. I sonetti, avevano richiesto anni di scrittura, non erano nati nella foga della passione, ma creati da uno Shakespeare maturo e perfettamente consapevole. E cosa esplorava, il poeta, in quei sonetti? L’amore. E quali erano le "reali opinioni" di Shakespeare sull’amore?
Nessuno l’avrebbe mai saputo: Mahnmut era sicuro che il Bardo fosse troppo furbo, troppo cinico, troppo guardingo perfino per manifestare i suoi veri sentimenti. Ma, tragedia dopo tragedia, Shakespeare aveva mostrato come i sentimenti intensi, amore compreso, mutavano le persone in tanti "buffoni". Shakespeare, come Lear, amava i suoi Buffoni. Romeo era il Buffone della Fortuna, Amleto il Buffone del Destino, Macbeth il Buffone dell’Ambizione, Falstaff… be’, Falstaff non era il Buffone di nessuno, ma divenne Buffone per amore del giovane principe Hal e morì di crepacuore quando fu da lui abbandonato.
Mahnmut sapeva che il "poeta" nel ciclo di sonetti, a volte indicato come "Will", non era (malgrado l’insistenza di tanti superficiali studiosi del ventesimo secolo) il William Shakespeare storico, ma era invece un’altra figura drammatica creata dal drammaturgo poeta per esplorare tutte le sfaccettature dell’amore. E se quel "poeta" fosse stato, come lo sventurato conte Orsino, il Buffone dell’Amore? Un uomo innamorato dell’amore?
Mahnmut amava questo approccio. Era sicuro che riunione di anime fedeli", fra il più maturo poeta e l’adolescente, non fosse un legame omosessuale, ma una vera unione di sensibilità, un aspetto dell’amore onorato in tempi di gran lunga precedenti quelli di Shakespeare. A una prima occhiata il Sonetto 116 pareva una trita dichiarazione di quel tipo d’amore e della sua continuità nel tempo, ma se in realtà era una confutazione…
All’improvviso Mahnmut vide la soluzione. Come moltissimi grandi poeti, Shakespeare cominciava le poesie prima o dopo che cominciassero. Ma se quella era una poesia di confutazione, che cosa confutava? Cosa aveva detto il giovane al più anziano poeta istupidito dall’amore, da richiedere una confutazione così veemente?
Mahnmut protese le dita dal manipolatore primario, prese lo stilo e scribacchiò sulla tavoletta elettronica…
Caro Will,
senza dubbio a tutt’e due piacerebbe che la nostra unione di anime fedeli (poiché gli uomini non possono condividere il sacramentale matrimonio dei corpi) fosse tanto reale e duratura quanto un vero matrimonio. Ma ciò non è possibile. Le persone cambiano, Will. Le circostanze cambiano. Quando le qualità delle persone o le persone stesse svaniscono, svanisce anche l’amore. Ti amai un tempo, Will, ti amai davvero, ma sei cambiato, sei mutato, così come c’è stato un cambiamento in me e un mutamento nel nostro amore.
Sinceramente tuo
Mahnmut guardò la lettera e si mise a ridere, ma tornò serio nel capire come cambiava tutto il Sonetto 116. Ora, invece di una sdolcinata dichiarazione d’immutabile amore, il sonetto diventava una violenta confutazione del civettare del giovane, un argomento contro una simile egoistica effusione. Ora il sonetto avrebbe detto…
Non sia mai ch’io ponga (questi cosiddetti) impedimenti
all’unione di anime fedeli; Amore non è amore
se "muta quando scopre un mutamento"
o "tende a svanire quando l’altro s’allontana".
Oh, no!
Mahnmut riuscì a stento a contenere l’entusiasmo. Ogni particolare, nel sonetto e in tutto il ciclo di sonetti, ora andava a posto. Ben poco restava di quell’amore tipo "unione di anime fedeli", ben poco, tranne ira, accuse, recriminazioni, menzogne e ulteriore infedeltà, tutte cose che sarebbero comparse nel Sonetto 126, quando ormai "il Giovane" e lo stesso amore idealizzato sarebbero stati abbandonati per i volgari piaceri della "Dama bruna". Mahnmut passò in modalità virtuale e iniziò a comporre un appunto elettronico da inviare al suo fedele interlocutore nell’ultima decina d’anni terrestri, Orphu di Io.
Risuonarono clacson. Luci palpitarono nella vista virtuale di Mahnmut. Per un istante il moravec pensò: "Il kraken!". Ma il kraken non sarebbe mai salito in superficie né sarebbe entrato in un canale sgombro.
Mahnmut ripose il sonetto e gli appunti, cancellò dalla coda di trasmissione l’appunto elettronico e si collegò a sensori esterni.
Il Dark Lady era a cinque chilometri da Chaos Central, nella zona di telecomando delle basi sottomarine. Mahnmut cedette a Chaos Central il comando del sommergibile ed esaminò i dirupi più avanti.
Dall’esterno, Conamara Chaos Central assomigliava a quasi tutto il resto di Europa — un guazzabuglio di creste di pressione che spingevano dirupi di ghiaccio fino a due, trecento metri e una massa di ghiaccio che bloccava il labirinto di canali sgombri e di strati lenticolari — ma poi i segni d’abitazione divennero visibili: le nere fauci delle basi sottomarine che si aprivano, gli ascensori in movimento lungo la parete della scogliera, altre finestre nella muraglia di ghiaccio, luci di navigazione lampeggianti in cima a moduli di superficie, strutture abitabili e antenne; e molto più in alto, dove la scogliera terminava contro il nero del cielo, varie navette interlunari saldamente fissate alla piattaforma d’atterraggio.
"Veicolo spaziale a Chaos Central" pensò Mahnmut. Molto insolito. Mentre terminava la manovra d’attracco, metteva in attesa le funzioni del sommergibile e si staccava dai collegamenti, pensava: "Per cosa diavolo m’hanno fatto venire qui?".
Eseguito l’attracco, Mahnmut affrontò e superò il contraccolpo psicologico delle limitazioni sensoriali e operative impostegli dal goffo corpo più o meno umanoide; lasciò l’imbarcazione, si addentrò nel ghiaccio illuminato d’azzurro e prese l’ascensore ad alta velocità per le strutture abitative poste molto più in alto.